mercoledì 10 dicembre 2008

carlo flamigni: il diritto di morire

dal sito di sd














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Il diritto di morire
Esiste il diritto di morire, di rinunciare a esistere, quando proprio non ce la facciamo più e ammesso di non aver contratto debiti con la società? Esiste il diritto di chiedere a un medico, o a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che abbiamo abbandonato il nostro corpo, non lo abitiamo più, e la vita in lui non ha altro scopo di quello di far crescere la barba e stimolare la contrazione dell’intestino, -abbiamo ancora il diritto - noi per averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri – di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica? Come tutti sapete c’è, su questi temi, una discussione acida e sgradevole; come sapete, questa discussione avviene tra chi sventola la bandiera dei diritti e chi agita lo stendardo degli interessi politici e appoggia le posizioni della religione di stato non per convinzione ma per mero calcolo. Ignobile, ma vero.
Oggi, nei paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in Ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario rispetto al passato. Essendo in grado di sostituire le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo- per quella della persona il problema è diverso – la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?
Certamente oggi possiamo fare molto per prolungare la vita di una persona, anche si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella specifica persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire. Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?
Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. C’è chi ritiene che sia arrivato il momento di rinunciare alla tecnologia, che è poi all’origine del problema. C’è chi si limita a chiedere regole per fermarla là dove cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma poi i criteri per definirlo non sono condivisi, e questo sarà il tema dominante nella prossima discussione parlamentare sul testamento biologico.
I giuristi pongono naturalmente molta attenzione al tipo di eutanasia al quale si fa ricorso, altro è parlare di una eutanasia attiva, altro è ragionare di una eutanasia passiva, cioè della sospensione di un trattamento che mantiene in vita un malato: in questo ultimo caso si tratta di un atto omissivo, la causa della morte di quel soggetto sarà la malattia, non la condotta del medico o dell’amico. Ma anche nel caso di eutanasia passiva bisogna saper distinguere gli eventi nei quali è stato comunque necessario un intervento – staccare una spina, togliere una fleboclisi – da quelli nei quali si è più semplicemente deciso di interrompere le cure prestate fino a quel momento, e bisogna distinguere tra i casi in cui la decisione è stata tutta del medico e quelli in cui è il paziente a richiedere la sospensione del trattamento. Non c’è bisogno che ricordi che nel nostro Paese l’eutanasia è vietata e configura il reato di omicidio, ma che alla faccia di tutte le leggi moltissimi medici sono disponibili a eseguire interventi di eutanasia indiretta, somministrando quantità di farmaci – usualmente antidolorifici – così elevate da avere come effetto secondario quello di anticipare la morte.
Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili : il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come “ criteri di giustificazione delle credenze morali” . Ogni principio consiste in una affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento, nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.
Secondo il principio della inviolabilità della vita il valore della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare e senza dare alcun peso ai desideri delle persone viventi. La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità della vita, dal concepimento alla sua fine naturale ( e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre , un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali i tedeschi torturavano i patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.
Per il Magistero cattolico la vita umana è inviolabile, dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto, i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti, che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco credibili. Solo i dogmi fideistici rendono accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente è indifferente vivere o morire.
Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente , la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità che ognuno di noi desidera realizzare.
Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”. Dunque l’autonomia è il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato

Ha scritto recentemente Giovanni Boniolo che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.
Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartiene la vita e a chi appartiene l’esistenza. Se si tiene conto del diverso significato dei due termini, la vita non è di nessuno: stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino..
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.
Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso: a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri . Se l’esistenza non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio ? Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo : cosa è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poter ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanza può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza , vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.
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Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.
L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca assioma, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o non ha mai creduto, potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.
Il secondo problema riguarda la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. A queste discussioni non possono partecipare preti, sacerdoti e cultori della metafisica, poiché l’esistenza di un dio, che è l’unico sostegno delle loro ipotesi, è una tesi interessante ma impossibile da dimostrare e rimarrà per sempre, per molte persone come me, una romantica menzogna.
L’eutanasia riguarda, almeno in linea di principio, persone gravemente ammalate, senza ragionevoli speranze di migliorare e guarire, afflitte da terribili sofferenze o gravate da altrettanto dolorose sensazioni di perdita della propria dignità, che sono però generalmente coscienti e consapevoli e comunque in grado di comunicare agli altri le proprie scelte razionali. Questa seconda parte dell’articolo riguarda però persone che questa possibilità di comunicare l’hanno perduta e giacciono in uno stato di incoscienza. Si tratta dunque di ragionare sulla irreversibilità di questa privazione della coscienza e della capacità di comunicare e, insieme, di chiederci come consentire a un comune cittadino, che ha idee molto precise sulle cure e sui trattamenti che è disposto a ricevere e a subire e sa di poter imporre le proprie scelte ai medici finché è in grado di comunicare con loro, di veder rispettate le proprie scelte anche se non riesce a comunicarle ai sanitari perché è giunto incosciente in ospedale.
Lo stato vegetativo permanente appartiene alla famiglia allargata dei coma, definita anche degli stati neurobiologici a basso livello; forse il meno compreso e il più controverso disturbo della coscienza, segue in genere uno stato di coma causato da una grave lesione .E’ una condizione nella quale manca completamente la coscienza di sé e dell’ambiente , accompagnata dal mantenimento del ritmo sonno - veglia mentre sono mantenute, in modo completo o parziale, le funzioni autonomiche.
I medici sono da tempo giunti a un consenso per quanto riguarda le condizioni necessarie perché si possa perfezionare la diagnosi di stato vegetativo persistente:
-nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente:
-incapacità di interagire;
-nessuna evidenza di comportamenti riproducibili, finalizzati o volontari in risposta a stimoli uditivi, tattili o dolorosi;
-nessun segno di comprensione o espressione verbale;
-uno stato di intermittente vigilanza compatibile con il ritmo sonno veglia;
-il parziale mantenimento delle funzioni del tronco e dell’ipotalamo sufficienti a garantire la sopravvivenza in presenza di cure mediche;
-incontinenza;
-variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi cranici.
Il primo problema da risolvere in caso di stato vegetativo è quello della sua irreversibilità: se ci fossero probabilità reali di vedere il malato tornare alla piena ( o anche solo alla parziale) coscienza, evidentemente si dovrebbe avere per la sua sopravvivenza tutta l’attenzione possibile. La medicina non ha però, per questo quesito, risposte sicure, parla solo in termini di probabilità statistica: ma sapere che dopo un certo periodo di permanenza in questa condizione ( diciamo, per eccesso, due anni) non sono mai stati descritti casi di ripristino della coscienza, avrà pure un significato!
Immaginiamo adesso di lavorare in un istituto di neurologia e di avere ricoverato un paziente che è, da un certo periodo di tempo , in uno stato neurovegetativo persistente. Ammettiamo di trovarci di fronte a un caso in cui il tempo trascorso in condizioni di incoscienza, il tipo di lesioni, gli accertamenti strumentali tutti, ci confermano nella quasi assoluta certezza che per quella persona non esiste la possibilità di un recupero. E, per intenderci, quello che è successo nel caso di Eluana Englaro.
Immagino che in una situazione siffatta dovremmo chiedere ai parenti e agli amici più cari del paziente se lo avevano mai sentito esprimersi su questo argomento, se aveva mai dichiarato, quando poteva farlo, la propria indisponibilità alle cure mediche nel caso fosse stato evidente che si trattava di interventi inutili, rivolti solo a mantenere un vita il suo corpo dopo che tutto quello che faceva di lui una persona – intelligenza, sensibilità, capacità di comunicare e di entrare in relazione con il mondo, dite voi- se ne era andato per sempre. E immaginate di scoprire che sì, in effetti quel paziente aveva dichiarato, più volte, di voler rifiutare, in quelle condizioni, ogni specie di trattamento e di cura.
Alla fine delle vostre indagini, dunque, vi trovate a dover gestire un corpo che è stato abbandonato dalla persona che lo ha abitato a lungo, un corpo nel quale tutte le cellule sono in grado di sopravvivere, ma che è ormai e per sempre privo di intelligenza, coscienza, sensibilità, di tutto quello per cui le persone che ora piangono fuori dalla porta gli hanno voluto bene, lo hanno amato e apprezzato. E quella persona che se ne è andata per sempre vi invia anche, tramite i suoi amici, il suo ultimo messaggio, la sua ultima richiesta: rispetta il mio povero involucro, lascialo morire in pace.
Credo che una gran parte di noi, in queste circostanze, non avrebbe perplessità, saprebbe chiaramente come comportarsi. Nella realtà e nella pratica, però, non è così, e la maggioranza dei medici si ritiene obbligata a mantenere in vita quell’involucro, per permettere all’intestino di avere la sua peristalsi, alla barba di crescere, ai reni di filtrare urina.
Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Banez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico ed esistono teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari ( che è del 1994) si aggiunge “ quando non divengano gravosi per il malato”. Ma quando mai si può verificare un evento del genere?

Secondo il Magistero cattolico dunque il cosiddetto sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale, non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico e interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.
In questa attenzione esisterebbe una valenza umana che secondo le intenzioni dovrebbe essere un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole. Sospendere alimentazione e idratazione si configurerebbe come vera eutanasia omissiva , intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, anche in queste condizioni la vita umana, la vita biologica del’uomo, è un bene indisponibile, anche in assenza totale e definitiva di ogni capacità cognitiva; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico (cioè, in pratica, mai).
A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ecco, ad esempio, quello che scrive la Società Italiana di nutrizione parenterale :
La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale, non essendo un prodotto preconfezionato in commercio. Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante.
Si tratta dunque di trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti «cibo e acqua» – come affermato dalla maggior parte dei bioeticisti cattolici – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al «fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)» . Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i documenti dei bioeticisti cattolici i sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del «forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro» rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di «cibo e acqua».
A questo punto è obbligo chiedersi come sia mai possibile che uno stato laico si avvii ancora una volta ad approvare una legge che si ispira ad un principio sostenuto da una specifica fede religiosa. La risposta che viene data dal mondo cattolico è che si tratta di concezioni etiche che sono divenute parte , in questo momento storico, della coscienza giuridica complessiva, capisaldi pregiuridici che non possono non imporsi anche al legislatore laico. E’, ancora una volta, una menzogna, una sciocchezza e una prevaricazione.

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