domenica 28 dicembre 2008

Vittorio melandri: il paese più corrotto

1°) L’Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì.

2°) L’etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi» (sempre sordidi per definizione)

3°) I magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione.

Angelo Panebianco (Corriere della Sera - 28 dicembre, 2008)

Cosa impedisce alle giovani generazioni l’accesso alla vita, l’ingresso dalla porta principale nella comunità Paese, che ha tanto bisogno delle loro energie? Una volta, stando ad un cantante che dovrebbe sempre e solo cantare (visto che quando parla arriva a dire che lui sputa in bocca alla gente), era “solo una sana e consapevole libidine a salvare i giovani dallo stress e dall’azione cattolica”, oggi invece, stando all’autorevolissimo Corriere della Sera e al suo editorialista di punta Angelo Panebianco, i giovani vanno salvati, depurati, dagli odiosi dogmi riportati sopra e che lo stesso Panebianco addita al pubblico ludibrio, cominciando appunto dalla prima pagina del Corriere, e finendo a pagina 32, appena prima della 33 dove, un altro autorevolissimo editorialista, questo anche “ambasciatore”, Sergio Romano, ospita nella sua rubrica l’avv. Vittorio Dotti che ricorda come “nel nostro Paese la corruzione dilaghi e sia sprofondato al 55° posto fra le nazioni di tutto il mondo nella classifica per trasparenza e correttezza delle amministrazioni pubbliche.”

Sembra davvero una caricatura del “cerchiobottismo” che sarebbe abusato dalla satira, per deridere il “Corrierone”, e invece tutto questo è “cerchiobottismo” autentico, frutto pregiato del quotidiano che fu tratto dalle grinfie della P2 da Alberto Cavallari ed oggi è mirabilmente condotto da Paolo Mieli e P.G. Battista (quello che pontifica sul doppiopesismo), intanto che dietro le quinte, figure preclari ….stanno.

Spero di non invadere troppo la mail aggiungendo articoli in tema, di Carlo F. Grosso, Giuseppe De Rita, Guido Crainz, ed Eugenio Scalfari. (L’intento è quello di offrire anche a chi li ha letti, una comoda possibilità di archiviarli).

Buona domenica, vittorio melandri

Riequilibrio dei poteri La Stampa 27/12/2008



di CARLO FEDERICO GROSSO



Catanzaro, Salerno, Pescara: tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario, tre Procure che, con modalità diverse, hanno reso un servizio pessimo all’immagine dell’ordine giudiziario. Poiché non si tratta di casi isolati di scarsa avvedutezza, un problema «magistratura» nel nostro Paese indubbiamente esiste. Si tratta di stabilire come affrontarlo.


Da tempo una parte della politica sta affilando le armi contro i magistrati poiché, sostiene, occorre riequilibrare i rapporti di potere fra giustizia e politica, sbilanciati a favore della prima. È ora di farla finita, si precisa, con una magistratura senza controlli, in grado d’interferire pesantemente sulla politica e capace di fare e disfare amministrazioni e governi con il gioco delle inchieste giudiziarie. È accaduto ai tempi di Mani pulite, ora basta. Quest’idea affiora oggi, talvolta, anche tra le file della sinistra. Non si tratta, ancora, di linee politiche ufficiali. Tutt’altro: ufficialmente a sinistra si nega e si rifiuta. Il rischio, peraltro, è che in un quadro politico contraddistinto da una maggioranza apparentemente granitica e da una minoranza divisa e disorientata, la prospettiva di un’ampia impunità degli atti politici attraverso il parziale controllo di indagini e indagatori possa fare improvvisamente breccia e trovare il suo sbocco in una sorta di autoassoluzione collettiva.


La posta in gioco è rilevante. Sono in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, la divisione dei poteri, l’eguaglianza dei cittadini. Essa appare, d’altronde, tanto più rilevante ove si consideri che, contemporaneamente, si vocifera di modificazioni dei regolamenti parlamentari o di riforme costituzionali destinate a rafforzare l’esecutivo rispetto a un Parlamento giudicato un intralcio per un’efficiente azione di governo. Già oggi, d’altronde, attraverso l’impiego ripetuto del voto di fiducia, l’esecutivo cerca di troncare il dibattito parlamentare eludendo la normale dialettica con l’opposizione, mentre soltanto la resistenza del Presidente della Repubblica evita che la decretazione d’urgenza diventi strumento sistematico di produzione legislativa. Qualcuno, giorni fa, ha parlato di tenace ricerca di un potere sostanzialmente unico, del governo e del suo capo.


Ma torniamo al tema giustizia. C’è un nodo fondamentale attorno al quale occorre riflettere: che il politico, come ogni altro cittadino, deve essere soggetto alla legge e non può godere di odiosi privilegi. Un ministro che ruba, un presidente di Regione che prevarica, un sindaco che accetta indebitamente denaro deve essere punito, come deve essere punito chi scippa, rapina, violenta. Anzi, se una ruberia è commessa da un eletto, la giustizia dovrebbe essere inflessibile, in quanto l’autore ha tradito la fiducia che gli è stata riconosciuta con il voto.


In questa prospettiva, parlare di riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura, di conseguente limitazione delle indagini nei confronti degli eletti, di selezione politica dei reati annualmente perseguibili, di sottrazione ai pubblici ministeri del controllo della polizia, di limitazione nell’uso di strumenti fondamentali come le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione è del tutto privo di senso. In realtà, occorrerebbe rivedere la stessa disciplina dell’autorizzazione alle misure cautelari nei confronti dei parlamentari, che una prassi lassista tende a dilatare rispetto ai limiti stabiliti del fumus persecutionis.


Per altro verso, occorre invece reprimere gli arbitrii, gli eccessi, gli errori, le arroganze dei magistrati. Non è tollerabile che l’incapacità, l’inadeguatezza, la scarsa avvedutezza di qualcuno, la sua sicumera, la ricerca di visibilità, magari la stupidità, consentano eventuali aperture improprie di indagini penali, una loro prosecuzione non giustificata, iniziative improvvide sul terreno cautelare. Questo problema non concerne tuttavia, specificamente, il rapporto fra giustizia e politica; interessa tutti i cittadini, che, appunto tutti, hanno il diritto di non essere trascinati in procedimenti penali avventati, in giudizi non sufficientemente ponderati, in iniziative esorbitanti.


Ecco, allora, l’indubbia necessità di un intervento riequilibratore. Esso non deve essere, tuttavia, riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra esercizio del potere giudiziario e diritto di tutti i cittadini a una valutazione giudiziaria seria e serena. Esso non può, per altro verso, incidere sul contenuto del controllo di legalità, che in uno Stato bene ordinato deve essere libero e indipendente, ma riguardare la verifica di correttezza dell’attività di pubblici ministeri e giudici e la conseguente attività disciplinare. Su questo piano il Parlamento dovrebbe essere finalmente drastico. Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, serie valutazioni attitudinali, controlli periodici, magari a campione ma penetranti, riorganizzazione manageriale degli uffici e della loro dirigenza, monitoraggio sull’attività compiuta da ciascun magistrato dell’ufficio, inflessibilità nella repressione disciplinare degli abusi, delle inerzie, degli errori. Tutto ciò che oggi non avviene, o che avviene poco o malamente, ma che, a garanzia di tutti i cittadini, dovrebbe invece inflessibilmente accadere.











POTERE E QUESTIONE MORALE



I vedovi del duello Corriere della Sera 27 dicembre 2008



di Giuseppe De Rita



Spero che qualcuno avverta la povertà del linguaggio unico, e forse del pensiero unico, che impera sull’argomento denominato «questione morale ». Una povertà dove si annida il rischio che, girando e rigirando mediaticamente nobili o allarmate parole, si vada da nessuna parte, fino a quando alla fiammata moralistica subentrerà un accentuato cinismo. Un rischio che merita quindi uno sforzo di diversa interpretazione. Nelle vicende di questi mesi (come in quelle del ’92-’93) è in atto la trasposizione allargata della politica non nella guerra ma nella violenza, secondo la reinterpretazione di Clausewitz fatta da Aron e Girard.



La voglia di annientamento del nemico, vero fine di ogni violenza (anche di quelle giudiziarie e mediatiche) avviene ogni giorno, mettendo in grande evidenza anticipazioni e intercettazioni. Ma contrariamente a quindici anni fa non sembra esserci oggi un compatto disegno politico di annientamento del nemico, ma piuttosto una tendenza a far rifluire i fenomeni in due tipiche categorie italiane: il policentrismo e il localismo. Qualche moralista dirà che son due categorie che non c’entrano in una vicenda che è solo e soltanto un drammatico duello fra ladri e guardie, fra scatenati mascalzoni e ordinati servitori dello Stato.



Ma a ben vedere «il duello», come confronto biunivoco a due parti (ad esempio, fra berlusconismo e antiberlusconismo), non c’è più. Le vicende di cui si parla sono tanti duelli incrociati: fra politici e magistrati; fra politici fra di loro e magistrati fra di loro; fra mezzi di comunicazione di massa e politica; fra autorità politiche centrali e periferiche; fra poteri di rappresentanza sociopolitica e poteri forti, magari occulti. Siamo cioè in presenza di una lotta a tanti protagonisti, in una inestricabile confusione di ruoli e poteri. Tutti i soggetti in campo pensano di star facendo un duello con un solo avversario (con il presidente regionale o con il collega procuratore) e non si sono accorti che il concetto di duello fra due forze contrapposte è finito da un pezzo, anche sul piano internazionale, in ragione di un crescente policentrismo dei poteri e dei conflitti. Sbagliano quindi coloro che sperano che il duello finisca con l’annientamento dell’avversario; in un sistema policentrico l’annientamento assoluto non esiste, ci sono solo morti e feriti. La storia, procede, e la gestiranno solo coloro che sapranno combinare la violenza con le armi della politica. Il resto è spettacolo, drammatico e attraente, ma spettacolo. E purtroppo fa parte dello spettacolo anche la nostra invincibile dimensione localistica. La lettura dei documenti giudiziari e delle intercettazioni allegate è esercizio deprimente: vince il volgare vernacolo (e «la lingua è la forma del pensiero»); vincono le locuzioni mirate all’omertoso «ci capiamo »; sono costanti i riferimenti a circuiti e consorterie locali; vincono le «chiacchiere», grande capitale sociale della nostra provincia; cresce lo sdegno per piccoli privilegi di persone e clan; si capisce come, nel montarsi emozionalmente a vicenda, maturi nella gente l’attesa di un vendicatore (giudice o giornalista che sia).



Il magistrato di procura finisce per diventare il riferimento obbligato e atteso dei mormorii localistici, che si trasmettono prima nelle sue orecchie e poi nelle sue inchieste. Non a caso queste diventano sue gelose proprietà e fanno parte del suo prestigio personale: tenerle alte è la migliore difesa, perché tenerle basse potrebbe dar luogo a chiacchiere deluse delle comunità. La dialettica sociale della comunità resta quindi il riferimento costante di tante nostre vicende giudiziarie, insieme al policentrismo dei poteri. Se non si avvia una faticosa politica su questi due riferimenti (articolando i poteri ed i loro controlli) non si andrà da nessuna parte. Si attiveranno solo ulteriori duelli, avvertiti come «epocali» solo da chi ne è coinvolto.























LA CORRUZIONE E LE SUE RADICI la Repubblica

sabato, 27 dicembre 2008



le origini di un fenomeno che affligge l’Italia dagli anni settanta



storia di un’infezione nazionale la corruzione



La “normale” violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro Paese

La “diversità” comunista oggi appare come un reperto archeologico



di GUIDO CRAINZ


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Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della “normale” violazione della legalità (la “corruzione inconsapevole” di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.
La “diversità” comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull’onda di quello scandalo.


L’iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall’Urss, dall’altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l’insistenza dell’ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l’orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l’appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l’aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell’intera classe dirigente». Ed è dell’anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell’intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.

A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c’è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l’opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la “cultura della corruzione”: nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell’Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L’assenza di regole domina ovunque, anche nella “capitale morale”. E siamo qui nell’angoscia, nell’umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L’Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal “reddito da tangenti” (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall’altro l’immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull’identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull’Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d’epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all’Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».

In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della “prima Repubblica”] è l’espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l’Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla “solitudine interna” di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall’alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».

Alla lunga distanza c’è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell’opinione pubblica siano state poi sepolte dall’illusione in una salvifica “seconda Repubblica”. Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di “un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire”. Così ci appare oggi anche l’Italia dei primi anni Novanta e c’è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l’intero paese.























LA TRISTE STORIA DELL’ITALIA CORROTTA la Repubblica domenica, 28 dicembre 2008



di EUGENIO SCALFARI


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L’ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?

Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all’ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell’ordine giudiziario e di stroncare l’immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell’immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.


Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul «Corriere della Sera» e da Guido Crainz su «Repubblica».


Quest’ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?


In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell’ultima guerra e molto prima del fascismo, l’Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D’Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di «cagoia», Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.

A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.


«I Vicerè», il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della «romanità»: l’impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un «combinat» di forza militare e di corruttela pubblica. Nel «De Bello Jugurtino» Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: «Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore».
Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?


* * *


Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell’erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all’Italia moderna.

Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.

Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.

L’opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.

Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell’esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.

Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.

Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.

Domenica scorsa ho citato l’intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l’occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.

La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall’estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall’esistenza d´una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall’appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell’assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l’arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.


* * *


Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L’ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s’incontra in tutti i paesi, dove c’è la democrazia e dove c’è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d’una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c’è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l’evanescenza dello stato di diritto.

Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C’è stato nell’ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.

Quest’azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell’ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i «non possumus» emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt’altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all’indietro) senza riscontro nelle democrazie d’Europa e d’America.


* * *


Se c’è stato - e c’è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.
Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall’avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.

Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.

Da questo punto di vista una riforma della giustizia s’impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.

2. Il conferimento dell’azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.

3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l’ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.

Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l’ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.

Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.

Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell’opposizione a minacce e lusinghe.


Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie Genossen , Graxie Vittorio.
Corruzione come Botzwana? Tonga? Gaza? Pakistan?
Sara' per via di chi :ha un etica non cristiana? Ebraica? Islamica?
Saranno le cattive persone ke rubano ai poveri x ottenere le pecunie x se' stessi e pochi?
"Justitia semel parva est o Justitia italica no habeas" corporation "? Brandom, Corte Suprema, 1932.
****
"Homo sine pecunia imago mortis est"
"Pecunia uguale ricchezza interiore....."
Calvino, Geneve CH.....
E Weber aveva ragione? Al contrario
***
Anna Kulischioff perche' non era come Rosa Luxenburg?
Perche' Turati amava leggere Kropotkine , Il mutuo appoggio?
Perche: OGGI la nostra Patria e' cosi' corrotta?
Dai Vittorio....e' la justitia ke funziona a rilento....con un nascente collettivismo burocratico,,,,,,,da soviet 1920......
Non c'e' certezza di pena....?
Ecce homo ? Dipende ci sono I giusti e gli onesti: per loro e' sicuro il
Paradiso , non fiscale....?
Amen?
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