lunedì 24 novembre 2008

scalfari: l'assalto al futuro

IL COMMENTO
L'assalto al futuro
della nuova generazione
di EUGENIO SCALFARI



EPIFANI ha deciso di isolarsi. E' un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un'economia globalizzata. Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E' uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest'ultimo giudizio è di Bonanni, l'uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...

Venerdì sera l'ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell'Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l'onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.

Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall'Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l'avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.

Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.

Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L'altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell'università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.

Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.

"Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell'abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l'unità ed è lui che si isola".
Quella cena a Palazzo Grazioli l'ha fatto molto arrabbiare. "Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l'abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?".

E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. "No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà".
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Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l'interesse generale del paese, naturalmente visto dall'angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d'uno sciopero politico per definizione.

Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent'anni.
Il diritto è quello che si legge nell'articolo uno della Costituzione: "La Repubblica italiana è fondata sul lavoro".

Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l'elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l'hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.

Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E' vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.

I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell'inflazione ufficiale e molto meno dell'inflazione reale. Ciò significa che il potere d'acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.

Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d'acquisto è ulteriormente diminuito.

Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell'economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d'ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.

L'intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.

Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.

La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell'idea di spostare l'asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l'aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.

Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l'aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un'icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.

Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l'espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.

Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all'evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.

Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c'è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.

I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell'Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.
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Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d'azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l'adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.

L'opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l'alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.
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Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l'interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C'è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l'economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.

Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un'anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l'establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.

In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.

Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell'altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l'assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.

(la repubblica, 16 novembre 2008)

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