domenica 29 marzo 2009

Andrea Romano: Lula e il compagno Biden

andrearomano
Oggi 29 marzo 2009, 16 ore fa

Lula e il compagno Biden
Oggi 29 marzo 2009, 8 ore fa

Viña del Mar. C’è sempre una prima volta, deve aver pensato il vicepresidente degli Stati Uniti quando Lula lo ha chiamato “compagno Biden” di fronte agli altri capi di stato e di governo riuniti in Cile per il summit progressista. D’altra parte quella di ieri è stata anche la prima occasione in cui l’amministrazione Obama si è presentata ad un vertice internazionale del centrosinistra, circondata da enormi simpatie e aspettative. Intorno al tavolo, oltre a Biden e Lula sedevano Zapatero, Brown, il primo ministro norvegese Stoltenberg, la presidente cilena Bachelet e l’argentina Kirchner. Un confronto tutto politico tra Europa, Stati Uniti e America Latina sulla crisi economica e sugli scenari ideali del centrosinistra. Ma soprattutto il ritorno all’orgoglio progressista per voce di chi esercita una diretta responsabilità di governo, dopo le divisioni della prima giornata del seminario cileno.

A pochi giorni dal G20 londinese, Gordon Brown ha sfoggiato la sua migliore retorica laburista con un richiamo ai valori che possono ispirare la ricostruzione del sistema economico mondiale. “Giustizia e responsabilità – ha detto il primo ministro britannico – sono i valori di fondo che ci rendono quello che siamo: progressisti e riformatori. Ma sono anche i valori che cerchiamo di far vivere nella vita quotidiana e nelle nostre famiglie, e gli stessi che la grande maggioranza della popolazione mondiale condivide nelle sue diverse identità culturali e religiose. È su questi stessi valori che dobbiamo fondare la nuova legittimazione del sistema economico internazionale, traducendoli in regole che permettano al mercato di lavorare nell’interesse pubblico”. Nello specifico, un nuovo sistema di regole per le istituzioni finanziarie internazionali e un allargamento delle competenze della Banca Mondiale ai temi dell’ambiente e della produzione energetica.

Sulla stessa lunghezza d’onda Zapatero, che cimentandosi con i fondamentali progressisti ha parlato della “nostra comune fiducia nella possibilità dell’uomo di migliorare la propria condizione attraverso la formazione e l’innovazione tecnologica”. La stessa fiducia con la quale, secondo il primo ministro spagnolo, i progressisti possono applicarsi alla democratizzazione del mercato finanziario globale importandovi gli obblighi di trasparenza e responsabilità.

Se il brasiliano Lula (oltre al titolo di “compagni” per tutti i capi di stato presenti alla discussione) ha portato al tavolo l’orgoglio per “la vigorosa ondata di democrazia popolare che sta scuotendo tutta l’America Latina e che ci permette finalmente di avere il coraggio di tradurre in pratica le nostre convinzioni”, il debutto di Joe Biden ha prevedibilmente catturato l’attenzione della scena progressista. Un discorso pragmatico, quello del vice di Obama, che ha richiamato gli europei e i sudamericani alla responsabilità di accompagnare gli USA in una nuova stagione di dialogo multilaterale: “La buona notizia è che a Washington c’è stato un vero cambiamento e che la Casa Bianca vuole sinceramente collaborare con la comunità internazionale. La cattiva notizia è che non potrete più contare sulla vecchia amministrazione come scusa per evitare un vostro impegno diretto nel mondo. Perché stavolta noi rispetteremo le regole. Ma quando le regole non funzionano più è dovere di tutti prendersi la responsabilità di scriverne di nuove”.

Particolarmente attento a non apparire pedagogico né paternalista (“Non voglio assolutamente darvi lezioni”, ha ripetuto in tre diverse occasioni) Biden ha sottolineato l’urgenza di rimettere in piedi l’economia statunitense anche come motore della crescita mondiale: “Ci lavoreremo ogni giorno senza ricette ideologiche e concentrandoci solo sulle soluzioni più efficaci per creare posti di lavoro nel settore privato, per sostenere il mercato immobiliare e per restituire vitalità al credito. La nostra ambizione non solo quella di garantire una rete di sicurezza a coloro che sono stati colpiti dalla crisi, ma di fondare le basi di una nuova economia sostenibile”.





Dario tra i progressisti tristi
Ieri 28 marzo 2009, 13.18.00
Viña del Mar. A quasi dodicimila chilometri da Roma, ben al riparo da ogni eco dell’autocelebrazione berlusconiana, Dario Franceschini si presenta al circuito progressista mondiale riunito in Cile da Policy Network e dall’Instituto Igualdad. Lo fa con un discorso in inglese condito da un leggero accento ferrarese, provando a spiegare il posto del Partito democratico in quella che fu la gloriosa carovana della Terza Via. Un compito meno difficile del previsto, perché lo stordimento ideale che attraversa il mondo progressista in questi tempi di crisi accoglie benevolmente il “caso italiano” come una particolarità tra le tante.

Tra i nuovi entusiasti del ritorno dello Stato amministratore, diffusi in particolare tra i sudamericani, e i pochi europei ancora capaci di rivendicare parole come “scelta” e “opportunità”, Franceschini sceglie la strada della “rivoluzione verde” come nuovo orizzonte del centrosinistra internazionale. Lo fa nominando Barack Obama comandante in capo del “mutamento tecnologico e produttivo che potrà cambiare l’economia europea e statunitense”, leggendo la crisi come un’opportunità per “una nuova etica pubblica che sia in grado di animare i nostri comportamenti quotidiani” e naturalmente auspicando “nuove regole globali per un nuovo multilateralismo e una profonda riforma delle istituzioni internazionali”.

C’è anche spazio per un piccolo cenno alla diversità del PD nei confronti dell’Internazionale socialista, con gli inevitabili accenni al Partito del congresso indiano e ai Democratici statunitensi come esempi di non ortodossia socialdemocratica. Ma sul tema diceva di più la stessa composizione della delegazione italiana, assente Fassino e presenti con Franceschini altri tre non socialisti come Francesco Rutelli, Lapo Pistelli e Gianni Vernetti.

Mentre il leader del PD presentava le proprie credenziali, il circuito progressista si guardava allo specchio scoprendosi confuso e diviso. Innanzitutto sui fondamentali, letti con lenti del tutto divergenti dalla sinistra europea e da quella sudamericana. Quest’ultima impegnata a celebrare “il ritorno dello Stato come ritorno della politica sullo sfondo del catastrofico fallimento del paradigma neoliberista”, nelle parole del principale consigliere politico di Lula Marco Aurélio Garcia. Il quale si è spinto a difendere il buon nome del populismo (“troppo spesso usato come insulto da coloro che vogliono attaccare le nostre politiche popolari e redistributive”), rivendicando il titolo di “progressisti” anche per il venezuelano Chavez e il boliviano Morales (non invitati al summit internazionale) e disegnando “un futuro post-capitalista” come scenario della sinistra brasiliana.


Ben altre le preoccupazioni degli europei, stretti tra l’incedere della crisi e lo sforzo per non smobilitare del tutto il capitale di idee e strumenti di governo costruito dalla metà degli anni Novanta. Abbondante la retorica, anche se sostenuta dalla tradizione migliore: come nel caso dei socialdemocratici svedesi, che per voce della nuova leader Mona Sahlin hanno ricordato i meriti storici del modello di welfare scandinavo. E poche le idee davvero buone, come quelle venute dal giovane e brillante ministro britannico del lavoro James Purnell. Un personaggio certamente destinato ad un ruolo di primo piano nel Labour del dopo-Brown e che ieri ha sfidato così il nuovo conformismo statalista: “Non è scontato che la crisi produca una situazione favorevole ai progressisti, soprattutto se cederemo alla tentazione di maledire il capitalismo. Il nostro compito è semmai quello di cambiarlo in senso più egualitario, limitando il ritorno dello Stato e usando la leva del governo per aumentare gli spazi di scelta per i cittadini su temi come la riforma dei servizi pubblici e le politiche educative”. Parole coraggiose in tempi di confusione progressista, pensieri confortanti per quello che potrebbe venire dopo la crisi.

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