mercoledì 10 dicembre 2008

zanone: ma in vaticano don benedetto fu messo in croce

la stampa

10/12/2008

Ma in Vaticano Don Benedetto
fu messo in croce





VALERIO ZANONE

Oggi pomeriggio alle 15 nell’Aula Magna dell’Università di Torino Luigi Compagna, Guglielmo Gallino e Valerio Zanone presentano la riedizione del celebre saggio di Benedetto Croce «Perché non possiamo non dirci “cristiani”» che il Centro Pannunzio dedica ad Alda Croce, sua presidente onoraria, che compie 90 anni. Ecco un’anteprima dalla prefazione di Zanone.

Nei Taccuini di lavoro dell’anno 1942, Benedetto Croce annota giorno dopo giorno i tormenti della sua estate a Pollone. 16 agosto: «Risvegliatomi dopo la mezzanotte sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: perché non possiamo non chiamarci cristiani? La mattina ho tracciato il disegno di un piccolo scritto sull’argomento». Lo scritto prende forma dieci giorni dopo: «Per scuotere la malinconia ho meditato e scritto il saggio sul Perché non possiamo non chiamarci cristiani, che dovrò qua e là schiarire nel copiarlo». Fra il 28 ed il 29 agosto lo scritto è affidato per la trascrizione alla figlia Elena e il dattiloscritto è riveduto. Pubblicato nella Critica e ristampato nel 1945 nei Discorsi di varia filosofia lo scritto, pensato dapprima in forma interrogativa, poi formulato in positivo ma sempre in forma di doppia negazione («non possiamo non...») e infine rinforzato nel titolo dell’iniziale «chiamarsi» nel più esplicito «dirsi», riflette la tristezza del filosofo settantaseienne di fronte alla violenza del neopaganesimo nazista; e per intenderne lo stato d’animo, va letto in parallelo con l’altro scritto del 1942 intitolato Soliloquio di un vecchio filosofo. [...]

Era facilmente comprensibile e da Croce fu compreso in anticipo, che la Chiesa pronunciasse il «non possumus» verso quel dio senza mistero, quella fede senza messianismo, quella religione senza teologia. Ma di fronte alla barbarie che minacciava la morte della civiltà, il Croce del 1942 volle risalire il corso della civiltà fino alle fonti, perché i figli della storia si riconoscessero figli del cristianesimo. Nonostante la commozione retorica con cui lo descrisse, il cristianesimo di Croce rimane totalmente laico nel significato biblico: laico è tutto ciò che non ha ricevuto consacrazione sacerdotale.

Il «perché non possiamo» si inscrive nella meditazione solitaria che condurrà l’ultimo Croce a misurarsi, ancora una volta senza ricorso alla trascendenza, con L’Anticristo che è in noi, l’Anticristo che abita nell’individuo umano come pretesa di assolutezza.

Nell’insonnia della notte di estate sulle colline biellesi, la ricerca non si discosta dall’abito mentale dello storicista, anzi lo conduce fino a laicizzare la religione nella storia. Il cristianesimo personale di Croce è tutto nella storia del mondo. Non c’è niente oltre la storia, in un altro mondo. Ma per non lasciarsi travolgere dal male che è nel mondo, Croce cerca un appiglio nella storia e lo trova nella storia cristiana.

Fra il dirsi «cristiano» di Croce e il cristianesimo della Chiesa Cattolica i conti restano aperti, a cominciare dalla rivista che nel 1943 per prima e più autorevolmente recensì il saggio crociano appena pubblicato. In due articoli sulla «Civiltà Cattolica» apparsi nel 2008, intitolati La religiosità di Croce (gennaio) e L’ultimo Croce (giugno), il padre gesuita Giandomenico Mucci riconosce che lo scritto del 1942 «deve molto al timore che la barbarie nazista prevalesse in Europa» ed oppone a quella barbarie «una nobile apologia dello svolgimento storico della religiosità cristiana». Mucci coglie «l’aura di religiosità» che circola nella filosofia dello Spirito di Croce e soprattutto nel pathos interiore dei suoi ultimi anni: in ciò consiste, a mio avviso, la diversità fra le opere della maturità e gli scritti dell’ultimo Croce, cui peraltro padre Mucci rende l’onore delle armi, riconoscendo che il filosofo restò «fedele alla sua filosofia fino alla morte». Fedele ad una spiritualità che esclude la trascendenza, considera i misteri della fede nient’altro che negazioni del pensiero; rinuncia alla mitologia dei dogmi e dei riti per ancorare l’individuo alla libertà della propria coscienza. Quel «Dio che a tutti è Giove» della lettera a De Gasperi resta per Croce «il Dio che è in noi», senza rinvii soprannaturali.

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