domenica 29 novembre 2009

Luca Telese: Tobagi e la letteratura degli anni di piombo

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Pubblicato il 27 novembre 2009 nella sezione Il Fatto — Condividi

All’inizio non avevo capito bene, ci ho dovuto pensare su. C’era qualcosa di molto importante, nel libro di Benedetta Tobagi su suo padre, ma che io non riuscivo a inquadrare bene.
L’ho capito quasi alla fine, quando sono arrivato a un capitolo che si intitola “Voci”. in quelle pagine, che sono uno snodo decisivo di tutto il racconto, ci sono due aneddoti che potrebbero condensare tutto il senso del libro. Il primo è quello in cui Benedetta è alle prese con 98 nastri in cui Walter Tobagi ha diligentemente raccolto tutte le registrazioni delle sue interviste. Qui Benedetta è drastica: “Ci sono lezioni universitarie, qualche intervento a congressi. Il tono è vescovile, quasi soporifero”. Parla del padre che ama follemente, e a cui ha dedicato un monumento di carta di trecento pagine, insomma: ma non cede mai alla tentazione apologetica. Anzi. Sia in questo caso, che in altri passaggi decisivi, prova sempre a combatterla, e questa lotta controcorrente, è una delle sottotracce che conferisce dinamismo a tutto il racconto. Il secondo aneddoto, invece, è il cuore di tutto. Arriva proprio alla fine, quando sembra che la ricerca tra i reperti di casa, non abbia salvato proprio nulla del lessico familiare, del papà che Benedetta ha perso, e di cui non possiede nemmeno un ricordo diretto. E’ a questo punto che “Dopo aver rovistato in ogni angolo di casa, da un armadietto salta fuori una scatola di vecchie cassette scarabocchiate”. Ci sono due nastri anonimi, gusci di plastica affiorati dall’antiquariato delgi anni settanta. In uno dei due c’è un reperto di un minuto e 57 secondi che commuove (sia Benedetta, sia noi che leggiamo): “Stiamo registrando, ragazzi! Questa è la voce del papà che parla!”. Lo ho trovato, lo abbiamo trovato. Subito dopo, in un circuito di piani narrativi e di memoria, ritornano la voce con la zeppola di Tobagi (solitamente corretta dal giornalista in pubblico), la voce del fratello, e il prodigio dell’intervista scherzosa del papà alla stessa Benedetta: “Adesso si sente la voce della Bebina…”. E’ Walter che ripetutamente la invita a parlare. La bimba è riluttante, poi prende coraggio e affronta il microfono: “Tanti auguri papà”.
E’ stato a questo punto che ho capito quello che non riuscivo a mettere a fuoco, prima. Non solo su “Come ti batte forte il mio cuore”, ma su tutta l’ultima letteratura che ha dato voce alle vittime degli anni di piombo. Fino a non più di tre quattro anni fa, la memorialistica della stagione più complessa della nostra storia recente, contemplava solo le testimonianze dei carnefici. Per motivi diversi (il peso del lutto sui protagonisti e sui loro familiari, l’interesse distorto dei media, la sciatteria delle case editrici, la pigrizia dei giornalisti) sembrava che solo Caino fosse destinato a fare notizia.
E così, gli anni di piombo diventavano un ennesimo paradosso italiano, l’unico luogo del mondo e della storia, in cui la verità storica l’hanno fatta prima i vinti che i vincitori. Era più facile che si raccontasse la biografia di Valerio Fioravanti, che quella del giudice Alessandrini, era più folta la bibliografia degli ex brigatisti che quella degli ex gambizzati (fenomeno che nel cinema contina ancora oggi). Per anni c’era un solo meraviglioso libro che rompesse questa regola, “Colpo alla Nuca”, scritto dall’architetto di Sergio Lenci, sopravvissuto ad un attentato nel 1980: ma era una chicca per bibliofili, un rarità antiquaria letta da poco più di un di un migliaio di lettori. Oggi, dopo alcuni libri-chiave (il più importante è stato “Spingendo la notte più là” di Mario Calabresi, il più completo “Il Silenzio degli innocenti” di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo) arrivano le storie delle vittime, e scalano le classifiche, accumulano le ristampe una sull’altra. Con una particolarità. A scrivere è la seconda generazione: il figlio di Alessandrini, la figlia di Guido Rossa, il figlio di Torregiani, la figlia di Tobagi, Silvia la figlia di Graziano Giralucci (prima vittima delle Br, a Padova nel 1974) che sta lavorando contemporaneamente un libro e un film.
Ma questa anomalia ne ha prodotta un’altra. La prima è che il ricordo della seconda generazione non è meno nitido, ma se possibile più forte di quello della prima: possiede l’amplificazione di una emotività troppo a lungo compressa, e non conosce il filtro del pudore di chi è stato colpito direttamente. Il secondo: la letteratura “brigatese”, fatta dai protagonisti, e dagli ex più o meno pentiti, ha una funzione sostanzialmente assolutoria. La letteratura delle vittime della seconda generazione, invece, solo apparentemente, o solo indirettamente ha per oggetto il racconto della lotta armata, e ha una aspirazione civile (e una oggettiva funzione terapeutica rispetto al trauma del lutto).
Certo, la violenza poi arriva, e proprio per tutto quello che ho detto, la senti ancora di più. Arriva con la capacità mitografica della morte annunciata. Prendete “Come ti batte forte il mio cuore”. Ti si spezza il fiato in petto quando apri il capitolo che inizia con questa citazione del diario di Tobagi: “Che cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare a ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi ad ogni moto che ti si affianca L’altra mattina, 30 gennaio mi telefona Abruzzo alle 8 e mezzo. Ha la voce affranta. ‘Gresti ti vuole parlare, dice…’ è stata ritrovata – scriveva Tobagi padre – una scheda con il mio nome nella borsa 24 ore lasciata da un terrorista in viale Lombardia”. Ecco, potrebbe essere Garcia Marquez: l’incubo della lotta armata entra in scena e inizia la sua danza macabra nelle pagine, a metà del racconto. Ma non è il vero cuore narrativo di questo racconto. Penso al libro di Mario Calabresi, e quello che mi resta, due anni dopo la sua uscita, non è la storia della vita del commissario, non sono Lotta Continua e Adriano Sofri, ma l’immagine del bambino che combatte per recuperare il fotogramma di un ricordo, un abbraccio in mezzo a una folla, il padre che solleva il figlio più in alto. Penso al libro di Sabina Rossa, e – malgrado lo stilema sia quello dell’inchiesta – il cuore forte è il recupero del coraggio, le frasi lucidissime di Guido sul senso della storia e l’umanità: il comunista che fa la scelta di vita, e decide che deve testimoniare contro le raccomandazioni di tutti, a rischio della vita, seguendo un imperativo morale. La letteratura brigatista gioca con le prove a discarico, la letteratura civile delle vittime è continuamente tentata dall’assoluto, forse proprio per il desiderio di rispondere con il titanismo alla banalità del male. Sabina Rossa trova la forza di andare a cercare gli uomini del commando che sparò a suo padre: e quando li abbraccia con il suo racconto – ancora una volta le pagine più belle – scopri che dietro non hanno nulla. Volenterosi carnefici: solo automi svuotati di senso, ora che la guerra è finita.
Penso al libro di Benedetta, e se devo dire la cosa che più mi ha avvinto è la capacità di raccontare il padre sviscerando la sua biblioteca, i suo diari, il suo immaginario: l’operazione più squisitamente letteraria e meno cronachistica che si possa immaginare. E’ la Benedetta trentenne, che solo grazie alla scrittura riesce a passare – come nota lei stessa – dal ruolo di orfana, e di figlia minore – a quello di sorella maggiore, e di custode della memoria. E’ la Benedetta che indaga sui libri preferiti e sugli amori inconsolabili, che restituisce vita ai ricordi del ragazzo del Parini in giro nella Londra del Beat (“La più grande impresa del’lautostoppismo moderno è stata portata a termine!”) o dell’editorialista creativo e provocatorio sulla Zanzara. Quella che riesce a navigare “il mare di carta” che le arriva come un lascito testamentario dal padre scomparso. Quella che sostituisce al clichè del giornalista in carriera, al vezzeggiativo “Tobagino” (Giampaolo Pansa), un Walter wertheiano bruciato dalla pasisone del mestiere e quasi ossessionato dalle sue stimmate di homo novus (anzi, simapticamente “populuaris”, per stare al lemma tobagiano recuperato dalla figlia).
Benedetta Tobagi schiva con asciutta e leggiadra ironia la pubblicistica ufficiale sul giornalista-martire (“Ad un convegno dal titolo ‘Tobagi credente’ i contributi migliori sono venuti dai due relatori che si professavano atei”) e ricostruisce un suo Tobagi, diverso da tutti gli altri. Ma anche simile a lei. Ecco, è la stesso prodigio di “Spingendo la notte più in là”. Il Calabresi di Mario è anche un po’ Mario, il Tobagi di Benedetta è anche un po’ Benedetta. Questi figli progressisti proseguono le vite interrotte dei padri, e le sublimano, mentre curano con la scrittura il proprio trauma da abbandono e le proprie ferite. Il busto scoperto dall’ente locale alla piccola Benedetta sembrava “terrificante”, così come il ritratto ad olio “che uno sconosciuto aveva regalato al nonno”. Si va alla scoperta di un nuovo Tobagi, ed il lettore segue Benedetta e partecipa con lei alla ricerca. Anzi alla “Recherche”. C’è molto più Proust che Curcio, in questi libri.
Si potrà dire che questo lavoro di scrittura implica anche la reinvenzione di una identità. Dal punto di vista letterario non è un limite, ma un pregio, e nella letteratura della memoria questo è un lavoro necessario, per colmare i buchi neri prodotti dai delitti. Benedetta, per esempio combatte una civile battaglia contro “il Tobagi eroe craxiano” , riga dopo riga, inciso dopo inciso. Ricorda con fastidio l’iconografia televisiva in cui il suo Tobagi era quasi cancellato in una dissolvenza a base di garofani. Così come il Calabresi umanissimo raccontato da Mario (e da sua moglie Gemma Capra) combatte con il Calabresi grottesco della campagna di demonizzazione di Lotta Continua. Il vero Calabresi, il vero Tobagi, il vero Giralucci e il vero Guido Rossa, forse stanno nel mezzo: non hanno avuto il tempo, la possibilità di emanciparsi dalle maschere mortuarie che la pubblicistica aveva cucito loro addosso: “lo sbirro”, “la spia del Pci”, “il giornalista di Craxi”. I loro figli prendono direzioni opposte e combattono questi stereotipi con la loro scrittura. Calabresi lo fa con gli strumenti di una grande inchiesta giornalistica ed emotiva, Benedetta con un processo che è tutto letterario. Ha in mano un archivio e un biblioteca, e li usa per sostituire al Tobagi stereotipato, uno nuovo: “Ho intessuto un lungo dialogo a distanza con la voce di carta del giornalista Tobagi, un gioco segreto che ha reso lo studio degli anni settanta più leggero. Per ogni tema andavo a cercare se papà ne aveva scritto e rivolgo le mie domande ai quotidiani ingialliti”. Qui la scrittura del padre diventa una sorta di libro iniziatico. Laico, ma allo stesso tempo sacro. I compiti si dividono: il padre lavora sul passato, il figlio sul futuro. Al punto che quando la Tobagi racconta che gira per le scuole a raccontare questa storia, capisci che dalla storia scritta si è passati omericamente alla narrazione orale. Quanto è diverso l’ovale paffuto del giornaliata del Corriere dal ragazzo che annotava nel suo quaderno: “Dov’è spirito popolare voglio essere io: contro chi lo sfrutta, sia esso un tecnocrate o un capitalista”. Ricorda Benedetta che secondo Sciascia “Tobagi era stato ucciso perché aveva metodo”. Verrebbe anche da dire che è anche grazie a questo metodo (la scirtura auotogbiografica, l’autoarchivistica) se oggi Tobagi può risorgere nel racconto della figlia. Quando chiudo questo libro non so se “il vero” Tobagi sia quello di Benedetta. Ogni invenzione narrativa è allo stesso tempo il massimo del tradimento e il massimo della fedeltà. Non è detto che sia una male se la P38 cede il passo alla Madeleine.

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