domenica 29 marzo 2009

Sergio Ferrari: la doppia crisi italiana

Associazione LABOUR – Riccardo Lombardi

Roma, 28 marzo ‘09
La doppia crisi italiana
Sergio Ferrari*

Ammesso, e non concesso che, come alcuni sostengono, la crisi economica internazionale abbia riflessi minori nel caso italiano - un aspetto comunque non sufficiente per sminuirne la drammaticità - occorre ricordare come essa si sovrapponga ad un’altra crisi, certo meno clamorosa, preesistente nel nostro paese da alcuni decenni. “Ridotta” al dato economico questa crisi si misura infatti in una capacita di produrre ricchezza inferiore a quella di tutti paesi dell’U.E.(15). Negli ultimi venti anni questa perdita corrisponde a oltre mezzo punto percentuale di Pil all’anno. Se si vuole risalire a quando inizia questa nostra difficoltà, anche per tentare di capirne le cause, ci si può collocare a metà degli anni ’80. (V. Fig 1).















Fonte: Elaborazione su dati Eurostat

Da quegli anni il nostro sviluppo economico, sino ad allora superiore a quella media dell’Unione, incomincia a perdere colpi per avviarsi verso un declino sempre più evidente. Naturalmente questo andamento ha un rilievo in sé, ma per essere compreso occorre un confronto con i cambiamenti intervenuti nei paesi europei, in quanto deve essere successo da noi qualche cosa che non si è verificata altrove. In altri termini la ricerca di una causa del declino è una questione che implica una analisi su un orizzonte geopolitico opportuno. Un primo indizio molto significativo emerge dall’analisi dell’andamento della bilancia commerciale dei prodotti manifatturieri. In particolare se dal paniere di questi prodotti vengono distinti e aggregati i prodotti ad alta tecnologia, l’andamento del corrispondente saldo commerciale indica un anomalia dell’Italia nel senso che il nostro paese accumula un deficit crescente rispetto ad andamenti positivi degli altri paesi industrializzati. (V. Graf.1)
Una “divergenza tecnologica” di questa entità rappresenta una questione strutturale le cui origini vanno ricercate in alcune caratteristiche storiche del nostro sistema produttivo – familismo, ritardi della classe borghese, cultura crociana, crisi della grande impresa, ecc. - ma, come accennato, anche nei mutamenti intervenuti negli altri paesi. In questa direzione occorre ricordare che dall’inizio degli anni ’70 era cambiato il sistema monetario con il superamento degli accordi di Bretton Woods del 1944. Probabilmente ancora più rilevanti sono stati però gli effetti della prima crisi petrolifera che aveva colto di sorpresa tutte le economie e particolarmente quelle - cioè quasi tutte - che presentavano una forte dipendenza energetica e che, quindi, venivano colpite con un forte appesantimento dei loro equilibri commerciali. La seconda crisi energetica della fine degli anni ’70 – diversa nelle cause dalla prima – confermava una situazione non contingente che dal punto di vista commerciale imponeva un ulteriore recupero di capacità esportatrici, basate tuttavia non sull’impiego delle materie prime.

Grafico 1
Fonte: Elaborazioni su dati de” L’Osservatorio ENEA sull’Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale”.


In questo quadro che mutava le relazioni economiche internazionali, quasi tutti i paesi puntarono su una diversa competitività tecnologica, seconda la logica economica che rintraccia nel cambiamento tecnologico la variazione positiva della produttività.
Nella situazione italiana una serie di condizioni avevano portato alla ribalta un sistema produttivo centrato sulla preminenza delle PMI e delle produzioni di beni, prevalentemente di consumo, a basso contenuto tecnologico. Per svariati anni tale sistema aveva espresso capacità di sviluppo utilizzando bassi salari, svalutazioni della lira ed economie di tipo marshalliano. Un mix di successo particolarmente efficace sino al momento in cui, da un lato l’accumulo della capacità competitiva di natura tecnologica da parte degli altri paesi tendeva a spostare le specializzazioni produttive, ma intanto lasciava spazi alle produzioni italiane e, dall’altro, doveva ancora manifestarsi in termini consistenti la concorrenza da parte di paesi in via di sviluppo. Una situazione che sembrava confermare la straordinarietà di una situazione in controtendenza rispetto al quadro internazionale, per cui si è parlato di un abbastanza originale secondo miracolo economico, di una capacità di “sviluppo senza ricerca scientifica e tecnologica”. Sono stati pochi quelli che hanno cercato di richiamare l’attenzione su una situazione fortunata, ma che aveva in sè delle grandissime debolezze strutturali. Nonostante queste debolezze si andassero concretamente manifestandosi, le cause e le interpretazioni prevalenti del declino italiano si preferì, e si preferisce tuttora, ricercarle in altre condizioni, alcune risibili se non fossero drammatiche e con una prevalenza attribuita al costo del lavoro, e sebbene la realtà sia opposta, nel senso che il costo del lavoro in Italia è stato ed è inferiore a quello dei Paesi comunitari. Lo stesso recente accordo sulla contrattazione sindacale contiene elementi che confermano questa lettura e il tentativo impossibile di difendere la conservazione di un sistema produttivo che, così com’è, rappresenta la causa del declino del paese. Politicamente la questione è comprensibile in quanto modificare questa situazione significa sviluppare una politica industriale i cui ingredienti non possono essere gli incentivi, sempre ben accolti, ma dovrebbero essere rintracciati in un ruolo diverso dell’intervento pubblico, mentre da anni anche il centro-sinistra e anche gli esponenti economici di quell’area sono fossilizzati su tema del libero mercato e della mano invisibile.
Se si vanno a esaminare gli elementi strutturali del nostro sistema produttivo a confronto con gli altri paesi, occorre porre attenzione a due caratteristiche:

- la struttura dimensionale delle imprese manifatturiere percentualmente molto inferiore a quella esistente nell’UE. Di conseguenza se è fortemente maggiore la percentuale di addetti nelle piccole imprese, è anche molto minore la percentuale di addetti impegnati nelle medie e grandi imprese. (V. Tab. 1).


Tabella 1 - Percentuale di addetti per dimensione d’impresa (2005)
Con 20 o meno Con 250 o più
Ita 30,7 26,3
Fra 17 47,7
Ger 14,1 54
Fin 12,7 53,1
Sve 14,5 52,1
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat.

- una composizione professionale sostanzialmente spostata su basse qualifiche e che può essere ben rappresenta dalla dotazione di personale addetto alla ricerca che indica non solo una situazione costantemente peggiore ma, quel che è ancora più grave, un “encefalogramma” piatto rispetto ad un andamento costantemente crescente nei paesi dell’UE. (V. Graf. 2).

Grafico 2

Fonte: Elaborazione su dati OCSE.

Queste due caratteristiche, in qualche misura connesse, ne implicano altre che riguardano direttamente l’economia e il lavoro :
- un valore aggiunto nelle imprese a minor livello tecnologico che essendo mediamente inferiore del 20% rispetto a quello delle imprese ad alta tecnologia, si trasferisce sulla nostra più bassa capacità di crescita e nella minore occupazione;
- un livello retributivo nelle imprese più piccole inferiore del 20-30 % rispetto alla media-grande impresa e a parità di specializzazione produttiva.

La pesantezza di questa situazione non sta solo nelle differenze puntuali che separano l’Italia dall’Unione Europea ma anche nella tendenza al loro peggioramento.
Occorre rilevare che anche da noi vari governi hanno a più riprese approvato provvedimenti con l’intento di accrescere l’attività di ricerca e sviluppo delle imprese, anche recuperando risorse a scapito delle strutture di ricerca pubbliche, ma con risultati che dovrebbero indurre qualche riflessione.
Se queste agevolazioni potessero avere un effetto positivo non ci sarebbe molto da dire, in linea generale, e si potrebbero identificare criteri per assicurare l’interesse privato con quello pubblico. Interventi di questa natura presuppongono, tuttavia, che gli attori industriali non investano in R&S autonomamente per una specie di maggiore avarizia rispetto ai colleghi degli altri paesi. Una causa poco credibile essendo la realtà molto più semplice ed evidente, se la si vuole vedere, dal momento che gli imprenditori degli altri paesi, a parità di dimensione e di specializzazione produttiva, investono in ricerca e sviluppo più o meno quanto i nostri connazionali. In tutti i paesi l’entità della spesa in ricerca da parte delle imprese è collegata alla struttura dimensionale e alla tipologia del prodotto, cioè alla specializzazione produttiva. Queste condizioni non solo sono confermate dalle statistiche, ma hanno anche una evidenza logica che non dovrebbe richiedere particolari spiegazioni. Se si vuole modificare la specializzazione produttiva è difficile fare affidamento sulla base produttiva che si vorrebbe cambiare, perché il cambiamento di specializzazione produttiva è più vicino alla creazione di una nuova impresa che alla trasformazione di una impresa preesistente. E un’impresa ad alta tecnologia ha tre esigenze per poter nascere: disporre delle conoscenze opportune, dei relativi finanziamenti e delle capacità imprenditoriali. Il tutto con una strategia produttiva elaborata in anticipo. Il sistema industriale nazionale sembra del tutto carente nel fornire questi ingredienti. Ma poiché le logiche conseguenti richiederebbero un intervento pubblico ancora più inaccettabile del declino, si sta alimentando un circuito perverso che non è chiaro dove ci potrebbe portare, mentre i vari governi sembrano del tutto privi di politiche industriali adeguate.
Tutto questo è coperto oggi dalla crisi internazionale. Essa pone a tutti i paesi problemi gravissimi e per tempi incerti e non è ancora chiaro come e quando se ne potrà uscire.
Non è ancora chiaro nemmeno se le riflessioni sulle cause profonde della crisi che inducono a progettare modificazioni profonde del sistema produttivo e sociale – le tecnologie ambientali, già sul tappeto per motivi propri di sostenibilità dello sviluppo, la modificazione della qualità della domanda secondo il concetto del “cambiamento del motore senza fermare la macchina”, lo spostamento dei meccanismi di distribuzione delle risorse, ecc. - potranno avere uno sbocco positivo o meno, almeno a livello internazionale. Occorre mettere nel conto, infatti, l’elevata probabilità che non esistano le condizioni politiche per un processo di trasformazione di tale spessore, anche se sulla carta esistono le condizioni per cambiamenti radicali. Dalla crisi del ’29 si uscì dopo non pochi anni, ma con una serie di riforme in materia di ruolo del sindacato e redistribuzione della ricchezza, di welfare e quindi di qualità dello sviluppo rappresentata da quella che potremmo chiamare “la prima rivoluzione socialdemocratica”. Attualmente la crisi economica internazionale potrebbe dar luogo ad una seconda rivoluzione di quel tipo in parte riprendendo e sviluppando alcuni interventi di allora, particolarmente in materia di distribuzione della ricchezza, ma aggiungendo quelle modificazioni della domanda che da sole ne sarebbero il centro.
Keynes e Sylos Labini
Già negli anni ’20 Keynes, rilevava che “ i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi rientrano, tuttavia, in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione ci eleva …”. “ I bisogni della seconda categoria possono davvero essere inesauribili …..il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti..” Guardando avanti, ai progressi consentiti dallo sviluppo tecnologico e dai conseguenti aumenti della produttività, Keynes giunge alla conclusione “ che scartando l’eventualità di guerre e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo.” E’ vero che l’umanità si è “sprecata” a fare guerre, ma intanto quel secolo sta passando. E se come afferma Keynes “tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Abramo”, (cioè la domanda di beni assoluti) si può anche incominciare ad affrontare la vecchia questione del socialismo riproposta recentemente da Sylos Labini secondo il quale “ il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.”. . Coniugare e programmare queste due citazioni potrebbe costituire il mandato per elaborare un Programma/Progetto per la sinistra incominciando dall’impegno a livello europeo. Anche perché a livello internazionale per ora l’accento sembra orientato a riprendere il cammino precedente, con quegli aggiustamenti ambientali, o presunti tali, ma che non modificano le logiche di fondo.
Anche per quanto riguarda il nostro paese il sistema produttivo si dovrà misurare con i processi di selezione indotti dalle difficoltà competitive accentuate dalla crisi economica. Queste non possono che accrescere i processi di espulsione delle imprese in relazione alle diverse capacità competitive. In questo senso le debolezze strutturali derivanti dal nanismo e dalla nostra specializzazione produttiva rappresentano un fattore di maggiore rischio della nostra economia reale che potrà manifestarsi, tra l’altro, con una accresciuta riduzione dei livelli occupazionali .
A meno che non si voglia uscire da questa situazione non solo in virtù degli effetti di trascinamento esogeni ma anche cercando di superare quei fattori di debolezza che comunque ci spingevano verso il declino.

*Segretario Associazione LABOUR “Riccardo Lombardi”
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