venerdì 16 ottobre 2009

Bianca La Rocca: Lo spazio bianco

Sono una madre "comunista" di una splendida ragazza di 22 anni, alta m. 1.75, bella ed intelligente. Ma la mia "Chicca" è nata alla 34esima settimana di gestazione, pesava Kg. 1,380, che, con il calo fisiologico arrivò ad un Kg.1,200. I medici, tutti bravissimi, la dichiararono fuori pericolo, ovvero senza conseguenze per il parto prematuro, (dovuto ad un forte stress emotivo, causa la perdita di alcuni cari), dopo più di 30 giorni dalla nascita. E' rimasta sotto stretto controllo medico fino al primo anno di vita. Tutto in strutture sanitarie pubbliche ed a Roma (tra l'ospedale San Giovanni e il Policlinico). Riuscite minimamente ad immaginare cosa prova una donna a stare tanti giorni senza sapere se suo figlio/a è veramente nato?
Sono andata a vedere "Lo spazio bianco" con una bravissima Margherita Buy ed ho rivissuto, attimo per attimo, quei terribili giorni. La situazione di Maria è anche peggiore di quella da me vissuta. Maria è sola, come sono spesso sole le donne di fronte alla maternità. Negli stessi giorni in cui nasceva mia figlia, una mia carissima amica "comunista" partoriva un bambino affetto da sindrome down, dopo un anno il marito l'ha lasciata perché non se la sentiva di essere padre di un bambino malato. Naturalmente, anche il piccolo C. adesso è una splendido ragazzone di 22 anni. E questo grazie solo alla madre "comunista" rimasta sola fino ad oggi. Bene, adesso leggete cosa scrive il critico cinematografico (?????) Giorgio Carbone su Libero di oggi e ditemi se non vi viene la nausea e da vomitare:

LA TRAMA
Maria (Margherita Buy) insegna in una scuola serale in un quartiere popolare di Napoli. Quarantenne, single, forse non ha mai pensato a costruirsi una famiglia. E non lo pensa nemmeno quando va a letto con una delle sue tante conoscenze di balera. Ma lo fanno senza contraccettivo e Maria resta incinta. Lui si dilegua abbastanza in fretta (è già babbo per conto suo). Maria invece accetta con inaspettato entusiasmo l’idea della maternità. Sarà femmina e si chiamerà Irene. Irene però è frettolosa. Nasce di sei mesi ed è un cosino piccolo subito infilato nell’incubatrice. Vivrà? Non vivrà? Vivrà sana? I medici danno a Maria tre mesi prima di sciogliere ogni riserva. Un’eternità (lo “spazio bianco del titolo). Tredici settimane dure da rimontare per chiunque. Figuriamoci per un’agitata ansiosa nevrotica lunatica come era già Maria prima della nascita (Margherita Buy non ha fatto eccessivi sforzi a entrare nella parte). Sarà dura, ma la matura mammina ce la farà. Grazie ai suoi studenti (bambinoni cinquantenni). Grazie a una compagna d’attesa (Antonia Truppo, ormai abbonata alle parti di amica simpatica e linguacciuta). Grazie anche al dottorino del reparto pediatrico, che se la porta anche a letto (bella forza, dottore, le annunci che la bambina forse ce la farà, e come fa Maria a non cascarti nelle braccia?). Grazie soprattutto a una vicina di casa, una donna magistrato nel mirino della camorra. Che ha sacrificato molto (famiglia, serenità) e che forse tra poco perderà anche la vita. Ma che l’esorta ugualmente a non mollare.
Finisce bene. Irene vivrà, e da sana e forte. Se la Comencini la faceva finir male (in omaggio al “rigore” e al “realismo”) era da fucilare.
PIACERÀ
A un numero molto maggiore, ci auguriamo, di quello che normalmente affolla (si fa per dire) i film di Francesca Comencini. Francesca, figlia numero due del grande Luigi (“Tutti a casa”, “Pane amore e fantasia”, “Le avventure di Pinocchio”) è da circa vent’anni un nostro pallino e un nostro cruccio. Brava, è brava, forse più della sorella Cristina (“La bestia nel cuore”). Dal padre ha imparato tutto: i tempi cinematografici, la direzione degli attori, il “montaggio” al decimo di secondo. Eppure la sua filmografia è zeppa di opere che gridano vendetta. Da “Carlo Giuliani, ragazzo” (docu- fiction sul G8 di Genova) all’opera di esordio “Pianoforte”. Papà Luigi le aveva insegnato tutto, ma la nostalgia per i film della nouvelle vague e la militanza nell’estrema sinistrissima gliel’avevano fatto disimparare.
Francesca deve aver vissuto (professionalmente) una situazione schizoide mica male. A un pelo dal fare un film orrido (“Carlo Giuliani”) si riscattava con un’impennata geniale. A un passo dall’opera veramente azzeccata (“A casa nostra”) s’era fatta fuorviare da sussulti bertinottiani. E aveva impallinato un bel film per la smania di dipingere Milano come un posto “nero” e invivibile (come può solo essere ai suoi occhi, una città dominata da Craxi negli anni ’90 e da Berlusconi nell’ultimo ventennio).
Con “Lo spazio bianco” invece, la Comencini fila che è un piacere. Ha molte condizioni per filare. All’origine un bel romanzo di Valeria Parrella. Un cast giusto per ogni parte (anche le minori). Una storia che farà aprire le cateratte a ogni spettatrice. Però Francesca ci ha messo tanto del suo. Una sceneggiatura senza sbavature. Un centellinato mix di dramma e umorismo. Una regia, netta essenziale, da mostrare e rimostrare in ogni scuola di cinema.
Certo, la Francesca non sarebbe lei se rinunciasse a dare un piccolo spazio al suo demonietto bertinottiano.
Il film è ambientato a Napoli, probabilmente perché lo era il romanzo. L’immagine di Napoli negli ultimi anni è quella che è. Una metropoli soffocata dalla spazzatura, serrata nella morsa della camorra. Ma quella di “Lo spazio bianco” sembra Lugano. Linda, pulita, silenziosa, con un’organizzazione ospedaliera di prim’ordine. Ci voleva Francesca per mondare di colpo Napoli, Bassolino, la Iervolino (e il Pd) di ogni peccato.

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