A proposito di “socialismo” di “destra” e di “sinistra”, se non lo avete già fatto può essere un esercizio utile da farsi una comparazione fra il detto da Zagrebelsky e il “bestemmiato” da Romano. (Allego il tutto a seguire.)
Ovviamente ciascuno è libero di pensarla come vuole, e se non si fa sentire, e a patto che si sia dato almeno una martellata su un alluce, può anche farsi scappare una bestemmia, senza per questo essere accusato di volgarità.
In fondo nessuno grida alla blasfemia, ma è sicuramente volgare che un prete “venda” la conversione di Gramsci come fosse una messa o un calendario di san Padre Pio qualsiasi; che Battista difenda la memoria di Biagi sulla prima pagina del Corriere a partire dalla modesta ammissione che è “davvero inspiegabile l’accanimento con cui la maggioranza di centrodestra di Milano ha negato un’onorificenza a Enzo Biagi” (e si notino, le ho evidenziate, quelle paroline); e che il vicedirettore de la Repubblica Massimo Giannini, spieghi a Serena Dandini che il Cavaliere non vince grazie alle tv.
Forse fra gli aderenti al Circolo non sarà gradito il mio eccesso, ma penso ogni giorno di più che avesse ragione Mastroianni a concedersi più volte di rievocare il personaggio da lui interpretato nel film “I compagni”; qui lo ripropongo ricorrendo ad Osvaldo Soriano.
Osvaldo Soriano su il manifesto del 30-Gennaio-1997 scrisse il suo ultimo articolo (morì quella notte stessa) in ricordo di Mastroianni…
cominciava così:
«Mi dicono che Marcello Mastroianni è morto: Lo straniero, il gaudente di La dolce vita, il professore socialista de I compagni, il timido omosessuale di Una giornata particolare, l'uomo di cento e passa film, quasi tutti indimenticabili. Il gigante del cinema italiano ha fatto quel che più lo ripugnava: morire.»
nel mezzo si legge che Mastroianni….
«Detestava la fama e i suoi orpelli. Sapeva a memoria le parti dei suoi film migliori e ogni volta che glielo chiedevo si piantava in mezzo al marciapiedi e li ripeteva, soprattutto il professore de I compagni»
e si concludeva proprio rievocando un’ultima volta quella scena…..
«Venne a salutarmi al porto e questo ebbe per me il sapore di un film perduto. Al momento di attraversare il posto di polizia mi voltai a salutarlo con la mano e al di sopra del bisbiglio della gente che gli si stringeva intorno, mi gridò: "Senta, scusi, che paese è questo?". E per quanto io già lo perdessi di vista, riuscii a rispondergli: "Questo è un paese di m e r d a".»
Vittorio Melandri
Senza uguaglianza la democrazia è un regime
la Repubblica
mercoledì, 26 novembre 2008
Le idee
di GUSTAVO ZAGREBELSKY
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Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il “regime”, inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è “il” o “un” fascismo; oppure, più in generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all’analisi, della demonizzazione politica, funzionale all’isteria e allo scontro.
Ma “regime” è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di “Ancien Régime”, di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista. Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo.
Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da “esiste attualmente un regime” in “il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente”? Che l’Italia viva un’esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste. Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del ´48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito. Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico.
Che cosa significa “costituzione in bilico”? Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell’Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l’esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell’incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.
Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.
* * *
Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima (il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.
Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l’etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l’integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all’uguaglianza.
* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell’uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge “ferrea”. E´ la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell’azione politica. La costituzione ? questa costituzione che assume l’uguaglianza come suo principio essenziale ? è in bilico proprio su questo punto.
Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo “clandestini”, quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali, anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove chi più ha, più può. Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.
Analogamente, anche l’organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso.
È una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L’indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato.
La causa è sempre e solo una: l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del “regime”. Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.
Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i “dispotismi asiatici”, dove tutto sembrava dipendere dall’arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più “orientale” dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.
Martedi' 25 Novembre 2008
IL SOCIALISMO DI BRUNETTA E LA STORIA DI FORZA ITALIA
di Sergio Romano
Il ministro Brunetta ha affermato (fra il serio e il faceto?) di essere un socialista dentro Forza Italia. Dopo la prima sorpresa (che ci farà mai un socialista, che in quanto tale non può che essere di «sinistra» in un partito di centro-destra?) m'è venuto un dubbio, sul quale mi piacerebbe conoscere la sua opinione: ma Forza Italia da che parte dello schieramento politico si colloca? In effetti si definisce liberale, ma da liberale non si comporta (basti vedere il caso Alitalia), né viene considerata (a Strasburgo nel gruppo liberale siede una parte dell'opposizione, non della maggioranza di governo). E, per di più, come lo stesso Brunetta candidamente riconosce, ha al proprio interno una varietà di anime che rendono impossibile tentare di individuarne la collocazione: sbaglio o fra Martino e Brunetta, passando per Formigoni e Dell'Utri, ci sono più differenze di quante non ve ne siano fra Bertinotti e Rosy Bindi? Sarà per questo che, caso unico fra i Paesi occidentali, abbiamo un Primo ministro che è sì leader del partito di maggioranza relativa, ma che a questa «funzione» di leader non è mai stato eletto? Non è la mancata elezione che mi preoccupa (immagino che se ci fossero elezioni otterrebbe percentuali alla bulgara); ma il fatto è che l'elezione del leader di un partito è normalmente accompagnata da dibattiti che ne definiscono la linea politica, la collocazione di un partito. In un partito, quale è stato Forza Italia sino agli scorsi giorni, niente elezioni, niente dibattito, niente linea politica. Dunque, si potrebbe affermare che l'Italia è stata governata da un Partito «indefinibile». Che cosa ne pensa?
Marco Pisano, | marcolone2@hotmail.com
Caro Pisano,
prima di rispondere alla sua domanda sulla natura di Forza Italia osservo che Brunetta non è il solo socialista di Berlusconi. Nel suo governo vi sono almeno altri due ministri importanti (Sacconi e Tremonti) che hanno un passato formalmente o informalmente socialista. Non dovremmo chiederci, quindi, che cosa ci stiano a fare questi socialisti nel governo e nel partito di Berlusconi. Dovremmo chiederci piuttosto se fossero davvero socialisti negli anni in cui appartenevano, in modo più o meno esplicito, all'area del socialismo craxiano.
Se adottassi un criterio strettamente ideologico e misurassi il loro socialismo sulla base degli schemi e delle lealtà che prevalevano nel Psi sino alla prima metà degli anni Settanta, dovrei rispondere no. Ma commetterei un errore. I socialisti di cui stiamo parlando erano riformisti, anticomunisti, stanchi dell'egemonia democristiana e del dogmatismo massimalista di molto socialismo italiano, convinti che l'Italia avesse bisogno di una forte dose di modernizzazione e che il Psi, se profondamente rinnovato, potesse diventare il motore del rinnovamento nazionale. Si avvicinarono a Craxi perché credettero che il leader socialista avesse questi obiettivi e che l'Italia, con lui a Palazzo Chigi, avrebbe potuto fare ciò che altri Paesi europei stavano facendo in quegli anni. Quando le inchieste della procura di Milano cancellarono il Psi dalla carta politica italiana, qualcuno, mosso da una combinazione di ambizioni personali e convinzioni ideali, pensò che l'eredità anticomunista e riformista di Craxi potesse venire raccolta da Berlusconi e che la modernizzazione dell'Italia potesse avvenire grazie alla sua apparizione sulla scena politica italiana.
Vengo ora alla sua domanda. Dovrei chiederle, prima di rispondere, che cosa lei intenda con la parola «liberale », una etichetta che in questi ultimi anni, tanto per fare qualche esempio, è servita a coprire la xenofobia di Haider, i digiuni di Pannella, l'ostilità di Antonio Martino contro l'euro, la politica economica di Margaret Thatcher e persino la faticosa svolta riformista dei Democratici di sinistra negli anni Novanta. Tutti liberali? Preferisco osservare che per almeno un decennio, dopo la fine della guerra fredda, «liberale» fu la parola virtuosa di cui molti, a destra e a sinistra, si impadronirono per riciclarsi e presentarsi al Paese come nuovi. Forza Italia non è mai stato un partito liberale. Ma non sono liberali nemmeno altri partiti e leader che si sono serviti di questa etichetta negli ultimi anni.
A me sembra, del resto, che Forza Italia non sia stato un partito, ma un movimento post-ideologico, nato soprattutto per governare e fortemente identificato con la persona che l'ha creato. Aveva qualche idea guida - la modernizzazione del Paese, la costruzione di grandi opere, lo snellimento delle strutture statali, la diminuzione delle imposte - ma era privo di grandi principi e incline a compromessi che potevano intaccare la sua credibilità e la sua efficacia. La coerenza non è mai stata il suo punto forte. Ma lo stesso può dirsi dell'opposizione. Il vero problema, se mai, è l'utilità della distinzione tradizionale fra destra e sinistra. A me sembra che sia ormai una sorta di residuo fossile, utile tutt'al più per distinguere la maggioranza dall'opposizione.
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