giovedì 3 settembre 2009

Alberto Benzoni: Socialismo e statalismo

SOCIALISMO E STATALISMO, di Alberto Benzoni, da Mondoperaio n°5/2009

Tamburrano, nel numero di maggio di Mondoperaio, parla di “Risorgimento socialista”. E alla vigilia delle elezioni europee. Ma, attenzione, la sua è un’esortazione; o, se vogliamo, un ammonimento. E non certo una previsione elettorale.
Al contrario. Se, infatti avesse scritto il suo articolo all’indomani del 7 giugno, avrebbe cambiato semplicemente il titolo. Diciamo: “Un’occasione perduta. Le ragioni di una sconfitta”. Mantenendo, invece, le argomentazioni usate in precedenza. In sintesi: è entrata in crisi la globalizzazione liberista, senza regole e tutele; e sono tornati, di conseguenza, all’ordine del giorno i temi del ruolo dello Stato e cioè del governo dell’economia e cioè della democrazia sociale. Ma i partiti socialisti non erano, comunque, in grado di rappresentarli in modo credibile, essendo stati, a partire da Blair, cantori e praticanti delle virtù del mercato. Si è dunque creato un vuoto; riempito dalla vera vincitrice delle elezioni europee, la destra populista ed identitaria.
Un’analisi che non fa una grinza. Tanto da essere stata fatta propria dalla generalità dei commentatori (in questo caso, con il senno del poi). A completare il quadro va però ricordato che i socialisti non sono stati penalizzati perché troppo “moderati”. Se così fosse stato a beneficiare della loro flessione avrebbe dovuto essere la sinistra radicale e anticapitalista: mentre quest’ultima ha conservato a fatica le sue, molto insoddisfacenti, posizioni del 2004. Un argomento importante per la nostra discussione; un segnale del fatto che la gente ha espresso la sua protesta (votando ma, per lo più, astenendosi) non tanto nei confronti di capitalisti e banchieri, quanto piuttosto verso la “globalizzazione in sé”; tema, sarebbe bene ricordarlo da subito, che appartiene alle destre “nazionali” più che alla sinistra.
Ma, allora, siamo alla fine del socialismo? La tesi non meriterebbe particolare attenzione (anche perché ci è stata ammannita, ad intervalli vari, da più di un secolo). Se non per due motivi. Il primo è che è stata fatta propria, tra gli altri, dal nostro PD. Il secondo è che identifica le sorti del socialismo con quelle dello statalismo. Sul PD, poco da dire: l’aspirare al non essere niente per poter rappresentare tutto è, da sempre, un suo marchio di fabbrica. Singolare, e istruttivo è però che si dichiari morta e sepolta, in Italia, una appartenenza che si intende, invece, fare propria a livello europeo: socialisti al di là delle Alpi, “superatori”dei medesimi da Bolzano a Trapani.
E, ancora più istruttivo il fatto che gli esponenti dell’ineffabile PSE si siano prestati al giuoco, in una logica, per dirla volgarmente, che non riguarda la politica ma la ripartizione degli incarichi. Quanto poi all’identificazione socialismo-statalismo, è tutta da verificare. Sino a prova contraria, infatti, l’idea socialista si è identificata, sin dall’inizio, con l’emancipazione dei lavoratori e cioè con la capacità delle persone di essere “padrone del proprio destino”, individuale e/o collettivo; prospettiva di cui l’uso del potere pubblico era soltanto uno strumento. Il passaggio è importante; e non per aprire nuove dispute sui massimi sistemi (non siamo all’altezza), ma per cogliere la tela di fondo del processo di revisione affermatosi nel movimento socialista negli ultimi decenni del secolo scorso. Così, i suoi dirigenti - e non solo il famigerato Blair, ma anche Schroeder e D’Alema, Zapatero e Jospin - sposano la causa della globalizzazione non per chissà quale annebbiamento ideologico ma perché si tratta di un “orizzonte necessario”, rispetto al quale le vecchie ricette e i vecchi strumenti sono, in linea di fatto, sempre meno praticabili.
La loro scommessa, sia detto per inciso, è quella tradizionale della socialdemocrazia. Accettare, anzi promuovere, lo sviluppo del sistema, in cambio di maggiori benefici per i lavoratori e i cittadini. Ed è una scommessa che, per lunghi anni, appare vincente. Perché il boom economico mondiale coincide - e non a caso - con l’avvento al potere, in Europa, in America latina e altrove, di governi di sicura caratura democratica e con significativi disegni redistributivi (governi, tra l’altro, ancora saldamente in sella e, guarda caso, proprio nei paesi, come India e Brasile, che stanno già uscendo dalla crisi).
Così è stato in passato- più sviluppo, più socialdemocrazia così è stato ora. Ma vale anche l’inverso: e cioè più crisi più destra. Così è stato ultimamente; così erano andate le cose all’indomani della grande depressione del 1929; ne erano emersi il New Deal e la socialdemocrazia svedese; ma anche l’affermazione della destra nazista e fascistoide in gran parte dell’Europa continentale. A riprova del fatto che l’esaltazione del ruolo dello Stato, anche in economia, non è di per sé un discrimine tra i due schieramenti. Allora non rimane che attendere fiduciosi la futura ripresa (affidata alle buone cure di altri)? Forse le cose non sono così semplici, ed anche la situazione di oggi è assai meno drammatica di quella di ottant’anni fa.
Agli inizi degli anni trenta ad essere sotto scacco era la stessa democrazia liberale, e però la sinistra, socialista e comunista, aveva conservato la stragrande maggioranza del voto operaio.
Oggi il sistema non è in discussione; e però la sinistra vede un po’ dappertutto in crisi il rapporto con il suo “popolo”.
Ora, questo stato di cose non è scontato e nemmeno “normale”.
E’, piuttosto, in larga misura, per usare una metafora religiosa, frutto dei nostri peccati Peccati di omissione (o, fuor di metafora, di “ritardo”) in primo luogo. Qui scontiamo non il “troppo” ma il “troppo poco”. E cioè un internazionalismo del tutto insufficiente perché nient’affatto concreto.
Così, esaltiamo l’”Europa della pace e dei diritti”; ma non siamo affatto promotori di progetti degni di questo nome per il suo concreto futuro. Così invochiamo una globalizzazione governata; ma non ci curiamo del come e del dove. Così, viviamo in modo del tutto formale e burocratico i rapporti con gli organismi internazionali - istituzionali o di partito anch’essi, e soprattutto questi ultimi, abituati da tempo a muoversi nel nulla.
Ai “ritardi”- o peccati di omissione - si può naturalmente rimediare. Nel tempo. Più preoccupanti, invece, i peccati di “pensiero”. Quelli, per intenderci, che hanno reso la sinistra incapace non solo di difendere adeguatamente il suo popolo ma anche, e soprattutto, di parlarci e di ascoltarlo. Ascoltare era necessario. E per ragioni terribilmente concrete. Perché il mondo del lavoro “tradizionale” è quello che subisce in pieno l’impatto della globalizzazione: dalla stagnazione dei salari reali alla erosione delle tutele; dall’emigrazione dei posti di lavoro all’immigrazione delle persone, per tacere della sicurezza.
Ascoltare, per parlare; spiegare e trovare rimedi. I vecchi (socialdemocratici e comunisti) avevano, in materia, un istinto sicuro. E i loro epigoni?
Il quadro non è certo positivo (in Italia; ma non solo). Silenzio assordante sulla questione salariale (soprattutto nel privato, dove non scattano automatismi corporativi) e, più in generale su quella della (re)distribuzione dei redditi. E, sul tema centrale del rapporto immigrazione-sicurezza, totale incapacità di iniziativa politica autonoma; così da oscillare periodicamente, e penosamente, tra rincorse concrete a destra (all’insegna dello slogan: “non lasciare alla destra i temi della sicurezza”) e soprassalti di moralismo buonista (che portano ad esibizioni di retorica antirazzista fatte dalle persone sbagliate, nei luoghi sbagliati e nei confronti di persone per nulla colpevoli di questo reato). E, allora, quell’istinto si è perso. Su questo punto, Tamburano ha ragione: c’è stata una sorta di mutazione genetica. Di cui occorre però capire la natura.
L’ipotesi più scontata è quella del “cambiamento di campo”.
Qui la perdita di sensibilità di classe, insomma l’incapacità di rapportarsi con la propria gente deriverebbe dall’accettazione, tacita quanto acritica, dei principi e delle regole del capitalismo globalizzatore. E’ la versione moderna, e più sofisticata, della antica teoria del “tradimento”. Allora, i dirigenti passavano al nemico, lucidamente e in cerca di un tornaconto personale. Oggi si scivola tutti assieme magari con le migliori intenzioni e senza rendersene conto. Ma forse le cose non stanno proprio così. Forse non ci siamo trasferiti nel campo avverso; ma altrove. Non nel campo capitalista; ma in quello, a noi amico, della borghesia liberale, riflessiva, sensibile, dei valori.
Stiamo parlando (e molto sinteticamente) di un fenomeno che non riguarda soltanto l’Italia ma l’insieme dei paesi latini e molti paesi dell’Est europeo; realtà diverse ma accomunate dal fatto di avere avuto una sinistra fortemente connotata dal punto di vista ideologico. Qui il matrimonio tra sinistra e “borghesia dei valori” è stato, in primo luogo, un matrimonio d’interesse; per diventare però ben presto un matrimonio d’amore. Chiave di volta del mutamento, la caduta del muro di Berlino. Evento che, in sintesi, ha liberato la sinistra dal suo secolare passato ideologico e la borghesia dalle sue altrettanto secolari paure; portando, di conseguenza, alla loro unione sul terreno non già dei progetti ma delle comuni sensibilità, della sostituzione della politica con il moralismo; insomma, per dirla con il gergo di oggi, del “buonismo”.
A segnarne le vie la borghesia liberale e post-moderna; quella della cultura e delle professioni, del respiro internazionalista e della sensibilità morale e istituzionale, della buona volontà e del rimorso, del terzomondismo e della aspirazione alla pace. Una classe dirigente con tantissime qualità. Ma anche con “limiti di visuale” abbastanza evidenti. A partire dalla sua pressoché totale incapacità di misurarsi con il mondo reale; e quindi con il male e con il conflitto. Il suo approccio alle cose non ha nulla a che vedere con quello del vecchio popolo di sinistra. L’una e l’altro parlano lingue diverse e vedono cose diverse. E non sono perciò in grado di comunicare.
Allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui l’Europa non è in grado di comunicare con i suoi popoli.
Conclusioni? Nessuna. Salvo a dire che non è e non può essere all’ordine del giorno per la sinistra né un cambiamento di campo né un ritorno al passato. C’è, semmai, un approccio da arricchire e una posizione da ricalibrare. E rendersi conto del problema sarebbe, allo stato, un buon passo avanti.

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