lunedì 12 ottobre 2009

Mario Calabresi: Non serve attaccare gli stranieri

Da La Stampa
12/10/2009

Non serve attaccare gli stranieri





MARIO CALABRESI

Due anni fa Giorgio Napolitano arrivò in visita a New York e trovò ad accoglierlo una tormenta di neve e, sulla prima pagina del New York Times, un lungo reportage che dipingeva l’Italia come un Paese depresso e incamminato verso un inarrestabile declino. Il Presidente della Repubblica ci rimase male, i diplomatici considerarono l’articolo una scortesia, e Napolitano passò la sua giornata a evidenziare motivi di ottimismo per cui valeva la pena di scommettere sugli italiani. Poi andò a visitare il grattacielo disegnato da Renzo Piano dove abita il New York Times e invitò il direttore Bill Keller a uscire dai luoghi comuni nel descrivere l’Italia: «Se il giornalista è cieco vede solo le ombre. Se il giornalista non è cieco vedrà anche le luci».

Chiesi a uno dei responsabili del servizio esteri del quotidiano di Manhattan perché avevano messo in pagina il reportage proprio quel giorno e lui mi rispose candidamente: «Perché arrivava Napolitano e questo lo rendeva ancora più attuale. È solo una questione di tempi giornalistici».

Ieri il nostro presidente del Consiglio si è scagliato contro la stampa straniera che da mesi lo ha messo nel mirino. La notizia della bocciatura del Lodo Alfano era sulla prima pagina dei giornali di tutto il mondo, così come le storie delle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli o le interviste a Patrizia D’Addario. Non c’è bisogno di scomodare ipotesi di complotti o congiure internazionali per spiegarsi tanta attenzione, basta attenersi ai fatti. Il direttore del Times di Londra, giornale di proprietà di Rupert Murdoch, scuote la testa se gli si parla di una manovra dell’editore australiano contro Berlusconi e racconta che l’interesse si è scatenato durante l’estate perché c’erano tutti gli ingredienti di una storia perfetta: una moglie furiosa che chiede il divorzio, potere politico, ragazze, ricchezza, feste e polemiche in quantità. Poi è stato un crescendo e i lettori di ogni Paese si sono appassionati a quella che sembrava loro sempre più una telenovela. Alla stessa maniera ad ogni latitudine ha fatto notizia il divorzio di Sarkozy dalla moglie Cecilià e le prime pagine sono state piene di titoli e foto della storia con Carla Bruni, così come accadde per Bill Clinton e Monica Lewinsky.

Tempo fa il Wall Street Journal pubblicò nello stesso numero un pezzo di cronaca negativo per Berlusconi, e un commento in cui elogiava la sua politica. Il capo della pagina degli editoriali, il mitico Robert Bartley, di fronte allo stupore italiano rispose: «Nessuna contraddizione: noi appoggiamo la politica di Berlusconi, ma se esce qualche notizia negativa che lo riguarda la pubblichiamo senza censure». Questa è la mentalità straniera.

Nel nostro caso la storia è cresciuta arrivando a toccare tutto il sistema, da una parte perché il premier l’ha alimentata con le querele ai giornali e la ricerca di uno scudo contro i processi, dall’altra perché non possiamo nasconderci che in Francia come in Gran Bretagna o in Germania esiste un pregiudizio sfavorevole sull’Italia e sulla sua classe politica di cui non sono sopportati vizi, furbizie e atteggiamenti ritenuti folkloristici. Esiste da sempre, tanto che il nostro ingresso nell’euro venne osteggiato e vissuto con grande fastidio.

Chiunque abbia vissuto all’estero sa che deve combattere spesso contro gli stereotipi che ci dipingono come fantasiosi, allegri e creativi ma incapaci di avere metodo, costanza e impegno, in una parola inaffidabili. Così certi comportamenti del nostro premier, che in casa fanno sorridere la maggioranza, fuori suonano come la conferma dei luoghi comuni e per i corrispondenti stranieri sono una manna: le barzellette, le corna, la bandana in testa, gli scherzi, le tirate di politica interna fatte durante le conferenze internazionali. Berlusconi lo sa benissimo, tanto che il G8 dell’Aquila è stato un successo anche perché l’atteggiamento era più severo e moderato e considerato in linea con gli standard.

Non c’è dubbio, come sottolinea il premier, che questo oltre a danneggiare il governo finisce col rovinare l’immagine del nostro Paese e dei suoi prodotti. Ma non è gridando contro la stampa straniera che si può invertire la tendenza e non è neanche utilizzando gli ambasciatori e la Farnesina per protestare che si metterà fine a questa campagna.

Proprio il Times di Londra questa settimana è arrivato a suggerire a Berlusconi le dimissioni e come risposta ha ricevuto una lettera dall’ambasciatore italiano a Londra in cui si sottolineava che «spetta ancora ai cittadini di ogni Paese scegliere chi deve guidarli». Non c’è dubbio che sia così, ma le risposte da dare a mio parere sono altre. Prima di tutto dovremmo smetterla di essere così ipersensibili di fronte al giudizio dei giornali stranieri, un atteggiamento un po’ provinciale che c’è solo in Italia, in qualche dittatura e in Brasile: cinque anni fa al corrispondente del New York Times venne revocato il visto dopo che aveva scritto ripetutamente che il presidente Lula aveva un amore per la bottiglia, ma poi il governo di Brasilia fece marcia indietro di fronte a una sollevazione internazionale. Le democrazie più solide non si fanno mettere troppo in crisi dal giudizio dei corrispondenti stranieri. Pensate se George W. Bush si fosse dovuto preoccupare o avesse mobilitato gli ambasciatori ogni volta che un giornale europeo lo accusava di essere un guerrafondaio e ne chiedeva le dimissioni. Invece si preoccupava soltanto del giudizio dei suoi concittadini e negli ultimi mesi neanche più di quello.

O pensate a come certi quotidiani italiani trattano Zapatero, Obama o Carla Bruni, che venne presa di mira dal Giornale tanto da spingere Berlusconi a dirsi «dispiaciuto per le offese» alla First Lady francese. Ma sarebbe meglio concentrarsi sui giudizi dei governi stranieri piuttosto che su quelli dei loro giornali, anche se questi indubbiamente influenzano le opinioni pubbliche.

A Washington hanno ripetutamente scrollato le spalle di fronte alle battute sull’abbronzatura di Barack Obama e di sua moglie Michelle, ma non lo fanno quando analizzano i nostri rapporti privilegiati con la Russia e l’Iran, la nostra politica energetica o l’accoglienza che tributiamo a Gheddafi, a cui a New York è stato impedito di piantare la tenda ovunque. Di questo faremo meglio a occuparci e l’unico modo per mettere fine all’attenzione dei media di tutto il mondo sarebbe quello di concentrarsi sul «fare» - parola che al Cavaliere piace tanto -, scegliendo di essere normali e magari perfino noiosi. E ricominciare a fare notizia per le nostre politiche e non per le nostre polemiche.

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