domenica 15 novembre 2009

Fabrizio Rondolino: Vent'anni dopo la svolta

da www.leragioni.it
Vent’anni dopo la svolta
lunedì 9 novembre 2009, 6.00.25 | contributi
di Fabrizio Rondolino

Mentre Achille Occhetto era a Barcellona con Claudio Martelli per partecipare ad una riunione dell’Internazionale socialista, a Rimini, su un camper trasformato in ufficio e parcheggiato dietro il palazzo dei congressi, Bettino Craxi amabilmente chiacchierava con Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Era il 22 marzo 1990, il Pci non era ancora diventato Pds e il segretario del Psi aveva appena terminato la sua relazione alla Conferenza programmatica. Volle incontrare D’Alema e Veltroni, che non conosceva personalmente, perché gli sembravano i migliori della nuova generazione, e i più promettenti. Craxi avrà avuto molti difetti, ma non gli mancava il fiuto politico.

C’è però un doppio retroscena che merita di essere ricordato. Il camper di Craxi era un luogo-simbolo della Prima repubblica ormai al tramonto: l’anno prima, all’Ansaldo di Milano, proprio in quel camper Craxi e Forlani avevano siglato l’accordo di pentapartito in seguito noto come “Caf”. Occhetto, invitato a Rimini, subodorò la trappola: “Mi farà salire sicuramente sul camper, ma io non voglio”. Trovò così la scusa della riunione di Barcellona, dove la sua presenza non era inizialmente prevista, e declinò l’invito, nonostante Craxi giungesse ad offrirgli un volo privato. Il buffo è che anche Martelli non avrebbe dovuto essere a Barcellona quel giorno: Craxi non vedeva di buon occhio la diplomazia parallela del suo delfino, e aveva riservato a sé ogni decisione riguardante l’Internazionale (fu in effetti lui, alla fine del ’91, a dare il via libera all’ingresso del Pds). L’aneddoto aiuta a capire quale groviglio politico, psicologico e umano governasse in quegli anni i rapporti fra il Pci-Pds e il Psi. E perché la caduta del Muro, anziché riunificare la sinistra italiana, la seppellì.

È nell’incomprensione radicale fra Berlinguer e Craxi che si trova la ragione dell’antisocialismo di Botteghe Oscure e dell’anticomunismo di via del Corso.

Berlinguer e Craxi non si amavano; probabilmente si detestavano. Ma non è (soltanto) con la psicologia che si spiega la politica, e il dissenso fra il ‘berlinguerismo’, cioè quella particolare declinazione del togliattismo che aveva nell’unità nazionale (il “compromesso storico”) e nel conservatorismo costituzionale il proprio baricentro, e il ‘craxismo’, che si proponeva invece come modernizzazione istituzionale (il presidenzialismo e la “Grande riforma”) e innovazione politica (l’alternativa), è un dissenso autentico e incolmabile, perché mette in campo due sinistre culturalmente, prima che politicamente, diverse.

Ma la ferocia dello scontro che, dopo un anno di guerriglia ideologica a base di Proudhon e Gramsci, esplode violento nei giorni del rapimento Moro (marzo ’78), quando Craxi gioca la carta umanitaria in polemica aperta con l’asse Pci-Dc venutosi a cementare intorno al secondo governo Andreotti, e che si conclude con i fischi del congresso socialista di Verona a Berlinguer, un mese prima della sua morte (giugno ’84), lasciò ben poco spazio al dibattito culturale e alla discussione politica.

È vero: Craxi aveva esplicitamente dichiarato di voler fare come Mitterrand, cioè riequilibrare i rapporti di forza elettorali a favore del Psi, perché soltanto con una guida socialista – sosteneva – l’alternativa alla Dc sarebbe stata possibile. Ma il Pci non considerò mai la posizione di Craxi una semplice, ancorché impegnativa, sfida politica e culturale: la visse subito, e fino alla fine dei suoi giorni, come una minaccia reale alla propria stessa esistenza.

Il partito che eredita Occhetto ha dunque una pancia, prima ancora che una testa, violentemente anticraxiana. Tanto più che, quando Occhetto nel novembre ’89 avvia la “svolta” che porterà allo scioglimento del Pci, con una mano Craxi sembra aiutare i ‘cugini’ di Botteghe Oscure, ma con l’altra, per mancanza di coraggio politico più che per convinzione o per necessità, si tiene saldamente all’interno del bunker del pentapartito agonizzante.

La proposta dell’“unità socialista”, che Craxi lancia al Pci, in un contesto normale sarebbe apparsa la scelta più ovvia: poiché la scissione di Livorno era nata dalla Rivoluzione d’Ottobre, conclusasi l’esperienza sovietica poteva (e doveva) concludersi anche l’esperienza dei partiti comunisti europei. Finito il comunismo, si tornava tutti socialisti. Ma in Italia nessuno, neppure i “miglioristi” di Napolitano e Chiaromonte, ha il coraggio o la possibilità di andare a vedere le carte di Craxi.

Accade così che mentre in tutta l’Europa ex sovietica i partiti comunisti diventano “socialisti”, in Italia il Pci deve reinventarsi come Partito democratico, seppur “della sinistra”. Questa assurda contorsione linguistica e politica marchia profondamente le origini della Quercia – il simbolo stesso, omaggio all’“albero della libertà” della Rivoluzione francese, cancella intenzionalmente ogni riferimento a centocinquant’anni di storia del socialismo –, e ne segnerà ogni giorno il destino sempre più affannato, fino alla fusione fredda nel gelido Partito democratico.

Ma torniamo al 1992. Tangentopoli – qualunque ne sia stata l’origine – fa precipitare definitivamente la situazione apertasi nell’89 con la caduta del Muro. Occhetto cavalca l’ondata giustizialista, sebbene anche il Pci sia lambito dalle inchieste, perché è convinto di trarne un vantaggio politico e perché non può, semplicemente non può, andare contro un’opinione pubblica di sinistra profondamente intrisa di berlinguerismo e venutasi distillando in un quindicennio di anticraxismo militante. Craxi invece, arroccato nella cittadella del Caf, di Tangentopoli è la vittima sacrificale, il ‘bersaglio grosso’.

Il 29 aprile del ’93 la Camera respinge l’autorizzazione a procedere per Craxi (da due mesi non più segretario del Psi) chiesta dalla Procura di Milano. Scoppia il finimondo. I ministri indicati da Occhetto (Augusto Barbera e Vincenzo Visco) si dimettono immediatamente dal neonato governo Ciampi, mentre a piazza Navona si svolge una manifestazione di protesta organizzata dal Pds. Craxi è al Raphael, la sua residenza romana: e qui affluiscono alcuni manifestanti pidiessini. Intorno alle otto di sera il leader socialista esce dall’albergo e sale in macchina. Lo investe una pioggia di insulti e di monetine. Per qualcuno dei presenti, è la giusta vendetta dei fischi ricevuti da Berlinguer a Verona nove anni prima. Per altri, è il punto di non ritorno, oltrepassato il quale non ci sarebbe mai più stata, in Italia, una sinistra riformista unita e vincente.

Un anno dopo Craxi prende la strada di Hammamet. Morirà in esilio il 19 gennaio 2000. Tre giorni dopo, nella cattedrale di Tunisi, c’è anche Marco Minniti, braccio destro e sottosegretario dell’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. La famiglia non voleva rappresentanti del governo, e al termine di una lunga mediazione dell’ambasciatore d’Italia Minniti viene fatto sedere in settima fila. All’uscita dalla chiesa, di nuovo fischi e monetine. Ma il Pci e il Psi, oramai, da tempo non c’erano più.

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