sabato 23 maggio 2009

Paola Meneganti: un film importante

Un film importante, di grande tensione civile, etico e duro. E’ “Vincere”, di Marco Bellocchio, salutato a Cannes da una lunga standing ovation, tutta meritata. Il film si dipana attorno alla storia di Ida Dalser, una donna importante nella vita del giovane Benito Mussolini, forse sua moglie forse no, sicuramente madre di suo figlio, Benito Albino – che Mussolini infatti riconobbe. Ida è bella, giovane, appassionatamente attratta da quell’uomo: lo aiuta, lo sostiene quando se ne va dall’”Avanti!” e fonda “Il Secolo d’Italia”. La pensa come lui, vive per lui. Ma il giovane Mussolini ribelle, anticonvenzionale, anticlericale cova un’anima perbenista e da “uomo d’ordine”: sceglie Rachele, la rassicurante massaia rurale.
Una fotografia ed un montaggio splendidi accompagnano nella estrema violenza sociale e politica del “periodo furioso che copre il primo ventennio del secolo”. Alla violenza dei moti di piazza interventisti (“Guerra sola igiene del mondo”), a cui Mussolini subito si avvicina, fanno da contrappunto le immagini di violenza da Sarajevo, dal fronte della Grande guerra e poi quelle del fascismo nascente: gli squadristi, gli assalti ai giornali di sinistra, alle case del popolo, alle feste socialiste. Fiamme, urla, fez issati su volti stravolti dall’odio, bastonature, prepotenze, linguaggio violento e ferino a cui si accompagna passo passo la grande, vergognosa violenza usata verso la donna Ida e suo figlio.
Mussolini, ad un certo punto, la cancella: il fascismo rientra completamente in ranghi perbenisti e reazionari, si prepara la firma del Concordato con la Chiesa cattolica. Ida rincorre il suo uomo, gli mostra il piccolo: invano, riceve solo umiliazioni. Frappone tra la verità e le menzogna se stessa ed il suo corpo, si para davanti ai gerarchi nei momenti ufficiali, in cui i fez e le camicie nere si mescolano alle grisaglie borghesi ed alle tonache dei prelati: è troppo. Ecco l’esilio nella casa della sorella e del cognato, che comunque sosterranno sempre con grande affetto e sacrificio personale lei e il piccolo Benito, ecco l’internamento in manicomio e la sottrazione del figlio. Isa grida sempre l sua verità: non si accontenta che tutti sappiano, vuole che si riconosca la verità, lo vuole pervicacemente ed ossessivamente. Figura di un compulsivo eccesso femminile, Ida vuole che le parole riconoscano la verità, che la dicano. E il machismo, il disprezzo verso la donna, il perbenismo, la menzogna fascista risaltano per contrapposizione a questa donna sola nel suo essere internata, umiliata, cancellata, ma sempre resistente.
Bellocchio ci mostra cos’erano i manicomi, prima della grande e civile legge Basaglia: in una sequenza indimenticabile, in un manicomio, quello di Venezia, più “umano”, Ida e gli altri internati vedono “Il monello” di Chaplin, la povertà forte della propria dignità e del proprio amore che resiste alla violenza e alla mancanza di umanità dell’ordine costituito. Piangono tutti, poi, quando Charlot si riprende il monello, scoppia un applauso incontenibile: l’amore può vincere.
Ida e suo figlio, chiuso in un istituto, seguono lontani l’uno dall’altra la carriera di Mussolini, che diventa sempre più grottesco nelle parole e nei modi: un clown feroce, la maschera farsesca di una tragedia che si avvicina alla fine.
Icona violenta, farisaica, volgare di un ventennio che ugualmente violento e volgare, le teste di Mussolini rotolano giù mentre rotolano nei cieli le bombe portate dalla guerra fascista, che metterà a ferro e a fuoco il nostro Paese: le nostre belle città in fiamme, i volti di chi soffre, un uomo carezza dolcemente le caviglie di una donna stesa su un carro, forse ferita, forse morta.
E sapere che era già tutto là, in quel linguaggio pieno di odio, in quella vertigine di violenza e di volgarità che l’amore di Ida non ha potuto fermare.
Benito junior finirà anche lui in manicomio, distrutto dal sapere di essere figlio dell’altro Benito ma deprivato, progressivamente, della madre, degli zii, e poi del cognome: finiranno col chiamarlo Dalser, come la madre. E lui finirà con lo scimmiottare il padre, rifacendogli il verso nei momenti più grotteschi, uguale a lui in modo imbarazzante. Troppo, anche per le sua stabilità mentale.
Nero e una gamma di grigi è il colore di questo film bellissimo: soli fotogrammi più chiari quelli dei rari momenti di quiete di Ida, una Giovanna Mezzogiorno meravigliosa, nel corpo, nel volto, nello spirito, che morirà anch’ella in manicomio.
Sapete, questo film suscita grande ammirazione, ma anche pena ed imbarazzo: è per questo, forse, ha scritto Ida Dominijanni, che non ha avuto grande stampa in Italia. E’ un film fieramente antifascista, “è una bomba scagliata al cuore dell'immaginario politico italiano obnubilato da vent'anni di berlusconismo e di rivalutazione prima strisciante poi sfacciata del fascismo. E' un agghiacciante memento di quello che il fascismo è stato: repressione, manipolazione, machismo, militarismo, sadismo, un impasto della storia nazionale che può sempre tornare e anzi è già tornato. Ci mette implacabilmente di fronte a uno specchio. E' in quello specchio che in tanti non sopportano di guardarsi”.
E non c’è niente di più difficile, e di più importante, che sapersi specchiare bene.
P.M.
23.5.09

1 commento:

Vittorio Melandri ha detto...

La versione integrale del testo che Augias ha avuto la cortesia di commentare su la Repubblica di oggi.

ciao vittorio


Cortese dott. Augias



La “crisi” non è ancora passata. Non parlo solo della crisi economica, ma anche della crisi morale in cui è da tempo sprofondato, per l’ennesima volta nella sua storia, il nostro Paese. Sono tanti i sintomi che mi inducono a mantenere questa amara convinzione. Da ultimo mi ha confermato questo sentire, la visione del bellissimo film di Marco Bellocchio, “Vincere”. L’ho visto lunedì 25 Maggio, in una sala del centro della nostra reciproca città natale, Piacenza. Non sono un critico e non posso spendere quindi il mio favore per il film a vantaggio dello stesso e del suo autore, ma da cittadino italiano posso testimoniare dell’interesse che in me ha suscitato il lavoro di Bellocchio, e del senso di sgomento e di amarezza che mi hanno indotto i risolini da “bambini scemi” che ho sentito soprattutto durante la prima parte della proiezione, quando il regista con l’aiuto di Filippo Timi, tratteggia la personalità in fieri del giovane Benito, e dipinge con maestria l’atmosfera che lo circondava, anche avvalendosi di “segni” e di una “calligrafia” che sono un omaggio all’intelligenza del pubblico, ma richiedono magari di far funzionare di più il cervello che non solo gli occhi o la pancia. Che Benito Mussolini fosse dotato di personalità e carisma da leader non sono certo io a scoprirlo, che sono nato per giunta quando per mia fortuna lui era già passato, che fosse un cialtrone e un buffone lo testimonia lui medesimo, come capita a tutti i cialtroni e buffoni che, anche quando dotati di intelligenza, non possono certo uscire da sé stessi anche volendolo. Resta drammatico l’esito del rapporto che si instaura fra un tipo di personaggio così e un popolo, che in un modo o nell’altro, arriva a riconoscerlo come guida. Quando poi accade che questi “burattinai”, sono in realtà dei “burattini” che si scollegano ad un certo punto della loro storia, dai fili di chi cinicamente crede di poterli sempre tenere alla giusta distanza, tutto ricade sulle spalle del popolo che, non di rado, non dispone dei mezzi per riconoscerli per quello che sono. L’attualità del film di Bellocchio è da questo punto di vista sconvolgente. Che abbia sin qui raccolto maggiori consensi all’estero, dove lo possono guardare con sereno distacco, che non in Italia, dove richiamando alla memoria il passato, si alza come un potente grido di allarme, forse è, allo stato delle cose, inevitabile.



Vittorio Melandri