domenica 29 novembre 2009

Tito Boeri: Il capitalismo invecchia?

Il capitalismo invecchia? Un sistema ormai fuori controllo
Data di pubblicazione: 29.11.2009

Autore: Boeri, Tito

La quarta intervista di Cosma Orsi nella ricerca sulle cause e le prospettive della crisi del capitalismo vista dagli economisti. Il manifesto, 29 novembre 2009

Il ruolo fuorviante delle previsioni economiche stilate da fisici e matematici che non capiscono quasi nulla del funzionamento dell'economia; l'assenza di regole internazionali condivise sulla circolazione dei capitali; la difficoltà di riuscire a «ripulire» il capitale finanziario dai titoli «tossici». Ma anche l'assenza di garanzie sociali per i giovani che entrano, e rimangono si dovrebbe aggiungere, come precari: sono queste le radici e alcune conseguenze dell'attuale crisi economica. L'analisi di Tito Boeri rinvia alla «politica» nodi che spesso il nostro governo nazionale sceglie di non sciogliere. Un'intervista, questa che segue, che si affianca a quelle già pubblicate sul «capitalismo che invecchia», invitando a quelle riforme senza le quali non è possibile garantire, secondo Boeri, il rilancio dello sviluppo economico.

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Ogni crisi finanziaria è diversa dalle precedenti e questa non fa eccezione. Quindi i paragoni possono essere fuorvianti. Negli anni Trenta lo shock derivò dalla caduta di un terzo dell'indice generale dei prezzi con il conseguente crollo dell'attività economica. La soluzione era perciò chiara: si doveva stabilizzare il livello dei prezzi, come fece Franklin D. Roosevelt aumentando l'offerta di moneta, per stabilizzare l'economia e di conseguenza rimettere in piedi il sistema bancario. Questa volta, assorbire lo shock è più difficile perché è interno al sistema finanziario. Il cuore del problema sono gli eccessi di esposizione, opacità e rischi assunti nel settore finanziario stesso. C'è stato, sì, un crollo del mercato immobiliare, ma a differenza di quanto avvenne negli anni Trenta, non c'è stata una caduta generale dei prezzi e dell'attività economica.
I fallimenti di impresa sono rimasti relativamente pochi e ciò è stato un più che necessario elemento di conforto per il sistema finanziario. Ma tutto ciò rende ancora più difficile la soluzione del problema. Se non c'è stato crollo dei prezzi e dell'attività economica, non possiamo uscire dalla crisi attraverso crescita e inflazione, come nel 1933. Dobbiamo uscirne riformando il sistema finanziario. Ma riformare il sistema finanziario è molto complesso. Le lobby che vi si oppongono sono potentissime e il potere contrattuale dei banchieri nei confronti dei governi è addirittura aumentato nella crisi.
Inoltre, lo sviluppo delle cartolarizzazioni complica il processo di riordino della situazione. Negli anni Trenta, la «Federal Home Owners Corporation» acquistò singoli mutui ipotecari per ripulire i bilanci delle banche e dare un aiuto ai proprietari di casa. Questa volta, l'agenzia federale responsabile della ripulitura del sistema finanziario dovrà acquisire titoli garantiti da ipoteca, obbligazioni di debito collateralizzato, e tutte le varie forme in cui questi titoli sono stati tagliuzzati e rimpacchettati. Rimettere in ordine i bilanci delle banche e aiutare i proprietari di casa sarà infinitamente più complicato. E sarà molto più difficile raggiungere la trasparenza necessaria a ridare fiducia al sistema.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Nel caso degli economisti poco o niente. Ogni economista sa bene che un modello è solo un modo di organizzare le informazioni disponibili e di controllare che il proprio ragionamento sia coerente. Chi scambia i modelli per la realtà è solo un cattivo economista. L'unica possibile deformazione indotta dalla formalizzazione è nello spingere molti ricercatori a non allontanarsi troppo da schemi analitici consolidati. Estendere un modello è molto più facile che costruire un modello ex novo. Questo può avere indotto conformismo. Ma molti modelli sono molto flessibili e permettono di considerare molte ipotesi alternative, comportamenti non razionali, problemi di informazione.
Un problema più serio ci può essere stato nel mondo della finanza, dove da anni si è consolidato il ruolo dei quant (da quantitative analyst), persone che hanno ottenuto un PhD in una materia scientifica, di solito matematica o fisica, e che prestano i loro servizi all'industria. I quant in genere, si occupano di gestione degli investimenti, creazione o quotazione di derivati e prodotti strutturati, gestione del rischio. Hanno contribuito alla crisi attuale prendendo cantonate epocali nella misura dei rischi effettivi di mercato.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Questa crisi non è legata alla globalizzazione. Né dei beni, né tantomeno dei capitali. È frutto della mancata regolamentazione di intere parti dei mercati finanziari, soprattutto negli Stati Uniti. E questa mancata regolamentazione è frutto della politica che si è prestata alle pressioni delle lobby per chiudere un occhio sul sistema bancario ombra che si era sviluppato negli Stati Uniti. Dunque non è tanto questione di avere più o meno politica, ma regole migliori che riducano la stessa discrezionalità del politico, spesso vulnerabile alle pressioni delle lobby.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Sì il vero G20 è oggi il G2 di Stati Uniti e Cina. L'Europa potrebbe contare, approfittando anche della debolezza del dollaro, se avesse una voce sola. Ma siamo molto molto lontani da questo. Un terreno su cui l'Europa potrebbe giocare un ruolo importante è nell'aiutare la Cina a costruirsi uno stato sociale. Prima lo farà, meglio sarà per tutti. La popolazione cinese delle campagne è rimasta sin qui ai margini della crescita. Gli immigrati interni, quelli che si spostano dalle campagne alle città, non possono neanche mettere i propri figli a scuola. Chi perde il lavoro perde tutto. Per questo i cinesi risparmiano così tanto. Quando la Cina affronterà questo immenso problema distributivo, ne beneficeremo tutti. Perché il superamento degli squilibri globali richiede una Cina che consumi di più e che esporti di meno. La Cina guarda all'Europa quando si tratta di progettare sistemi di protezione sociale. Ma sin qui lo ha fatto solo a parole. Fin quando non ci sarà democrazia in Cina sarà difficile andare molto al di là di queste dichiarazioni di principio.

L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Non è vero. In Italia l'aumento della spesa pubblica è legato soprattutto alla dinamica di pensioni e salari nel pubblico impiego. I «Tremonti bond» sono rimasti nel cassetto e comunque non aumentano il debito pubblico. Del resto basta guardare alla struttura della spesa per rendersi conto di perché la spesa pubblica continui a crescere del 2 per cento all'anno, in termini reali, indipendentemente dall'andamento dell'economia. Quasi un quarto dei fondi pubblici va alle «Relazioni finanziarie con le autonomie territoriali», leggi Regioni ed enti locali. Il nostro federalismo è una voragine perché non responsabilizza gli organi di governo locali. Si interviene solo per coprire amministrazioni inefficienti e non si puniscono gli amministratori e politici locali nell'unico modo possibile, vale a dire riducendone la sovranità. Un altro quinto della spesa va al pagamento degli oneri sul debito pubblico. La terza posta fondamentale è rappresentata dalla spesa pensionistica, che assorbe anch'essa ormai quasi il 20 per cento delle risorse. Queste tre poste assorbono due terzi delle risorse disponibili.

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell' indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Temo molto alto. Come Antoine nei racconti di Paul Nizan, credo che si troveranno un giorno a dire: «Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che è l'età più bella della vita». Spero di sbagliarmi ovviamente. Non è solo un problema di debito, ma anche di mercato del lavoro. Nella crisi e nel dopo-crisi, infatti, rischiamo di perdere intere generazioni di lavoratori qualificati che, assunti solo con contratti temporanei, non ricevono adeguata formazione in azienda e diventano così manodopera di riserva, di cui disfarsi al primo calo degli ordini. È esattamente quanto avvenuto nello scorso decennio in Giappone e in Svezia che hanno conosciuto prima di noi una lunga e profonda crisi scaturita dai mercati finanziari.
Le imprese, quando prevale l'incertezza, smettono di assumere con contratti a tempo indeterminato. Solo una ripresa forte e sostenuta potrebbe convincere i datori di lavoro ad offrire contratti a tempo indeterminato. Ma sin qui questa ripresa non si vede. Per questo non è più rinviabile una riforma del percorso di ingresso nel mercato del lavoro che porti le imprese ad assumere senza una scadenza fissata a priori. Ci vuole un percorso graduale che costruisca tutele crescenti, garantendo al datore di lavoro maggiore flessibilità all'inizio del rapporto di lavoro e poi, via via, sempre meno. Chi si oppone a riforme di questo tipo, come alla riforma degli ammortizzatori sociali e all'accelerazione nell'entrata in vigore della riforma delle pensioni varata nel 1996 (!) si prende una grandissima responsabilità nei confronti dei giovani. Sta pregiudicando gravemente il loro futuro.

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