mercoledì 9 settembre 2009

Boris Biancheri: Perché la democrazia non è sempre esportabile

Da La Stampa

9/9/2009

Perché la democrazia
non sempre è esportabile





BORIS BIANCHERI

Comunque si chiuda il conto elettorale, l’Afghanistan è un nuovo tentativo di costruire un paese su basi democratiche rimasto tuttora incompiuto. Che sia Karzai a restare in sella o, inaspettatamente, Abdullah a strappargli la vittoria, né l’uno né l’altro possono tenere il Paese sotto controllo. Continuerà ad essere necessario per un tempo imprecisato la presenza, e probabilmente l’aumento, delle forze della Nato prima che chi sta al governo abbia la possibilità di governare. Dopo sei anni di sforzi, il Paese è ancora da fare.

Dalla fine della Guerra fredda, siamo almeno al quarto tentativo dell’Occidente di rimettere in piedi una nazione che le vicende della storia hanno condotto allo sfacelo. Il primo fu quello della Somalia. Nell’inverno 1991-92 le opinioni pubbliche europee e americane videro con raccapriccio alla televisione un Paese in cui tutto, dall’alimentazione di base all’acqua, dalle strutture sanitarie all’ordine pubblico, era venuto meno dopo la scomparsa del dittatore Siad Barre. Il presidente Bush (padre), a mandato già scaduto, decise nell’interregno l’invio di un contingente militare per ristabilire l’ordine. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, gli vennero appresso. Bastarono pochi mesi a Clinton per capire che l’America rischiava di impegolarsi in un’avventura senza uscita e ritirò le forze statunitensi dopo che i telespettatori avevano visto, anziché la rinascita della Somalia, dei marines fatti a pezzi e trascinati cadaveri per le vie di Mogadiscio. A 18 anni da allora, la Somalia è ancora un caos.

L’esperimento di fare ex novo uno stato democratico che la comunità internazionale abbia fatto più seriamente e con apparente successo è stato quello della Bosnia. Gli accordi di Dayton, negoziati con abilità da Richard Holbrooke con i riluttanti leader dei tre gruppi etnici che esistono nel paese, quello serbo, quello croato e quello musulmano, diedero alla futura Confederazione Bosniaca un assetto costituzionale macchinoso ma ordinato e accettato da tutti. L’impegno internazionale in Bosnia è stato, tenuto conto delle dimensioni del Paese e della sua popolazione, colossale. Dopo i massacri e le pulizie etniche che avevano seguito il collasso della ex Jugoslavia, l’intervento esterno riportò la pace. Una pace costata più di dieci anni di sforzi, con la partecipazione di 17 diversi Paesi, 18 Agenzie dell’Onu e 27 Organizzazioni intergovernative e con un costo complessivo di circa 17 miliardi di dollari (300 dollari all’anno per ogni singolo abitante). E tuttavia, se guardiamo allo sforzo compiuto, il risultato è deludente. L’attività del governo della Confederazione è continuamente paralizzata da qualcuna delle tre componenti etniche e l’amalgama delle popolazioni non si è realizzato: i serbi che stanno nella Repubblica Srpska continuano a volersi riunire alla Serbia, i bosniaci croati, per non essere da meno, vogliono riunirsi alla Croazia e i musulmani sono infelici perché non hanno nessuno cui riunirsi. La loro protezione è una delle poche ragioni dell’esistenza di una stato fittizio sulla cui permanenza nel tempo è lecito avere dei dubbi. Le istituzioni democratiche ci sono, una costituzione garantista esiste, ma non esiste una efficace capacità di governo.

L’ultimo esempio è quello dell’Iraq e parla da solo. A sei anni dalla clamorosa vittoria militare e dalla liquidazione della dittatura di Saddam Hussein, il paese è dilaniato dalla rivalità tra sciiti e sunniti, per non parlare delle aspirazioni autonomistiche curde, e ampie porzioni del suo territorio si trovano in condizioni di sicurezza inaccettabili.

In nessuno di questi casi, dunque, l’impegno della comunità internazionale volto alla creazione di istituzioni democratiche sul modello dei Paesi occidentali, ha raggiunto il risultato prefisso né si è tradotto a tutt’oggi in situazioni concrete di stabilità e di ordine. Forse non è azzardato, forse è anzi realistico, trarne qualche amara lezione. Gli strumenti della democrazia, e in primo luogo il parlamento elettivo che ne costituisce l’asse portante, assolvono alla funzione di contemperare, equilibrare e assicurare il naturale avvicendamento tra le componenti politiche e ideologiche che coesistono all’interno di una stessa società. Quando il loro rapporto si modifica, l’esercizio della democrazia assicura che ciò si rifletta nell’esecutivo che dirige il Paese. Ma le istituzioni democratiche non esercitano la stessa funzione quando le divisioni che esistono all’interno di una società nazionale hanno natura etnica, o tribale, o religiosa. Perché queste ultime, al contrario degli orientamenti politico-ideologici che si modificano nel tempo, sono rigide e immutabili e l’equilibrio tra loro non si modifica se non con la forza o in tempi molto lunghi. Un tagiko non diventa pashtun a un certo momento della sua vita, un sunnita non passa al campo sciita, un bosniaco serbo non diventa croato anche se l’ultimo dirigente croato si è dimostrato abile ed efficiente.

L’idea che l’avvento della democrazia sia sufficiente a creare condizioni di convivenza civile in Paesi dove sussistono forti conflittualità di carattere etnico o religioso, come invece accade là dove i contrasti sono di ordine politico o ideologico, è probabilmente illusoria. Occorre esserne consapevoli e pensare forse anche, in futuro, a nuovi e diversi strumenti di conciliazione e compromesso.

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