lunedì 16 marzo 2009

Gian Enrico Rusconi: Che mito la società civile

Da La Stampa

16/3/2009

Che mito la società civile





GIAN ENRICO RUSCONI

L’ultimo mito cui si aggrappa la sinistra è quello della «società civile», da cui trarre forza e impulso per resistere all’involuzione del sistema politico e quindi per la difesa della Costituzione. Come se il berlusconismo non nascesse dalle viscere della società civile italiana. Come se la nostra Costituzione storica non fosse il prodotto di una congiuntura ideale, politica, sociale, culturale già tramontata.

Il colmo è che chi denuncia questa situazione viene accusato o sospettato di disfattismo democratico.

Invece l’interrogativo cruciale oggi è proprio come ricostituire una democrazia funzionante in una società civile in decomposizione. Come riscrivere, eventualmente, una Costituzione che, sulla base dei valori irrinunciabili di libertà e di solidarietà che sono stati a fondamento della democrazia storica, sia all’altezza delle nuove sfide. Sfide che vengono, appunto, da una società civile disorientata sulle regole della politica, sull’autonomia dell’etica pubblica, sui comportamenti selvaggi di un sistema economico globale che si è smascherato come il regno dell’irrazionale. Con buona pace della schiera di economisti, banchieri e politici che - privi di senso del pudore - ora ci fanno le prediche sulla necessità dell’etica nel capitalismo.

Ma torniamo alla nostra Italietta. È finito il tempo del facile sarcasmo sul berlusconismo. Se ne stanno accorgendo (salvo alcune tardive eccezioni) anche i nostri vicini europei. Verso il nostro Paese adottano una diplomazia benevola accompagnata da attenta osservazione. Gli italiani - dicono - facciano pur quello che vogliono a casa loro (ormai hanno fatto di tutto), purché non turbino le regole esterne generali.

In effetti, da quando è esplosa la Grande Recessione l’Italietta se ne sta da parte, quasi inattiva. Partecipa volonterosamente alle coreografie internazionali, senza grandi pretese. Il Cavaliere lombardo sembra aver adottato l’antica ricetta napoletana del «lasciar passare la nottata». Ma lo fa con una variante decisiva: approfittare della nottata per cambiare alcune regole del sistema politico in senso presidenzialista. Con la complicità della cosiddetta società civile.

Nel nostro paese il rapporto tra sistema politico e società civile è mutato profondamente, in coincidenza con quello che disinvoltamente (cioè senza trarne le debite conclusioni) politologi e pubblicisti chiamano il «populismo democratico» inaugurato dal berlusconismo. In questo contesto chi è il «popolo»? È il popolo-degli-elettori, che è a un tempo destrutturato e politicamente polarizzato rispetto alle divisioni di classe tradizionali della società e alle loro tradizionali proiezioni partitico-politiche. La stratificazione sociale, senza perdere i suoi connotati fondamentali di classe, è diventata estremamente complessa per la diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, per la molteplicità degli stili di vita e di consumo, per l’autopercezione personale e sociale.

Non a caso Berlusconi non parla mai di «classi sociali» ma di «cittadini fortunati/sfortunati», «privilegiati/deprivilegiati», e le classi inferiori non sono più «proletarie», bensì sono composte di chi è «rimasto indietro». L’omogeneità sociale si crea soltanto nell’immediatezza (apparente) del rapporto tra leader ed elettori. Non importa se tale rapporto rischia di essere una finzione, mediatica innanzitutto.

Naturalmente anche in strutture presidenziali costituzionalmente fondate (di tipo americano o francese) esiste un rapporto diretto tra elettori e leader, che può eventualmente assumere tratti populistici. Ma nel caso berlusconiano manca una struttura istituzionale presidenziale di sostegno. È la persona stessa di Berlusconi che mira a surrogare il ruolo istituzionale presidenziale. In questo senso si può parlare di presidenzialismo informale o strisciante che insidia l’ordine costituzionale esistente - in nome del popolo-degli-elettori.

In questo contesto dove è finita la «società civile», cui si appella la sinistra? La sinistra stessa non ha ripetuto per anni che la società italiana aveva bisogno di una politica «vicino alla gente», di leader che non fossero «prigionieri dei giochi di palazzo», che fossero capaci di grandi decisioni, che semplificassero il sistema politico e ponessero fine alle risse intra-partitiche? Ebbene, Berlusconi annuncia oggi di rispondere lui a queste aspettative. Si affermi pure che le sue proposte sono sbagliate, ma non si combattono invocando una «società civile» idealizzata, che non esiste.

La società civile è l’insieme delle associazioni, gruppi e movimenti sociali che attivano risorse di fiducia, capacità di comunicazione e partecipazione, ma nel contempo rappresentano pluralità di interessi e di diritti spesso in conflitto tra loro, che esigono autonomia dallo Stato ma insieme ne richiedono la protezione. Come si vede, il quadro è complesso e difficile da gestire. Nessuno può rivendicare per sé il monopolio di interpretare i bisogni della «società civile» che esprime esigenze contrastanti.

La mutazione del regime democratico cui stiamo assistendo, associata al berlusconismo, è il risultato di molti fattori, non della semplice volontà o personalità di un uomo e dei suoi sostenitori. È il sintomo e la risposta a una crisi di rappresentanza politico-partitica in Italia e soprattutto a una crisi di capacità di governo.

Non parlerei di crisi della democrazia tout court. Il «populismo democratico», infatti, con le sue caratteristiche plebiscitario-mediatiche, è pur sempre un modo di rispondere e surrogare a deficit di rappresentanza e di decisione del sistema democratico esistente. Se è il caso, discutiamo apertamente, lealmente e in modo competente dell’opportunità o meno di una riforma in senso presidenziale (sul modello francese o altre varianti) o comunque di forme di rafforzamento dell’esecutivo in Italia (il cosiddetto premierato). Lo so che se ne parla da anni senza successo per la contrarietà non solo della sinistra ma anche dei partiti di centro (ex democristiano). Ma non c’è dubbio che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia.

Una tale discussione, del resto, non solo non esclude ma esige che si metta a fuoco una «cultura della democrazia» anche in una prospettiva presidenziale. Forse è una lacuna nella nostra esperienza storica. Sullo sfondo c’è «la società civile» - divisa, socialmente disgregata e frammentata, politicamente rassegnata, nonostante la presenza di minoranze attive o mobilitazioni di piazza che riempiono per qualche ora gli schermi televisivi, senza conseguenze politiche di rilievo. Forse più che un «fenomeno Berlusconi» esiste un «caso Italia».

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