martedì 20 ottobre 2009

Giuseppe Berta: Non tutto dipende dal mercato

Da La Stampa

20/10/2009

Non tutto dipende dal mercato





GIUSEPPE BERTA

La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no». Con questa affermazione recisa, pronunciata al termine di un convegno della Banca Popolare di Milano, ieri il ministro dell’Economia ha aggiunto un nuovo, importante tassello alla filosofia economica che va proponendo un giorno dopo l’altro, nei suoi commenti a margine della crisi globale. Per Giulio Tremonti la crisi ha rappresentato l’occasione per mettere ancora meglio a fuoco una visione del processo economico fondata sulla necessità di ripristinare un ordine che era andato smarrito nel periodo più intenso della globalizzazione, quello compreso tra la fine del Novecento e i primi anni del nuovo secolo.

La critica del «mercatismo» - che Tremonti ha imputato spesso anche alla sinistra italiana, vittima di una sorta di condiscendenza passiva al dogma dell’assoluta libertà economica - era per lui soltanto l’introduzione a un discorso centrato sull’urgenza di restituire un principio di senso all’economia, precipitata dal liberismo in uno stato caotico. Conoscevamo fin qui il Tremonti censore dell’abbattimento rapido e incondizionato delle frontiere economiche, di una globalizzazione finanziaria spinta all’estremo, delle banche accusate di sordità nei confronti delle esigenze dell’economia reale; nelle ultime settimane abbiamo imparato a conoscere anche il difensore dei piccoli produttori che si sentono soverchiati dalla mancanza di credito e oggi l’interprete della convinzione di quanti sono persuasi che il posto fisso «sia la base su cui organizzare il progetto di vita» delle persone e delle loro famiglie. Un punto di vista che si contrappone a quello dei tanti che avevano teorizzato, nell’ante-crisi, la fine dell’impiego a vita, indicando nella flessibilità e nello spostamento rapido da un’occupazione all’altra il paradigma del modo di lavorare dei nostri tempi.

A Tremonti preme soprattutto ricordare come sia plausibile e desiderabile un sistema economico in cui il mercato non costituisce né il centro né il metro di misura esclusivo di tutte le relazioni e le attività. Quando mette in opposizione il lavoro stabile e - perché no? - l’impiego a vita, magari all’interno di una piccola organizzazione, a una flessibilità illimitata, destinata a scadere inevitabilmente nella precarietà, sa di evocare un contrasto radicato nel senso comune delle persone, specie in una fase di crisi come quella che stiamo ancora attraversando. In realtà, chi sta pagando di più i costi della crisi sono i lavoratori non garantiti rintracciabili soprattutto dentro il mondo composito ed eterogeneo del terziario, assai meno nell’industria, dove le garanzie occupazionali permangono forti. Forse si potrebbe anche chiedere al ministro dell’Economia se non si poteva trovare qualche elemento di tutela per coloro che si sono trovati a essere investiti dall’onda della crisi senza riparo. Ma l’impressione è che l’intento di Tremonti, con l’uscita di ieri, fosse di portare argomenti ulteriori a favore di una politica che sappia reintrodurre un principio di ordine e di gerarchia nella vita economica.

In questa luce va letta l’esortazione del ministro a tornare allo spirito originario della Costituzione, un invito che suona sicuramente singolare nel momento in cui, dal governo, giunge semmai una sollecitazione un po’ ruvida a trasformarla e ad aggiornarla. Tremonti arriva invece a sostenere che dal confronto sviluppatosi dopo la guerra fra le culture politiche dei cattolici, dei comunisti e dei liberali è uscito un compromesso felice, codificato in princìpi sanciti dai costituenti, ma poi disapplicati. Per esempio, là dove si dice che la Repubblica tutela e regola il risparmio e identifica nel «credito una realtà che favorisce l’accesso alla proprietà, all’azionariato popolare».

Insomma, la lezione dei padri della Costituzione sarebbe stata tradita perché l’impulso verso la partecipazione e l’azionariato popolare nell’industria è rimasto sulla carta. Al suo posto, si è creato un sistema che «ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli del debito». Così sono state le banche a essere agevolate, col risultato che hanno finito per controllare l’industria, mentre ai tempi della Costituente le si sarebbe volute ancelle della produzione e dell’economia reale.

A leggerlo bene, il discorso di Tremonti punta ancora una volta in direzione delle grandi banche, che vorrebbe ricondurre sotto l’autorità politica, per impedire che si accaparrino un ruolo troppo vasto e incontrollato. Di qui una riscoperta delle peculiarità della storia d’Italia che riporta alla Costituente e, chissà forse, prima ancora, agli Anni Trenta e alla ben ordinata dislocazione delle funzioni economiche decisa da Alberto Beneduce quando fondò l’Iri.

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