giovedì 14 maggio 2009

Arrigo Levi e Lodovico Meneghetti: Ricordo di Umberto Colombo

A tre anni dalla scomparsa
(grazie a Dan Ferrato)


Dall’ intervento di Arrigo Levi al convegno di Milano del 14 maggio 2007 su “Scienza, società e politica – L’impegno di Umberto Colombo”.


Prendendo la parola quasi alla fine di questo incontro tra amici di Umberto, dopo che la sua figura di scienziato, di organizzatore scientifico, di personalità universalmente conosciuta come uomo di grandi visioni nell’organizzazione del futuro della società umana, è stata esaurientemente ricordata, vorrei concentrarmi, sia pur brevemente, sulle radici della personalità di Umberto Colombo, che me, per ovvie ragioni, appaiono forse più evidenti che ad altri. Radici, e origini, chiaramente riconoscibili, anzitutto nel nome che portava: Colombo, in ebraico Iona, nome tipico, direi, delle comunità ebraiche sefardite; e Umberto, nome di un re d’Italia, molto diffuso fra gli ebrei italiani che avevano conquistato la parità di diritti con lo Statuto di Carlo Alberto e con l’unificazione del Regno d’Italia, e che veneravano i Savoia, senza sapere che Vittorio Emanuele III avrebbe, un giorno, violato lo Statuto, prima mandando al potere il fascismo, e poi firmando le leggi razziali.
Visto da chi, come me, ha un’origine abbastanza simile, appartenendo alla seconda o terza generazione di ebrei italiani dopo l’emancipazione, a generazioni che avevano abbandonato quasi del tutto ogni pratica religiosa, che facevano vanto della loro italianità, ma che avevano ancora un chiaro orgoglio delle proprie origini ebraiche e dei valori che esse rappresentavano, sono chiaramente riconoscibili nell’identità di Umberto, nella sua visione “universalista”, nel suo “impegno sociale e civile”, i fili sottili ma forti, forse non visibili ad altri, che legano la sua vita, le sue idee, i suoi ideali, il suo umanesimo, a una cultura e civiltà ebraico-italiana che ha dato all’Italia un numero spropositato, rispetto alla piccolezza numerica di questa comunità (non erano più di 45 mila gli ebrei italiani negli anni della mia giovinezza) di personalità di primo piano, nella vita culturale e civile del nostro Paese.
Di questo, curiosamente, e me ne rammarico, io non ho mai parlato con Umberto, a cui mi legava, nelle associazioni di cui facemmo parte insieme, come la Trilateral Commission, la stessa ispirazione universalista e umanistica: un’ispirazione di cui riconosco molto chiaramente in me le radici della tradizione ebraica , che mi riesce quindi più facile ritrovare anche in Umberto. Umberto stesso ha indicato una volta nell’”approccio talmudico allo studio dei problemi (un approccio molto logico e analitico anche del significato delle parole)”, il segno di una “formazione mentale propria degli ebrei”. Ha ricollegato così le sue radici ebraiche soprattutto al gusto, alla passione della ricerca della verità attraverso l’analisi dei problemi, ed è giusto che uno scienziato la pensasse così. Io tendo a collegare l’identità di Umberto nel suo insieme, il suo umanesimo, alla tradizione ebraica: anzi, alla tradizione di un ebreo livornese.
L’ebraismo livornese ha una storia unica, nella stessa storia dell’ebraismo nella diaspora, prima della Rivoluzione Francese, prima dell’emancipazione, ed è troppo nota perché io qui la ricordi, se non sommariamente: Livorno fu, per volontà dei Granduchi di Toscana, un’oasi di libertà, unica in Italia e al mondo, per gli ebrei (furono soprattutto ebrei spagnoli e portoghesi) che venivano invitati ad andarci a vivere, portando con loro un patrimonio di ricchezze, di conoscenze internazionali, di legami commerciali e culturali che contribuirono a fare la grandezza di Livorno. I Granduchi, a partire dalle famose lettere patenti di Ferdinando I de Medici del 10 giugno 1593 (la cosiddetta “Livornina”), concedevano piena parità di diritti perfino agli ebrei convertiti, i marrani di Spagna e Portogallo.
In quella “oasi felice”, la cultura ebraica conobbe una eccezionale fioritura. Non solo, si sviluppò una “cultura ebraica livornese” che diede nell’Ottocento all’ebraismo italiano il suo rabbino forse più famoso, Elia Benamozegh, nato nel 1823, morto nel 1900, famoso, fra l’altro, per la sua valorizzazione del “noachismo”: ossia delle leggi morali non esclusive dei discendenti di Abramo ma valide per tutti gli uomini, tutti discendenti, dopo Adamo, di Noè. Benamozegh era, penso coscientemente, un illuminista, animato da quella che noi oggi definiremmo una visione ecumenica, universalista.
E qui c’è un piccolo episodio, che mi ha raccontato il Rabbino Toaff, Elio Toaff. Il nonno di Umberto, Shmuel Colombo, era stato rabbino di Livorno, successore quindi di Benamozegh, fino alla sua morte, nel 1924, quando gli succedette come rabbino di Livorno il padre di Elio Toaff, Alfredo Toaff (che, detto sia fra parentesi, fu anche insegnante di greco di Carlo Azeglio Ciampi, che aveva fatto tutte le scuole dai gesuiti: l’amicizia fra Carlo e Umberto aveva lontane origini famigliari, precedeva la comune, pur breve ma significativa militanza nel Partito d’Azione). Ho chiesto a Elio Toaff se avesse una memoria particolare riguardante il rabbino Colombo, e mi ha risposto, un po’ divertito, che Rav Colombo aveva effettivamente una particolarità: nel tempio, quando si alzava per le preghiere di rito, invece di voltare le spalle al pubblico per rivolgersi verso l’Haron hakodesh, l’armadio santo dove sono conservati i libri sacri, si voltava verso il pubblico dei fedeli, rivolgendosi a loro nella preghiera. Quando gli ho chiesto se lui, Toaff, facesse la stessa cosa, mi ha risposto di sì, in questo aveva seguito l’esempio del rabbino nonno di Umberto.
Non occorre che ricordi a questo pubblico che una delle innovazioni fondamentali del Concilio Vaticano II consistette appunto nell’imporre ai sacerdoti officianti di voltarsi verso il pubblico. Io penso che questa apertura al mondo fu una delle eredità inconsapevoli che Umberto ebbe da suo nonno, che Umberto non aveva mai conosciuto. La sua tradizione umanistica, la sua saggezza, la sua visione universalista, ai miei occhi erano molto ebraiche, figlie di quella Legge religiosa che ti imponeva, come regola prima della vita, di “amare il prossimo come te stesso”, di amare anche “gli stranieri che vivono in mezzo a voi, perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto”. Io penso che la luce che ha illuminato tutta la sua esistenza, quella luce che a noi tutti appariva così seducente, traeva la sua forza da origini antiche; ma, almeno a me, chiaramente riconoscibili.
Milena mi ha raccontato del giorno in cui, insieme col suo Umberto, parteciparono alla grande Marcia su Washington guidata da Martin Luther King, col famoso, mirabile discorso segnato dal ripetersi delle parole: “I have a dream”. Bene, anche Umberto ha sempre avuto un sogno, un sogno di libertà, di progresso, di amicizia e eguaglianza fra tutte le genti, e ha speso la sua vita, in Italia e nel mondo, per inseguire il suo sogno, per cercare di facilitarne la realizzazione. Il suo era un sogno antico.
Ancora un piccolo ricordo di Milena. Quando il papà di Umberto, Eugenio, che era avvocato, si nascose con Umberto, dopo il 1943, nella soffitta della sagrestia di una chiesa di una località emiliana, per passare il tempo scriveva, a beneficio del sacerdote, un “giusto tra le nazioni” che li accolse e protesse, i sermoni che il buon prete di paese leggeva la domenica: sermoni bellissimi, che gli attirarono fama e gran numero di fedeli che accorrevano per ascoltarli. Anche Umberto ha scritto tanti sermoni per tutti noi, per tanta gente in Italia e nel mondo. Noi gliene siamo stati grati, gliene saremo sempre grati.

Lodovico Meneghetti

Il miglior amico

Ho conosciuto Umberto al termine di un comizio della campagna per le elezioni comunali di Novara del 1956. Il comiziante, per il Partito socialista e la sinistra unita, ero io. Lui, livornese e appassionato novarese d’adozione, mi avvicinò esprimendo la sua adesione alla battaglia per la vittoria delle sinistre e la conquista del Comune allora governato dalla Democrazia cristiana (vittoria che ci fu). Nacque in quel giorno di primavera il germe di un’amicizia che intensificandosi man mano diventerà fratellanza. Con pochissime altre persone riuscii a trovare un inscindibile legame delle reciproche doti di ragione e sentimento come avvenne con Umberto. Eppure non avevamo un passato comune. Non avevamo avuto uniformità o affinità di studi superiori e universitari. Umberto però, scienziato e alto dirigente industriale che raggiungerà posizioni preminenti nello scenario internazionale della politica per lo sviluppo della scienza e che sarà un’immancabile figura di richiamo per la ricerca di nuovi assetti tecnologici ed energetici, aveva una fortissima vocazione a travalicare i confini delle discipline specialistiche: così da rendere facili, a chi come me era maturato attraverso altre forme di conoscenza, il dialogo culturale, il colloquio vitale, il confronto dei principi fondamentali su cui costruire la comunanza di intenti, di progetto vorrei dire. Umberto, proveniente dalla chimica-fisica, era protagonista, come fosse un Edgar Snow italiano, dell’azione per abbattere gli steccati dei recinti disciplinari; credeva nell’unità della conoscenza e perciò nella necessità di intensi rapporti fra cultura scientifica e cultura umanistica, fra scienza e arte, fra matematica e filosofia. Ugualmente per me: proveniente dall’architettura e dall’urbanistica, quell’unità avevo cominciato a pretenderla all’interno delle specifiche sistematizzazioni disciplinari e poi a esigerla fra queste, le scienze umane e le scienze fisiche. Nella realtà giornaliera delle relazioni si vide che, mentre la nostra personale formazione, diversa dal punto di vista dei vincoli disciplinari, si era aperta verso quella rivendicazione di unità, già esistevano comuni passioni e comuni scelte riguardo ai campi forse più fertili della ricerca di espressione umana: l’arte e la musica. Umberto, geniale scopritore di dipinti, sculture, oggetti artistici, assiduo acquirente di libri e dischi, amava discuteterne la lettura o l’audizione. L’architettura, poi, non era per lui un mondo estraneo, giacché, diceva, appartiene sia all’arte sia alla scienza e alla tecnica. Ed era felice di sollecitare la mia competenza e dichiarare le proprie preferenze nelle discussioni serali in casa o nei viaggi e visite a città, musei, mostre. Fu una conseguenza logica che lavorassimo insieme, per così dire, noi due e anche Milena e Angioletta, al progetto e alla realizzazione della casa in Via Cacciapiatti a Novara (un grande appartamento acquistato al rustico e curato nell’architettura d’interni e nell’arredamento fin nei minimi dettagli), poi del piccolo alloggio di Via Monterone a Roma, infine del complesso agricolo-residenziale nella tenuta Bracciolino a Montetrini-Molin del Piano di Pontassieve: un’opera, questa, di ristrutturazione, restauro, architettura e arredamento che, per la difficoltà e la durata dell’esecuzione, assicurò alla nostra amicizia quel rinforzo e quell’atmosfera di insuperabilità a qualsiasi confronto che oggi, perso Umberto, non mi resta che rimpiangere come uno dei beni più elevati a me donati dall’esperienza di vita.

Lodovico Meneghetti
Milano, 23 aprile 2009

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