lunedì 12 ottobre 2009

Enzo Bettiza: La borghesia milanese, mito e realtà

Da La Stampa

12/10/2009 - IDEE

La borghesia milanese, mito e relatà





ENZO BETTIZA

Il mito, rispuntato nelle recenti critiche rivolte da Silvio Berlusconi a Ferruccio de Bortoli, di un Corriere della Sera non più difensore e rappresentante di una scomparsa borghesia «buona» e «conservatrice» è per l’appunto, oggi, più mito che credibile verità sociologica.

Neppure si capisce bene a quale Corriere d’antan il Cavaliere intendesse alludere.

A quello carismatico dei tempi di Albertini che schierò le batterie della storica testata prima a favore di Mussolini e poi contro? A quello democristianeggiante e filogovernativo di Missiroli che usciva negli anni in cui il giovane Berlusconi, più che giornali, leggeva spartiti musicali su navi da crociera? O quello grintoso di Alfio Russo, che non risparmiava né borghesi né proletari, oppure quello paludato di Spadolini, il quale oscillando tra Moro e Saragat attendeva di spiccare il gran volo da Via Solferino a Palazzo Chigi? Non credo infine che Berlusconi, già fortunato impresario appoggiato da Craxi e già in procinto di idolatrare Montanelli, potesse rimpiangere la virata a sinistra del Corriere di Piero Ottone sostenuto dalla borghesia cosiddetta «illuminata», incline al compromesso con i comunisti in piena avanzata ovunque. Anche in tanti giornali apparentemente legati al mondo borghese.

Di Corrieri con relativi suggeritori e in seguito editori puri e impuri ce ne sono stati tanti e diversi almeno dal 1923, anno in cui Mussolini, con il consenso o quantomeno l’omertà della grande borghesia, milanese e non, abolì la libertà di stampa che verrà riconquistata dagli italiani appena nel 1945. La data della grande svolta, che mette a soqquadro la piazza giornalistica di Milano, sarà il 1974. Segneranno l’anno fatale da un lato il declino della dinastia Crespi, proprietaria del maggiore quotidiano nazionale, e dall’altro lo scisma di Via Solferino che mi vide insieme con Montanelli e con Guido Piovene tra i fondatori del Giornale nuovo.

Da che parte stava la grande e più influente borghesia milanese di allora? Certo non con gli scismatici liberali, circa una quarantina, che avevano deciso di dissociarsi, dopo la direzione Spadolini, dalla deriva zodiacale e sessantottina del «Soviet Solferino» secondo la definizione dell’ex redattore Eugenio Montale. Se di una borghesia si poteva ancora parlare in termini di casta e di danaro, essa appariva schierata al fianco dell’affabulatore Ottone, che si dava toni demiurgici nei salotti, e dell’ultima Crespi, Giulia Maria, che di quei salotti era diventata una sorta d’icona ispiratrice e imperiosa. In realtà, non si trattava nemmeno di veri salotti, improntati alla civiltà mondana del Settecento e Ottocento parigini, aperti come l’antica agorà al confronto di idee e opinioni diverse. Nulla di simile, fra gli Anni 60 e 70 del secolo scorso, in certe sontuose dimore della borghesia milanese à la page. Più che salotti erano clan esoterici, confraternite quasi tribali chiuse intorno allo scettro del padrone o, meglio, della padrona.

In quei luoghi intellettualmente settari e asfittici, che si pretendevano ariosi e liberi, era d’obbligo pensare, parlare, vestire, talvolta perfino mangiare alla stessa maniera. Vi erano rappresentati l’imprenditore sociale e progressista, l’ecologo preoccupato, il sociologo d’assalto, la giornalista di costume, lo scrittore wildiano, lo psichiatra spregiudicato e antipunitivo. Il conformismo che vi regnava era monotono come lo sono le mode, e come le mode era esigente, esclusivo, di fondo autoritario; chi non accettava le convenzioni del gruppo, o le trasgrediva, si poneva automaticamente al bando da solo. Si depositava qui l’essenza ossimorica, insieme rigida e molle, della grande borghesia che si richiamava a valori inventati di sana pianta ma disponibili e utili al baratto politico col partito vincente o ritenuto tale. È qui che si facevano e disfacevano, tra lazzi ideologizzanti e talora scampagnate ecologiche, i direttori del Corriere nonché i cambi di proprietà. È qui che si faceva e disfaceva una certa Italia stampata. O, più semplicemente, si disfaceva una certa Italia. È infatti da qui, da questi intrecci d’azzardo tra politica e affari, nobilitati dalla magniloquenza sulla completezza d’informazione e la libertà di pensiero, che il Corriere dalla gestione ideologica di Ottone sarebbe precipitato nelle follie di Tassan Din e nello scandalo travolgente della P2.

È però doveroso fare una netta distinzione tra le velleità progressiste e spesso strumentali di una certa borghesia e i valori civili borghesi, i valori di libertà e di civiltà senza aggettivi. La distinzione tra chi firmava e chi non firmava petizioni assassine durante gli anni di piombo. Andrebbe detto e alfine riconosciuto in sede storica (si veda, in proposito, il documentatissimo libro L’anarchico borghese di Gerbi e Liucci pubblicato da Einaudi) che gli scismatici minoritari di Via Solferino, rispettati dall’editore Berlusconi che per anni non osò contraddire d’una virgola Montanelli, erano riusciti, nonostante attacchi terroristi non solo cartacei, a raccogliere nelle pagine vilipese del Giornale nuovo il meglio della cultura di dissenso liberale italiana, francese, russa, centroeuropea. Da Rosario Romeo a Renzo De Felice, da Fejtö a Sacharov, da Aron a Ionesco. Andrebbe anche ricordato che sono stati dedicati tanti scritti e persino un film all’«eroe borghese» Giorgio Ambrosoli, l’avvocato milanese ucciso da un killer di mafia, ignorando, però, ch’egli non fu soltanto l’irreprensibile commissario liquidatore della banca Sindona: fu anche il legale amico del gruppo del Giornale, sempre presente al loro tavolo, coi suoi pareri e consigli giuridici, nei giorni lunghi e febbrili della fondazione.

Ma fino a che punto è lecito dire che un quotidiano è «borghese» o non «borghese», espressione o non espressione della «borghesia»? E poi quale «borghesia»? Di quale epoca, quale orientamento politico, o quale smarrimento ideologico? Credo che spesso si esageri nel voler tracciare un rapporto di stretta e meccanica interdipendenza tra un quotidiano d’informazione e un determinato ceto sociale. Certo, come abbiamo visto, possono esserci sbandamenti d’epoca, casi d’inquinamento sociologico temporaneo di un quotidiano tradizionalmente destinato alla vastità del pubblico e non asservito a una parte di esso. Il giornalismo vero, in regime di democrazia, deve o dovrebbe rappresentare un sistema di valori autonomi dagli interessi immanenti dell’editore o della categoria cui l’editore appartiene. Quando Montanelli, dopo il fallimento della Voce, si ricongiunse alla matrice del vecchio Corriere, lo fece più per censurare che per favorire il politico che fino al 1993 era stato suo rispettoso editore. Il diritto all’autonomia giornalistica prevalse una volta di più in lui, così come oggi prevale nell’equanimità e pluralità di voci del Corriere di Ferruccio de Bortoli, attaccato simultaneamente da Berlusconi borghese di destra e da Scalfari borghese di sinistra.

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