sabato 24 ottobre 2009

Renzo Penna: Le sortite di Tremonti e i limiti della sinistra

dal sito www.cittafutura.al.it

LE SORTITE DI TREMONTI E I LIMITI DELLA SINISTRA

di Renzo Penna

Luciano Gallino prende spunto dalle dichiarazioni a favore del posto di lavoro fisso pronunciate dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti per una garbata, ma efficace polemica nei confronti del centro sinistra e della sua debolezza politico programmatica in tema di lavoro. D'altronde l’obiettivo strategico di una “piena e buona occupazione” è stato abbandonato da tempo e il tema è del tutto assente dai programmi di tutti e tre i candidati del PD alle primarie di domenica.
Invece di considerare, come hanno fatto molti, contraddittorie e propagandistiche quelle dichiarazioni, che certamente lo sono, il professore di Torino ha rilevato come l’indicazione dell’importanza del lavoro stabile e garantito a “base della società”, sia stata collegata agli altri strumenti di protezione delle famiglie, tipici dello stato del benessere, quali le pensioni pubbliche e un sistema sanitario nazionale universalistico. Strumenti che, ad esempio, non esistono nella società americana e che rendono nei periodi di forte crisi, come l’attuale, particolarmente vulnerabili coloro che perdono il lavoro e vedono, in pochissimo tempo, compromessa l’intera qualità della esistenza propria e dei famigliari. Un modello fortemente radicato sulla volontà e le capacità dei singoli che vede con sospetto sia l’intervento pubblico che sistemi sociali basati sulla solidarietà collettiva e giustifica, nel paese più potente e ricco del mondo, la presenza di milioni di poveri. Un modello le cui storture nel campo della sanità il presidente Obama sta, con difficoltà, cercando di correggere. Un modello certo molto distante dalla migliore tradizione europea dello stato sociale e da sempre riferimento delle politiche liberiste tipiche della destra, ma che negli ultimi anni ha influenzato e, sostiene Gallino, è stato indicato da buona parte del centro sinistra come moderno e da imitare per riformare il mercato del lavoro, la previdenza, la scuola, la sanità.
L’incoerenza e il carattere divagatorio delle affermazioni di Tremonti sono note e ripetute: vanno dalla condanna in astratto dei condoni fiscali al loro ripetuto varo quando governa, dalle ricorrenti minacce di colpire banche e banchieri, definendosi un Robin Hood, cui sono seguite le elargizione dei Tremondi Bond e i facili guadagni procurati con lo scudo fiscale, per finire, a proposito di posto fisso, con i tagli decisi per scuola e università che stanno condannando mezzo milione di precari alla perdita del lavoro. Ma visto che queste affermazioni sono state fatte e suonano come una diretta critica alle attuali regole del mercato del lavoro, il centro sinistra, superando ambiguità ed incertezze, dovrebbe chiedere al governo di passare dalle parole ai fatti e farsi promotore di una legge per ristabilire il principio per il quale il contratto di lavoro dipendente è per definizione a tempo indeterminato. E la flessibilità torna ad essere l’eccezione e non, come è oggi, la regola. Sostenendo la proposta nel paese con la necessaria mobilitazione.
Mentre per quanto riguarda la previdenza e le pensioni, visto che il ministro ha dichiarato che per fortuna noi abbiamo l’Imps il cui bilancio, insieme a quello dell’Inpdap, l’altro ente previdenziale italiano, presenta un confortante attivo, non sarebbe male smentire una volta per tutte l’affermazione, continuamente ripetuta, di una nostra spesa pensionistica eccessiva e comunque superiore a quella delle altre nazioni europee. Notizia non vera e confutabile ricordando che le nostre pensioni sono tassate, mentre negli altri paesi sono in gran parte esentasse, e che i pensionati italiani non rappresentano un peso, ma sostengono, con il prelievo fiscale alla fonte, il bilancio dello stato con un contributo netto annuo compreso tra i 15 e i 17 miliardi di euro.
Per evitare di essere scavalcato da qualche uscita estemporanea della destra anche su un altro tema: quello dei salari, il centro sinistra dovrebbe iniziare a considerare seriamente e con minore timidezza come il permanere di bassi salari rappresenti, oltre alla perdita di una condizione di vita dignitosa, un danno per la stessa economia e un freno per la ripresa. Negli Stati Uniti, dove la crisi è stata innescata dai mutui facili, una delle sue cause principali ha riguardato il fatto che il 90% dei lavoratori aveva nel 2006 un reddito reale inferiore a quello del 1973. Così da noi, dove i salari reali sono sostanzialmente fermi da oltre dieci anni e le retribuzioni italiane sono agli ultimi posti in Europa, a risentirne è l’intera domanda interna. La presenza di bassi salari comporta che si pagano meno tasse, si versano contributi minori per la previdenza e la sanità, si fanno studiare i figli per meno anni, si consuma meno. Di conseguenza gli enti locali sono in difficoltà per fornire i servizi essenziali, le ferrovie per i lavoratori e i pendolari sono al limite della decenza, le scuole e le università costrette a tagliare la didattica e la ricerca.
Una competitività basata sui bassi salari nei paesi sviluppati non ha senso, in primo luogo, dal punto di vista economico e può solo scivolare verso l’estendersi del lavoro nero, il peggioramento delle condizioni di lavoro, la cancellazione dei diritti e della sicurezza in una spirale senza fine, visto che i salari nei maggiori paesi emergenti, in particolare Cina e India, sono per noi inarrivabili: da cinque a dieci volte più bassi con paghe inferiori a un euro l’ora.
Questa strada, come ha rivelato domenica un bel servizio di Report dedicato al settore dei divani di Forlì e, qualche tempo fa, una puntata di Anno Zero che si è occupata del distretto tessile di Prato, può portare, per effetto della concorrenza sleale di imprese che sfruttano lavoratori stranieri - nei due casi immigrati cinesi - alla distruzione di interi distretti produttivi. Tra i danneggiati, oltre ai lavoratori italiani e al tessuto delle piccole e medie imprese con i loro prodotti e le produzioni di qualità, ci sono gli stessi lavoratori stranieri che, in Italia, avrebbero titolo a veder riconosciute quelle tutele e quei diritti che qui sono stati conquistati.
Ciò accade perché in omaggio alla cosiddetta competitività e in nome del libero mercato questi comportamenti irregolari, anche se noti, sono tollerati e non adeguatamente combattuti. Non è un caso se nell’ultimo provvedimento sulla sicurezza il governo ha inserito una norma che, riducendo le sanzioni per il lavoro nero, nella sostanza ne incoraggia l’uso. Un fenomeno da denunciare e debellare che impoverisce la nostra economia e richiede anche maggiore attenzione da parte delle organizzazioni imprenditoriali e dello stesso sindacato. Una strada, quella dello sfruttamento dei lavoratori immigrati, non solo moralmente inaccettabile, ma economicamente senza sbocchi.
Serve se mai l’opposto: la graduale conquista di un lavoro e di un salario dignitoso da parte dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo. Va in questa direzione una delle iniziative promosse dalla Confederazione sindacale internazionale in occasione dell’ultima giornata mondiale del Lavoro Dignitoso. Che - secondo Gallino - si ha quando assicura a chi lo presta alcune specifiche sicurezze: da un salario il cui importo sia sufficiente per un’esistenza civile, alle tutele sindacali, dalla possibilità di sviluppo professionale, ad una pensione accettabile. Si tratta della campagna lanciata dai sindacati internazionali dell’abbigliamento, un settore dove il 60% dei capi di abbigliamento venduti nel mondo viene prodotto da 100 milioni di lavoratori residenti in sette paesi asiatici: Cina, India e Indonesia i più popolosi; Bangladesh e Cambogia i più poveri.
I sindacati, tenuto conto del potere d’acquisto dei singoli paesi, hanno individuato in 300 euro mensili l’importo del salario minimo vivibile per mantenere una famiglia di quattro persone. Questa somma rappresenta il doppio dell’attuale salario minimo in India e poco di più di quello cinese, ma è quattro volte superiore a quello della Cambogia e sette volte quello del Bangladesh. Si tratta, naturalmente, di un obiettivo che non si raggiungerà in poco tempo e che ha bisogno di politiche industriali da parte dei paesi sviluppati consapevoli che la qualità della nostra economia dipende non poco dall’aumento dei salari dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo. E questo, se ragioniamo in una ottica internazionale di sviluppo compatibile, rappresenta anche il modo più efficace per difendere il salario presente e futuro dei lavoratori italiani.

Alessandria, 23 ottobre 2009

1 commento:

claudio bellavita ha detto...

grazie, ottimo articolo. Forse riesci a sapere quali sono i paesi europei dove le pensioni non sono tassate? tra l'altro, se le pensioni divengono contributive, conviene di più non dare i soldi all'INPS e investirli in proprio, con la tassazione delle rendite finanziarie