domenica 25 ottobre 2009

Nicola Del Corno: La crisi della gauche in Europa è reversibile

dal sito leragioni.it


La crisi della gauche in Europa è reversibile
giovedì 22 ottobre 2009, 14.15.02 | Redazione
Nicola Del Corno interviene a proposito di Eclisse della Socialdemocrazia di Giuseppe Berta



Eclisse e tramonto hanno due significati ben diversi: se si sfoglia lo Zingarelli alla voce Eclisse si può infatti leggere: “temporanea invisibilità di un astro per interposizione di un altro”, laddove sotto quella di Tramonto si trovano scritte le parole “fine, termine”. Frettolosamente apocalittici sono allora risultati quei commentatori che, analizzando le recenti e inequivocabili sconfitte delle forze socialiste e laburiste europee nelle ultime tornate elettorali, hanno decretato la morte hic et nunc della socialdemocrazia. Ha ragione invece Giuseppe Berta quando, nel suo volumetto piccolo per mole ma non certo per contenuti, ha preferito parlare di eclisse di questa nella consapevolezza che quelle idee e quei contenuti, che comunque hanno informato il progresso della società nell’ultimo secolo, non sono certo destinati a scomparire definitivamente.

Ricontestualizzati secondo il mutare dei tempi, i concetti di eguaglianza e libertà hanno infatti l’obbligo di essere riproposti con forza e determinazione pena il prevalere di visioni egoistiche, gerarchiche e autoritarie. L’insegnamento di Carlo Rosselli, quello che fosse possibile coniugare finalità socialiste con istanze liberali per opporsi ad una deriva reazionaria , si rinnova pertanto a quasi ottant’anni dalla sua formulazione.


Berta non fa sconti, né li potrebbe fare, al venir meno di una tensione socialista ed egualitaria nella sinistra europea. Soprattutto il Labour Party è l’oggetto delle sue critiche, più che condivisibili: con Tony Blair il laburismo ha cessato infatti di interessarsi all’emancipazione della collettività per privilegiare il successo del singolo; ha abdicato alla sua funzione dialettica con il capitalismo, accettandone semmai incondizionatamente la versione nuova e più pericolosa di “turbocapitalismo”, ha perso di vista la distinzione fra industria e finanza. Ciò ha comportato anche una mutazione antropologica del deputato laburista: una volta questo si formava a contatto con la realtà delle comunità sociali, ora dopo l’università in qualche think tanks più o meno prestigioso.

Una buona dose di responsabilità nel venir meno presso l’opinione pubblica europea di passioni socialdemocratiche l’ha avuta anche lo strabismo della SPD tedesca; con un occhio rivolto all’indietro, ossia ad adusate parole d’ordine di un tempo che fu nel timore di vedersi erodere un certo tipo di consenso da sinistra, e uno rivolto ad un indistinto avanti per il timore di apparire demodé se non parla di flessibilità, globalizzazione, mercato, ecc. ecc.: il tutto però senza una precisa piattaforma strategico-politica di riferimento, insomma “tanta retorica, ma poca sostanza” per usare le parole dell’autore. Cosa che peraltro ha caratterizzato i cantori di una presunta nuova sinistra italiana che dalle pagine di prestigiosi giornali nostrani ci invitavano a considerare il socialismo solamente come un’anticaglia del passato e quindi a gettarsi anima e corpo nella modernità, pensando che questa si arrendesse volentieri alle sorti magnifiche e progressive della democrazia, delle primarie, del buonismo; salvo poi cambiare idea quando si sono accorti che è fallita la cosiddetta “offensiva dei gamberetti”; ossia che fra sinistra e finanza aggressiva c’è ben poco da spartire, e fortunatamente aggiungerei.

E allora cosa rimane alla sinistra europea? Dato che non ci si può limitare a impostare (e i primi scricchiolii di Zapatero sono lì a dimostrarlo) una linea di demarcazione con la destra solamente sulla linea Maginot dei diritti civili, della politica estera, degli impegni militari, allora conviene rivolgersi al di là dell’Oceano. Siamo al paradosso, è vero ma è così: la gloriosa socialdemocrazia europea deve guardare a un paese che socialista non lo è stato mai, e ciò lo ha sempre rivendicato con orgoglio. Pare allora l’America di Obama possa diventare la nuova stella polare perché l’eclisse non si trasformi in tramonto; come nota Berta a p. 53 alla convenzione democratica di Denver infatti “si sono di nuovo sciorinate […] le categorie di un lessico politico in cui è facile anche alla sinistra europea riconoscersi”: non solo assistenza sanitaria e welfare (cose che in Europa conosciamo benissimo) ma sono il rilancio del valore dell’organizzazione sindacale, la riscoperta delle associazioni per i diritti politici, la difesa del principio di una più ampia libertà di scelta individuale sulle questioni inerenti la nostra esistenza ciò a cui bisogna prestare attenzione senza tentennamenti e snobismi pseudo culturali di sorta.

Se Obama può allora concretamente indicare un modello pragmatico e governativo a cui fare riferimento, dal punto di vista delle idee, della cosiddetta piattaforma politica che oramai sembra mancare nelle visioni dei politici di sinistra del nostro continente, è a Keynes che secondo Berta bisogna tornare. Il suo trilema – efficienza economica, giustizia sociale, libertà individuale – permane in tutta la sua attualità; non ci sono infatti contraddizioni fra l’esigenza di salvaguardare alcune priorità su cui si deve basare un nuovo rapporto fra Stato, società e individuo nell’epoca contemporanea con la sempiterna esigenza delle primarie funzioni di governo a sostegno dei meno fortunati, pur nella consapevolezza che le risorse da ripartire sono sempre di meno. Questo è ciò che va fatto, e senza esitazioni, affinché appunto l’eclisse non si trasformi in un tragico tramonto.


Berta non fa sconti, né li potrebbe fare, al venir meno di una tensione socialista ed egualitaria nella sinistra europea. Soprattutto il Labour Party è l’oggetto delle sue critiche, più che condivisibili: con Tony Blair il laburismo ha cessato infatti di interessarsi all’emancipazione della collettività per privilegiare il successo del singolo; ha abdicato alla sua funzione dialettica con il capitalismo, accettandone semmai incondizionatamente la versione nuova e più pericolosa di “turbocapitalismo”, ha perso di vista la distinzione fra industria e finanza. Ciò ha comportato anche una mutazione antropologica del deputato laburista: una volta questo si formava a contatto con la realtà delle comunità sociali, ora dopo l’università in qualche think tanks più o meno prestigioso.

Una buona dose di responsabilità nel venir meno presso l’opinione pubblica europea di passioni socialdemocratiche l’ha avuta anche lo strabismo della SPD tedesca; con un occhio rivolto all’indietro, ossia ad adusate parole d’ordine di un tempo che fu nel timore di vedersi erodere un certo tipo di consenso da sinistra, e uno rivolto ad un indistinto avanti per il timore di apparire demodé se non parla di flessibilità, globalizzazione, mercato, ecc. ecc.: il tutto però senza una precisa piattaforma strategico-politica di riferimento, insomma “tanta retorica, ma poca sostanza” per usare le parole dell’autore. Cosa che peraltro ha caratterizzato i cantori di una presunta nuova sinistra italiana che dalle pagine di prestigiosi giornali nostrani ci invitavano a considerare il socialismo solamente come un’anticaglia del passato e quindi a gettarsi anima e corpo nella modernità, pensando che questa si arrendesse volentieri alle sorti magnifiche e progressive della democrazia, delle primarie, del buonismo; salvo poi cambiare idea quando si sono accorti che è fallita la cosiddetta “offensiva dei gamberetti”; ossia che fra sinistra e finanza aggressiva c’è ben poco da spartire, e fortunatamente aggiungerei.

E allora cosa rimane alla sinistra europea? Dato che non ci si può limitare a impostare (e i primi scricchiolii di Zapatero sono lì a dimostrarlo) una linea di demarcazione con la destra solamente sulla linea Maginot dei diritti civili, della politica estera, degli impegni militari, allora conviene rivolgersi al di là dell’Oceano. Siamo al paradosso, è vero ma è così: la gloriosa socialdemocrazia europea deve guardare a un paese che socialista non lo è stato mai, e ciò lo ha sempre rivendicato con orgoglio. Pare allora l’America di Obama possa diventare la nuova stella polare perché l’eclisse non si trasformi in tramonto; come nota Berta a p. 53 alla convenzione democratica di Denver infatti “si sono di nuovo sciorinate […] le categorie di un lessico politico in cui è facile anche alla sinistra europea riconoscersi”: non solo assistenza sanitaria e welfare (cose che in Europa conosciamo benissimo) ma sono il rilancio del valore dell’organizzazione sindacale, la riscoperta delle associazioni per i diritti politici, la difesa del principio di una più ampia libertà di scelta individuale sulle questioni inerenti la nostra esistenza ciò a cui bisogna prestare attenzione senza tentennamenti e snobismi pseudo culturali di sorta.

Se Obama può allora concretamente indicare un modello pragmatico e governativo a cui fare riferimento, dal punto di vista delle idee, della cosiddetta piattaforma politica che oramai sembra mancare nelle visioni dei politici di sinistra del nostro continente, è a Keynes che secondo Berta bisogna tornare. Il suo trilema – efficienza economica, giustizia sociale, libertà individuale – permane in tutta la sua attualità; non ci sono infatti contraddizioni fra l’esigenza di salvaguardare alcune priorità su cui si deve basare un nuovo rapporto fra Stato, società e individuo nell’epoca contemporanea con la sempiterna esigenza delle primarie funzioni di governo a sostegno dei meno fortunati, pur nella consapevolezza che le risorse da ripartire sono sempre di meno. Questo è ciò che va fatto, e senza esitazioni, affinché appunto l’eclisse non si trasformi in un tragico tramonto.

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