martedì 25 novembre 2008

pierre carniti: politica di opposizione

LA POLITICA DI OPPOSIZIONE:
Dialogo sui “minimi” sistemi.



Due parole di spiegazione.

Fino a qualche decennio fa c’era un ordine politico più chiaro. Esso si basava sulla schematica contrapposizione comunismo-anticomunismo e fondamentalmente ruotava intorno al conflitto sociale ed in particolare al conflitto distributivo tra capitale e lavoro. Il conflitto sociale era così fisiologico che gli appelli alla “pace sociale” (intesa come superamento delle tensioni e del contrasto di classe) erano registrati con sospetto, come un tentativo inaccettabile di anestetizzare l’ordine democratico. In sostanza il conflitto sociale e politico, anche aspro ma non violento, era considerato parte costitutiva di una società libera desiderosa di modernizzarsi. Questa polarità capace di definire in modo tutto sommato solare destra e sinistra democratica ha conosciuto varie evoluzioni ma, per quasi tutta la seconda metà del secolo scorso, è rimasta al fondo un elemento ordinatore ed un criterio interpretativo guida.
Le ideologie costruite intorno a quel principio, comunista, socialdemocratica, cristiano democratica, liberale, avevano, a loro volta, rinforzato i criteri di riconoscimento e di identità, collocando ogni scelta politica concreta in una stabile geografia di appartenenze, di idee interpretative, di passioni politiche. Il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo, assieme ad una globalizzazione economica e finanziaria assolutamente sregolata, hanno provocato dei vuoti che hanno travolto la precedente geografia politica Come sempre quando il terreno comincia a franare, i vuoti si sono allargati fino a produrre il disordine attuale. I problemi della leadership del Partito Democratico e delle altre forze di centro-sinistra nascono da questo disordine. Il disordine culturale naturalmente coinvolge anche la destra, ma l’eclettismo sorretto dall’impero mediatico di Berlusconi, lo rende per ora meno evidente. Meno evidente anche perché l’elettore di centro destra è in generale più incline a delegare, mentre quello di centro-sinistra è più desideroso di partecipare e quindi anche di capire.
Allo stato, dunque, il problema è più acuto per il centro sinistra dove più sentita è la necessità di una fase di riflessione e di riordino delle idee. Per i democratici prima c’erano riforme sociali, diritti del lavoro ed altri obiettivi immediatamente percepibili ed anche di automatica presa.
Ora le cose sono più complicate. Ovviamente la questione del lavoro salariato c’è ancora e per molti è drammaticamente irrisolta. Anzi, con l’aumento del precariato ed il peggioramento della politica redistributiva, si è persino aggravata. Ma dall’opinione pubblica non sembra più essere considerata la “questione sociale decisiva”. Il fatto è che “il sociale”, come è stato inteso nel secolo scorso, non esiste più. Oggi infatti non è più in discussione una “questione sociale” generale. Si discute, a seconda delle circostanze, di diversi “problemi sociali”: i giovani, gli immigrati, la precarietà, il salario, la pensione, il costo della vita, la sanità, la scuola, ecc. In effetti la vita sociale contemporanea è presa d’assalto da un lato da sentimenti non sociali come: l’interesse individuale, la violenza, la paura, ecc.; e dall’altro da aspetti ed obiettivi anch’essi tutt’altro che “sociali” come: i consumi, la libertà personale, oppure l’appartenenza ad una comunità particolare (etnica, religiosa, sportiva, ecc). Quindi l’appartenenza ad una “classe”, che in passato costituiva un elemento forte di identità, di destino comune, oggi rappresenta un legame piuttosto labile. Per molti, quasi del tutto inconsistente. Insomma, una volta c’era una identità sociale forte che oggi, anche a causa della progressiva frammentazione sociale, è sostituita da una pluralità di identità deboli.
In questa situazione se non si ridefiniscono solidi principi di riferimento, se non si ridefiniscono alcune linee guida, alcuni obiettivi forti che riguardano le persone e le loro condizioni di vita, qualunque proposta finisce per risultare posticcia. Tanto più quando enunciata inopinatamente in qualche discorso di occasione, oppure buttata là durante la partecipazione a questo o quel “salotto” televisivo. Non sorprende quindi che si dissolva alla prima brezza.
L’opera di riordino non si presenta facile e probabilmente non sarà nemmeno tanto breve. Le categorie che sono state utilizzate in passato per interpretare i problemi e ricercare le soluzioni appaiono largamente obsolete. Per prendere le misure dei tempi nuovi, il disegno generale va perciò ridefinito. L’impresa richiederà quindi sicuramente del tempo. Ma per avere qualche speranza di successo occorre che la discussione inizi subito e che si svolga liberamente. Quindi anche al di fuori del circuito dei politici di professione. o degli aspiranti tali. Nemmeno le priorità sono scontate. Qui si prova perciò a suggerire solo qualche tema. Se emergeranno interlocutori interessati potranno decidere assieme se e come eventualmente andare oltre.
















1 fede e politica

Quello che molti non consideravano possibile è invece successo. Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Nemmeno il pregiudizio razziale, tuttora piuttosto forte in America, è riuscito a bloccare la sua corsa. All’ esito elettorale hanno ovviamente concorso molteplici fattori. L’età di Obama, il suo carisma, la sua capacità di comunicazione, la straordinaria mobilitazione popolare animata da una forte la tensione ideale, tale da consentire la raccolta delle risorse economiche necessarie a finanziare la sua campagna. Anche il disastro provocato dalla crisi finanziaria ed economica ha avuto il suo peso. Una buona parte di elettori ha infatti ritenuto, non senza ragione, che l’amministrazione Bush avesse precise responsabilità nella deflagrazione di una crisi che ha impoverito e travolto milioni di famiglie e prodotto la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Sono tutti elementi che hanno sicuramente avuto un rilievo importante ed hanno perciò pesato sull’esito della campagna elettorale.
Tuttavia, c’è anche un altro fattore, tendenzialmente trascurato nei commenti dei media italiani, che ha avuto una importanza non trascurabile sull’esito della competizione elettorale. Con Barack Obama è infatti entrata in scena in America una sinistra democratica più attenta al rapporto con la religione e che è riuscita perciò a contendere alla destra repubblicana la rappresentanza dei cittadini credenti e praticanti. Senza questa novità il confronto con John McCain sarebbe stato più difficile e l’esito probabilmente più incerto. Tanto più dopo la designazione alla vice presidenza di Sarah Palin. Scelta scopertamente orientata a catturare il consenso dei settori di credenti più integralisti.
Già prima di diventare ufficialmente il candidato dei democratici Obama aveva enunciato le basi di questo suo esplicito orientamento politico. In sostanza, egli aveva detto che non era assolutamente accettabile una identificazione tra progressismo sociale e politico e secolarismo. Tra liberalismo (nel senso americano del termine) ed indifferentismo religioso. Naturalmente la laicità rimane un riferimento irrinunciabile per tutte le costituzioni democratiche, proprio per distinguere gli ambiti tra sfera delle chiese e sfera dello stato. Distinzione che per altro i cristiani non dovrebbero avere alcuna difficoltà ad accettare ricordando le parole di Gesù ai farisei: bisogna “dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”. La laicità è dunque un principio democratico che non può che valere per tutti. Ed Obama lo ha ricordato ai conservatori ed agli integralisti bigotti delle diverse chiese. Ai progressisti ai democratici egli ha però rivolto un ammonimento altrettanto chiaro: basta con l’idea che la religione sia qualcosa di negativo, che deve perciò essere allontanata dalla vita pubblica. Idea non vera in generale, perché contrasta con l’intera storia dell’umanità. Ma alla quale molti progressisti hanno, in passato, ingiustificatamente concesso terreno.
Dunque, con Obama i democratici hanno ridefinito l’asse del confronto politico: non più una destra religiosa contro una sinistra secolare. Ora infatti c’è in campo anche una “sinistra religiosa” che aspira a guadagnare il voto dei credenti. Non solo per un calcolo strumentale (perché è essenziale per vincere) ma perché essa stessa (come è appunto il caso di Obama) si alimenta di una dimensione di fede che decide di non nascondere più sulla scena pubblica.
Sappiamo che tra i molti fattori di divisione che attraversano la società americana per un lungo periodo c’è stato anche quello relativo al rapporto con la religione. Esso coinvolge tanto chi va regolarmente in chiesa quanto coloro che invece non ci vanno. I repubblicani si sono sempre dimostrati abili nello sfruttare questo fattore di divisione, avallando l’idea che tutti gli americani credenti fossero ossessionati esclusivamente dall’aborto, dai matrimoni gay, dalle preghiere a scuola, dall’insegnamento antidarwiniano del “disegno intelligente”. Cosa che ovviamente non è . Perché la tensione religiosa che attraversa la società americana, come del resto la nostra, è motivata anche da altri bisogni, da altre esigenze. Bisogni che esprimono l’esigenza del sostegno alla famiglia, della coesione sociale, dell’appoggio morale, della protezione da parte della comunità. Ma che assumono anche i caratteri di una dimensione più specificatamente religiosa: di senso, di speranze che diano significato all’arco di ogni singola esistenza. Aspetti assolutamente importanti perchè oggi ognuno si sente più solo. In effetti, con il dilagare dell’individualismo, in America come nella maggior parte dei paesi occidentali, ciascuno ha meno amici stretti e persone con cui confidarsi rispetto a quanto succedeva anche solo trenta o quaranta anni fa. Viviamo soli in mezzo alla folla. Ed il male della solitudine può essere tanto grave per la vita della gente quanto la diminuzione del potere d’acquisto dei salari, l’aumento delle tariffe, il peggioramento della sanità. E’ evidente che per combattere la povertà, l’indifferenza sociale, l’ottusità che impedisce di alzare lo sguardo sui problemi del mondo, sono necessarie appropriate “politiche”. Da sole però non bastano. Ci vuole anche (come dice Obama) rispetto ed attenzione al fatto religioso. Ci vuole quindi un cambio di mentalità, un “cambio nei cuori e nelle menti”. Ovviamente non si può decretarlo. Neppure servono atteggiamenti ipocritamente predicatori. Perché “niente è meno vero di inautentiche espressioni di fede”. E se non può essere accolta l’idea che la moralità pubblica e privata sia monopolio dei credenti, non può nemmeno essere avallato l’atteggiamento secolarista che giudica una ingerenza indebita le posizioni che il credente esprime sulle questioni pubbliche. Sul terreno del rapporto con la religione il cambiamento introdotto da Obama, rispetto all’atteggiamento di indifferentismo religioso ed in alcuni casi programmaticamente ateo di buona parte della sinistra americana è stato quindi un fatto di rilievo. Ed è realistico pensare che questo cambiamento, giusto in sé, abbia prodotto anche significative ricadute sul risultato elettorale dei democratici.
La situazione in Europa ed i particolare in Italia è sensibilmente diversa. Ma la lezione che arriva dai democratici americani merita di essere riflettuta, perché appare utile anche qui. Nel caso italiano, anche al di là di limiti politici e di leadership che in non pochi casi si sono fatti pesantemente sentire, intorno al conflitto tra sensibilità religiosa e non sono state consumate diverse sconfitte dei democratici e progressisti. La presenza di atteggiamenti integralisti tra un certo numero di credenti, a volte aggressivi, e di un laicismo altrettanto aggressivo, dovrebbe indurre ad un indispensabile chiarimento sul tema della laicità.
Che cosa significa oggi laicità? La laicità deve implicare anche il contributo della gente di fede? Oppure la laicità deve essere intesa come “indifferenza” alla religione? In sostanza, è possibile immaginare e lavorare ad una collaborazione più intensa e vera tra credenti e non credenti? La correzione operata da Obama sui democratici, invitati a non identificarsi con il secolarismo ed a non abbandonare il dato religioso alla destra, è un fatto puramente americano, o ha qualcosa da suggerire anche a noi? Sono tutte domande alle quali non è semplice rispondere. Tuttavia un tentativo merita di essere fatto.
A questo scopo è opportuno cominciare dall’aspetto più semplice: quello lessicale, semantico. Laico significa “chi non fa parte del clero”, chi “non ha ricevuto gli ordini sacerdotali”. Quindi i laici non si distinguono in credenti e non credenti, perché sono tutti coloro che semplicemente non fanno parte di un ordine sacerdotale. Scrive giustamente Claudio Magris (Chi è laico e chi è clericale, “Corriere della Sera” 20 gennaio 2008) “Laico non significa affatto, come spesso ignorantemente si presuppone, l’opposto di “cattolico” e non indica, di per sé, né un credente, né un agnostico, o un ateo. La laicità non è un contenuto filosofico, bensì un abito mentale” Infatti “La laicità non si identifica a priori con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine critica ad articolare il proprio credo filosofico o religioso secondo regole e principi logici che non possono essere condizionati, nella loro coerenza, da nessuna fede (….). In tal senso la cultura – anche una cultura cattolica – se è tale è sempre laica, così come la logica – quella di San Tommaso d’Aquino o di un pensatore ateo – non può non affidarsi a criteri di razionalità e così come la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un santo della Chiesa, non può non obbedire alle leggi della matematica”. Anche se Magris ha ragione quando sostiene che la laicità “non si identifica a priori con alcuna filosofia o ideologia”, questo non vuol dire che non ci possa essere pure una definizione “filosofica” della laicità. Nel Dizionario di Filosofia Nicola Abbagnano definisce infatti la laicità come criterio valoriale e procedurale. Cioè come “principio dell’autonomia delle varie attività umane”, a condizione quindi che “si svolgano secondo regole proprie, che non siano [perciò] ad esse imposte dall’esterno per fini o interessi diversi da quelle a cui esse si ispirano” .
Se dunque stiamo al significato letterale, culturale, o della definizione filosofica del termine “laicità” non si riesce francamente a vedere dove si possa nascondere il problema. Sappiamo però che il problema c’è. Esso nasce dal fatto che (a partire dall’illuminismo) nel linguaggio politico corrente il termine laico viene usato come sinonimo di non credente. Il che implica una distinzione, se non addirittura una contrapposizione, tra credenti e non credenti. Cosa che si verifica normalmente nel linguaggio politico e dei media, con non piccoli danni collaterali. Soprattutto nel campo del centrosinistra. Per cercare di correggere questa situazione occorre incominciare a riflettere intorno al fatto che ai fini della costruzione di uno “Stato laico” (come deve essere ogni Stato moderno) bisogna fare i conti, non con l’esistenza di credenti e non credenti (tra i quali una sintesi per quanto difficile, specie su alcuni temi, è sempre possibile) ma con due opposte concezioni di laicità. Che sono perciò tra di loro incompatibili.
La prima può essere definita “laicità mite” (o moderata). La seconda invece “laicità aggressiva” (o radicale), che praticamente coincide con il “laicismo”. La prima è la forma ecumenica della laicità e può comprendere credenti, non credenti, diversamente credenti. Può comprende quindi al suo interno atteggiamenti religiosamente ispirati ed “a-religiosi”. Cioè senza religione, senza Dio. La seconda esprime invece una concezione esplicitamente “antireligiosa”, che rimanda quindi ad un modo di vivere e di pensare “ostile a Dio” ed alla religione. In sostanza: contro Dio e la religione. La prima concezione perciò è essenzialmente di tipo metodologico, procedurale. E’ di fatto un modo per poter decidere assieme. La seconda è invece di tipo contenutistico. Esprime infatti una ideologia, una filosofia antireligiosa. E’ perciò escludente. Nel senso che è una idea di laicità che non può essere condivisa dai credenti o dai diversamente credenti, e persino dagli agnostici. Cioè da chi si ritiene a-religioso, ma essendo tollerante rifiuta posizioni aggressive antireligiose. E’ il caso di Bobbio, di Habermas, di Rawls, per fare solo qualche esempio. In sostanza, mentre l’atteggiamento a-religioso (fa parte della laicità mite, o moderata), perché pur comportando il fatto di non credere non implica necessariamente, in linea di principio, una contrarietà nei confronti dell’idea di Dio e del fatto religioso, l’atteggiamento antireligioso (proprio della laicità aggressiva) consiste non solo nel rapportarsi alla realtà etsi Deus non darentur, ma nell’assumere nei confronti dell’opzione religiosa un comportamento esplicitamente avverso. Che può andare dalla critica verbale pacifica, all’invettiva, alla blasfemia. Insomma, una cosa è vivere senza Dio e la religione. Altra invece è vivere contro Dio e la religione. Rapportandosi quindi alla religione come un insieme di false credenze da combattere.
La distinzione tra “laicità mite” e “laicità aggressiva” è necessaria anche per definire le caratteristiche dello Stato laico. Dovendo garantire la convivenza di tutte le religioni (esigenza che negli anni a venire risulterà sempre più pressante) lo Stato laico non può che essere aconfessionale. Nello stesso tempo però uno Stato nel quale sono destinate a convivere una pluralità di provenienze, di culture, di religioni, non può che fondarsi su una “laicità mite”. Perché solo una laicità procedurale e non di tipo ideologico, che non esprima cioè una visione ed una concezione antireligiosa del mondo, è effettivamente in grado di garantire il principio della “laicità dello Stato”. Vale a dire l’esistenza di un’area pubblica “comune” capace di accogliere al suo interno su un piano di parità democratica le diverse concezioni del mondo. In sostanza lo Stato se vuole essere coerentemente laico (e quindi imparziale) non può mai essere “laicista”. Vale a dire ispirato ad una “laicità aggressiva”.
Naturalmente ciò che vale per lo Stato non può non valere allo stesso modo per una forza politica che abbia l’obiettivo e l’aspirazione ad essere “forza di governo” dello Stato. Questo significa che per essere davvero credibile come forza di governo un partito, una formazione politica, non può che mettere a proprio fondamento una dichiarata concezione di “laicità mite”. Traendone anche le necessarie conclusioni politiche. La prima delle quali è che non ci può essere alleanza politica con le forze espressione di una concezione di “laicità aggressiva”. Non solo perché le due idee di laicità sono tra di loro incompatibili. Ma fondamentalmente perché solo la “laicità mite” è conciliabile con lo Stato laico e democratico.
Perciò il partito Democratico non dovrebbe ulteriormente eludere una scelta inequivoca sul punto. Intanto perché si tratta di una scelta necessaria a definire più chiaramente la sua identità. Ma anche necessaria (che non significa sufficiente) per cercare di vincere il confronto politico elettorale con la destra. Ben sapendo, al contrario, che una perdurante ambiguità sul punto potrebbe invece essere sufficiente per perderlo.













2 – Cultura di massa e rappresentanza politica.

Da almeno un quarto di secolo molti degli ideali della sinistra e dei principi che li sorreggevano sono sembrati come sbattuti dal vento della modernizzazione. Con tutte le contraddittorie, enigmatiche innovazioni che questa ha prodotto: “nuova economia”, nuove forme istituzionali, nuovo diritto, nuova politica, nuovi desideri, nuove espressioni delle arti, nuovi tipi di spettacolo e di divertimento, nuovi comportamenti privati e pubblici, nuove passioni, nuovi consumi, nuove rappresentazioni di sé e degli altri, nuova relazione con la natura, il corpo, il tempo. E si potrebbe continuare.
Dall’urto con questa bufera la sinistra (quasi ovunque in occidente) è uscita alquanto ammaccata. Pressoché in nessun paese occidentale si è infatti dimostrata in grado di prevedere e tanto meno governare la nascita e la propagazione di quella sorta di “dispotismo culturale” che per oltre due decenni è riuscito ad avviluppare tutto e tutti nella sua rete. Si è trattato di un sistema gestito da conglomerati multinazionali, da centri di potere finanziario estranei ad ogni controllo (e non di rado manovrati da autentici lestofanti, come molti hanno scoperto solo dopo l’esplosione della crisi finanziaria ed economica). Un sistema fondamentalmente incentrato sui media televisivi, sui consumi, sulla pubblicità, su ipocriti inchini alla presunta volontà del popolo.
L’inadeguatezza della sinistra e dei suoi intellettuali di fronte a questo tsunami deriva dalla sufficienza con cui si è guardato alla cultura delle masse. Cultura che è sempre stata considerata marginale rispetto a ciò che era invece considerato il centro del potere vero. Vale a dire la dimensione politica ed economica. I fatti si sono incaricati di presentare un conto salato. Con un rovesciamento dei vecchi schemi interpretativi che hanno messo in evidenza, non solo che la “cultura delle masse” non è affatto irrilevante e marginale, ma che la politica, l’economia e persino la guerra oggi vengono fatte orientando e mobilitando i comportamenti delle masse. Cioè governandone i gusti, i consumi, i desideri, gli svaghi, le concezioni, le passioni, l’immaginazione, ancora prima delle sue idee politiche. Nella convinzione che il voto, come l’intendance, seguirà. E raramente l’esito è risultato diverso da quello che i manipolatori dell’opinione pubblica si attendevano.
Oltre 170 anni fa, con impressionante capacità di previsione, che appare quasi profetica, Alexis de Tocqueville nella sua Democratie en Amerique descrive questa evoluzione con i tratti di un possibile “dispotismo del futuro”. Secondo la sua visione il regime prevedibile avrebbe potuto prodursi come conseguenza dell’avvento, che considerava più che probabile, di un sovrano assoluto. Cioè una figura dotata di un potere quale “non si era mai visto nei secoli passati”, capace di “scendere a fianco di ogni singolo per dirigerlo e guidarlo” in ogni cosa. Anche nei più minuti aspetti della vita privata dei cittadini. Aggiungendo nella sua previsione che “se il dispotismo venisse a stabilirsi presso le nazioni democratiche dei nostri giorni […] sarebbe più esteso e più mite, e degraderebbe gli uomini senza tormentarli”. E prosegue. “la specie di oppressione da cui i popoli democratici sono minacciati non somiglierà a nulla di quel che l’ha preceduta al mondo; i nostri contemporanei non riuscirebbero a trovarne l’immagine nei loro ricordi. Cerco invano in me stesso un’espressione che riproduca esattamente l’idea che io me ne formo e che la racchiuda. Gli antichi nomi di assolutismo e tirannia non sono appropriati. La cosa è nuova bisogna quindi sforzarsi di definirla”.
A prescindere dalle difficoltà di individuare una terminologia appropriata, il tratto principale del “dispotismo” al quale Tocqueville fa riferimento sta nel fatto che esso degrada gli uomini “senza tormentarli”. Quindi essi non avranno la sensazione di patire. Anzi, ciascuno avrà persino l’impressione di stare meglio. Gli effetti però saranno disastrosi e Tocqueville li descrive così: “Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza tregua su sé stessi per procurarsi piccoli piaceri volgari, con cui si appagano l’anima. Ciascuno di loro, preso da canto, è come straneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli ed i suoi amici formano per lui l’intera specie umana; quanto al resto dei suoi concittadini, li ha accanto ma non li vede, li tocca ma non li sente, non esiste che in sé stesso e per sé stesso e se una famiglia gli resta pur sempre si può almeno dire che non ha più patria.”.
Difficile non riconoscere che il regime disegnato con allarme da Tocqueville più di 170 anni fa, si è oggi pienamente realizzato. In Italia la cosa appare più evidente che altrove. Il macroscopico conflitto di interresse (dalle televisioni, ai giornali, alle banche) che coinvolge il Premier, secondo Berlusconi e la sua maggioranza, è stato risolto dal voto degli elettori. L’elezione si è così trasformata in “unzione” e l’unto del Signore si sente perciò sciolto dalla soggezione alle regole. Inevitabile che la dimensione della legalità tenda ad affievolirsi fino scomparire. Siamo quindi in presenza di una situazione altrettanto arbitraria di quella che nel medio evo veniva espressa con la formula “princeps legibus solutus”. Non a caso è in corso un conflitto istituzionale che ha pochi precedenti nella storia dell’Italia. Alle ripetute ferme prese di posizione del Capo dello Stato (ad esempio sull’uso della decretazione d’urgenza) governo e maggioranza rispondono con comportamenti che finiscono per assecondare una deriva verso l’assolutismo. Deriva che comporta una progressiva riduzione della democrazia rappresentativa e quindi della legalità costituzionale. Senza perdere tempo in una inutile controversia sulle parole (fascismo, regime..), il meno che si può dire è che una tendenza del genere coincide con la descrizione del “dispotismo mite che degrada i cittadini” così bene prefigurata da Tocqueville. E proprio perchè il dispotismo è ormai spavaldamente incarnato dal premier occorre fare particolare attenzione che, nel deperimento dello spirito democratico, non si determini una accelerazione dei processi degenerativi. Ma se il dispotismo riflette, in una qualche misura, anche lo spirito dei tempi, diventa decisivo capire come l’opposizione ed in particolare il Partito Democratico intendono affrontare il problema.
Intanto c’è da dire che solo nella “democrazia della sottomissione plebiscitaria”, a cui Berlusconi aspira, può succedere che una manifestazione di protesta dell’opposizione venga liquidata con il giudizio spregevole: “frottole ed insulsaggini”. Ci vuole poco a capire che la reazione sprezzante del presidente del Consiglio verso la manifestazione del Pd al Circo Massimo è un ulteriore indizio di quale deriva inquietante ha imboccato il “premierato di comando” che è nei suoi propositi. Nelle sue parole infastidite verso ogni manifestazione di protesta, a cominciare da quella della scuola, c’è una concezione fondamentalmente “totalitaria” della dialettica politica. C’è non solo l’insofferenza verso ogni forma di dissenso. C’è anche il sostanziale rifiuto della contestazione politico democratica che l’opposizione deve muovere a chi governa, sia con una critica puntuale ed incisiva, che con proposte alternative. Che è, né più né meno, ciò che avviene in tutti i paesi democratici.
Anche per questo la manifestazione promossa dal Pd è stata importante. Importante perché, attraverso una iniziativa collettiva capace di rompere il velo di conformismo imperante, ha dato un segnale al paese che è possibile aprire uno spiraglio alla speranza di una fase nuova e di una politica diversa. Tuttavia per non archiviarla come una prova di forza, certamente significativa, ma di fatto sostanzialmente autoreferenziale sarà necessario affrontare alcune questioni finora rimaste in sospeso.
La prima riguarda il rapporto con la società. Come e con quali proposte si può tornare a parlare a quella vasta area del Paese che ha voltato le spalle al centrosinistra? Al Circo Massimo il leader del Pd ha detto tra l’alto che “l’Italia è migliore della destra che la vuole rappresentare”. Si e no. Perché se così fosse bisognerebbe pur spiegare come mai molti italiani hanno scelto di farsi governare proprio da questa destra “peggiore”. Alla comprensione del fatto non aiuta certo l’interpretazione ingannevole (è, ad esempio, il caso di Micro Mega) che la manifestazione ha rappresentato la mobilitazione delle “forze antiberlusconiane della società civile”. Interpretazione ingannevole perchè oscura il dato che il berlusconismo è anche espressione della società civile italiana. Sarebbe quindi utile smetterla di usare il concetto di “società civile” per indicare tutto il positivo della società italiana che sarebbe invece stato rimosso o conculcato, appunto, dal berlusconismo. Del resto basterebbe avere presente le riunioni di condominio, o quanto succede la domenica negli stadi. Anche quelle sono “società civile”.
Intendiamoci bene, non è in discussione chi ritiene che occorra combattere energicamente il berlusconismo. Si tratta semplicemente di prendere atto che il male è anche dentro la società civile. Non solo fuori di essa. Quindi ha poco senso invocarla come soluzione. Perché la società civile, come altre espressioni passe-par- tout (si pensi alla contrapposizione tra Paese reale e Paese legale, o al Palazzo in contrapposizione alla società) sono solo formule facili ed a portata di mano, ma sostanzialmente elusive. Certo, si può legittimante pensare che il berlusconismo rappresenti una patologia della società civile. Ma questo implica il riconoscimento che la voglia di autoritarismo e di decisionismo comunque declinato, le ventate antisolidali e gli episodi di razzismo che percorrono il Paese, la strafottenza verso i deboli ed i marginali, l’ipocrita ed opportunistica deferenza clericale, non vengono dal di fuori per colpa di pochi malintenzionati, ma dalla pancia della società civile. Il berlusconismo semmai, lungi dal correggere questi fenomeni, li interpreta, li legittima, li usa. Il populismo berlusconiano è, a modo suo, la risposta alla voglia del popolo elettore maggioritario di decisioni rapide, drastiche e visibili. E viene accontentato: con l’eliminazione della spazzatura dal centro di Napoli, lasciando che si accumuli in periferia e nei comuni limitrofi; con una soluzione del caso Alitalia che scarica sugli incolpevoli contribuenti i debiti che Air France era invece pronta ad accollarsi; con l’interventismo pronta cassa a sostegno delle banche, dell’industria, ecc. Berlusconi interpreta il suo ruolo portando di fatto il sistema politico verso un presidenzialismo informale, strisciante. Non ha nemmeno bisogno di mettere in campo difficili, impegnative riforme istituzionali. Gli basta andare in televisione ad annunciare provvedimenti che la sua maggioranza, senza preoccuparsi molto delle conseguenze, sosterrà zelantemente in Parlamento.
Ma del resto l’idea del leader vicino alla “gente”, non prigioniero dei giochi di Palazzo, non era una richiesta anche di gran parte del ceto politico di destra e di sinistra? La domanda di una semplificazione del sistema politico, per mettere un freno alla risse interpartitiche non era forse stata condivisa anche dalla società civile? Con un po’ di cinismo si potrebbe oggi dire: eccola servita. In effetti è la politica (opposizione compresa), non la società civile, che deve trovare in sé stessa la capacità e la determinazione per rispondere in modo comprensibile e condivisibile ai problemi aperti. Inclusi quelli relativi al proprio funzionamento.
La seconda questione riguarda il rapporto dell’opposizione con la attuale maggioranza. Se la natura di questa destra al governo è così rozza e faziosa, secondo la descrizione ripetutamente proposta dal leader del Pd, e sicuramente arrogante e dispotica a giudicare dalle sortite del premier, come si fa a continuare a parlare di dialogo? Ma che dialogo ci può essere con un Presidente del Consiglio che bolla come “facinorosa” una composta manifestazione dell’opposizione? Ma che dialogo ci può essere con un premier che risponde con un “me ne frego” a qualunque profferta di collaborazione sulle misure anti-crisi? Che dialogo ci può essere con una ministra dell’istruzione che rifiuta ogni discussione di merito sul suo decreto e definisce “campagna terroristica” la protesta di studenti ed insegnati?
La terza questione riguarda i mezzi con cui l’opposizione intende alimentare la propria azione politica. Naturalmente il primo requisito investe la sua capacità di analisi e di proposta. Ma ammesso che questa esista in misura adeguata, la discussione riguarda gli strumenti. In sostanza, su quali gambe si riescono a fare camminare le idee. Sul punto, in concomitanza con la manifestazione del Circo Massimo, si è sviluppato un singolare dibattito. Singolare perché ha ruotato intorno all’interrogativo: è opportuno che i riformisti scendano in piazza? E’ concepibile che i riformisti organizzino cortei e manifestazioni? A simili quesiti si potrebbe rispondere sbrigativamente con un'altra domanda: perché no? In realtà il tema merita qualche approfondimento.
Nell’occasione infatti persino qualche intellettuale di “area” ha espresso l’opinione che un po’ di “populismo di sinistra” non potrebbe che fare bene. E’ possibile che nel contesto la parola “populismo” sia stata utilizzata impropriamente solo per lasciare intendere che, in fondo, anche il riformismo non può esimersi da necessari momenti di conflitto. Con quel che ne consegue nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, una opposizione ferma e determinata. Compreso il recupero di una contrapposizione netta rispetto al governo.
Tuttavia, vale la pena di segnalare che ad un certo numero di “riformisti” anche la sola formulazione di un simile convincimento ha creato imbarazzo. Considerato che l’accusa di populismo essi l’hanno sempre brandita, non senza qualche motivo, contro la destra. Per la buona ragione che l’istinto demagogico appartiene soprattutto all’indole della destra e del suo capo. Basti pensare al marcato atteggiamento antistituzionale che costituisce la cifra riconoscibile dei suoi slogan, delle sue proteste, delle sue prese di posizione: contro le tasse, contro l’Euro, contro la politica ambientale europea, contro le regole, contro i “partiti” contro i “comunisti”, contro i giudici, contro i fannulloni, contro il disturbo e la perdita di tempo dei dibattiti parlamentari.
Per altro vale la pena di ricordare che a sostegno di queste posizioni demagogiche e populiste non sono mancate manifestazioni di piazza della destra. Questo però non significa niente. Non sono infatti le manifestazioni di massa a connotare il populismo. In effetti, di per sé le manifestazioni di piazza non sono un indicatore sufficiente di una possibile deriva populista. Al contrario, possono essere semmai un aspetto della vitalità dell’opposizione. Tanto più che il linguaggio dell’opposizione comporta anche l’utilizzo di uno stile e di ingredienti compositi. Come giustamente osserva Nadia Urbinati “Di volta in volta essa deve infatti adottare. quello della caparbia attività parlamentare, quello della denuncia sui mezzi di informazione (cosa per altro non facile, visto che in Italia la maggioranza ha, di fatto, il monopolio dei mezzi privati e pubblici), quello delle petizioni e della raccolta di firme per proposte referendarie, quello delle manifestazioni. La piazza è parte di questo linguaggio politico legittimo. Non è quindi simbolo di populismo, ma esercizio di libertà politica”.
Il vero problema per il centrosinistra non è quindi se fare o non fare iniziative di mobilitazione popolare ma, semmai, quello di riuscire a spiegare (prima a sé stesso e poi all’opinione pubblica) che se il riformismo è una politica che non prescinde dalle compatibilità, la sua scala di priorità è del tutto diversa ed alternativa a quella della destra. In questa prospettiva l’aspetto che andrebbe reso più nettamente ed in maniera comprensibile è che, malgrado l’incertezza generale prodotta dalla crisi economico e finanziaria, il problema numero uno resta quello di una più equa politica redistributiva.
Poiché il problema è questo non si dovrebbe fare fatica a capire che il centrosinistra deve sapere mettere in campo quel tanto di capacità di mobilitazione ed anche di realistica asprezza che gli consentano di parlare all’intero Paese delle cose elementari che riguardano la vita dei cittadini. Cosa che diventa possibile solo mettendo al centro della iniziativa politica i milioni di italiani che sono caduti sotto la soglia di povertà; solo affrontando il tema della crescente precarietà ed insicurezza del lavoro; solo mettendo in primo piano i salari insufficienti ad arrivare alla fine del mese; solo riproponendo la questione del lavoro dipendente, sacrificato come un agnello alla concorrenza globale. Insomma, per essere credibile il partito riformista deve riuscire a parlare, non solo in Parlamento, nei seminari e nei convegni, ma anche nelle piazze, delle cose che riguardano le condizioni di vita di milioni di persone.
Per conseguire questo scopo ci vuole naturalmente la semplicità ma anche la schietta radicalità di chi sa discutere di cose concrete. Di chi sa parlare: di soldi, di salari, di pensioni, di bilanci familiari che non sono in grado di reggere il passo dell’aumento dei prezzi, di posti di lavoro che si perdono e di quelli che non si trovano. Dando voce, ogni volta che appare necessario, anche ad un’Italia che diversamente rischia di restare muta. Avendo per altro bene presente che, nonostante il rilievo che il “virtuale” ha assunto nella vita quotidiana di molti, la politica rimane in definitiva ancora scontro collettivo di posizioni; delimitazione di scelte diverse; contrapposizione tra soluzioni alternative.
Per dare voce a chi diversamente non l’avrebbe ed attuarne il consapevole coinvolgimento il riformismo ha bisogno di una visione politica chiara, condivisa, sorretta da coerenti forme di organizzazione. Così come ha bisogno di soluzioni appropriate e coerenti per quanto riguarda la formazione della rappresentanza politica. La quarta ed ultima questione ha perciò a che fare con la costruzione del partito riformista, che dovrebbe costituire il tramite per la partecipazione ed il coinvolgimento popolare alle battaglie politiche. Ha a che fare inoltre con i criteri per la formazione della rappresentanza amministrativa e parlamentare.
La prima cosa da dire a questo riguardo è che il tormentato cammino che dovrebbe portare alla costruzione di un forte e stabile Partito Democratico appare, almeno per ora, non molto convincente. Intanto non sono di aiuto le stucchevoli continue polemiche tra capicorrente (o presunti tali) e nemmeno l’inverosimile cupio dissolvi che sembra portare periodicamente il Partito Democratico ad individuare soprattutto in sé stesso il nemico principale. Ma non aiuta nemmeno la continua irrisolta oscillazione tra due modelli organizzativi. Il primo che presuppone una grande forza politica fondata sul radicamento e la partecipazione ed il secondo che tende invece ad assecondare schemi e modelli di tipo presidenziale e lideristico. La stessa ipotesi statutaria, elaborata in vista del (per ora continuamente rinviato) primo congresso, conferma che, dovendo scegliere tra l’uno e l’altro modello, ci si orienterebbe…. a non sceglierne nessuno, o a sceglierli entrambi. Il fatto non può non può non suscitare qualche sconcerto perché è su questo terreno, più che sulla casistica delle forme di mobilitazione, che si può creare confusione tra “riformismo” e “populismo”.
Si tenga presente che l’idealità riformista si incardina: sulla difesa di uguali libertà ed uguali diritti; sul perseguimento della giustizia sociale; sulla tolleranza per i diversi nel rispetto di regole condivise; sulle conquiste e comportamenti che possono rendere la vita sociale più sicura per tutti. Si capisce bene perciò che dare a questi principi irrinunciabili un linguaggio e forme convincenti, incalzanti ed autorevoli, attraverso cui essi possano esprimersi e farsi valere è esattamente ciò di cui il riformismo ha bisogno per essere davvero considerato tale. Il populismo rappresenta invece soprattutto una anomalia della democrazia rappresentativa. Anomalia che costituisce una costante nella struttura di tutti i partiti e di tutti i movimenti populisti. In effetti il loro dato comune è di essere poco o per nulla strutturati e di avere una accentuata informalità nelle decisioni con cui vengono definite politiche ed obiettivi. Di norma quindi, i movimenti (ed i partiti) populisti non danno un particolare peso né alla democrazia interna, né all’esercizio della rappresentanza, ed adottano come criterio organizzativo preferenziale il “verticalismo”. Vale a dire la gerarchia, in funzione ed a sostegno del leader carismatico.
Stando così le cose, ciò che in una certa misura appare sorprendente è che anche alcuni personaggi del Partito Democratico non sembrano disdegnare un modello di partito tendenzialmente populista. Una sorta di berlusconismo di sinistra, per intendersi. Nasce da questo sottinteso la convinzione che la difficoltà del PD di estendere il consenso oltre l’ambito dei suoi elettori dipenda (non da limiti di proposta, di progetto, di forma organizzativa, come sarebbe ragionevole pensare) ma soprattutto da una questione di leadership. Quando in realtà il problema più evidente, il punto critico per il Partito Democratico, andrebbe ricondotto in particolare nell’irrisolta ambiguità circa il fatto a chi debba competere la responsabilità di scelta del leader. Si capisce bene che se l’elezione del leader (non ha nessuna importanza che si chiami segretario o presidente) viene affidata (come è avvenuto fin’ora) a simpatizzanti ed elettori, è inevitabile che il corpo del partito (la struttura, i dirigenti, il ceto politico) venga periodicamente attraversato da irrequietezze e da atteggiamenti critici. Per l’ovvia ragione che se l’investitura dipende dai simpatizzanti e dagli elettori è piuttosto naturale che il leader ritenga di dovere in primo luogo rispondere a loro. Con l’ovvia conseguenza che militanti e dirigenti di partito avranno la sensazione di contare poco o nulla. E finiscano quindi per sentirsi un po’ frustrati. Con tutti gli inconvenienti che questa condizione produce.
Per rendersi conto di come funziona questo modello basta guardare a quanto succede a destra. Il PdL dà la più rassicurante impressione di avere meno problemi interni, meno mal di pancia, per il semplice fatto che Berlusconi si considera investito dalla “gente”, “unto” dal popolo e considera perciò il partito una sovrastruttura. Senza altra funzione che non sia quella di esprimere entusiastico sostegno al capo. Ma la cosa non suscita problemi tra i “suoi devoti” per la semplice regione che, in generale sono anche loro d’accordo con questa interpretazione. Né d’altro canto Berlusconi non ha mai fatto mistero di considerare il partito una sua proprietà. Una cosa sua. E’ infatti lui che “nomina” i dirigenti. E’ lui che, in ultima istanza, decide. Può non piacere. Ma è sostanzialmente così che funzionano i modelli lideristico populisti.
Se dunque il Pd intende superare una fase, ormai fin troppo pericolosamente prolungata, di incertezza ed inquietudine interna non può eludere questo problema. Deve risolvere questa ambiguità. In sostanza, deve decidersi a scegliere tra un modello di partito fondato sui militanti e su regole trasparenti di democrazia interna ed uno, al contrario, di tipo populista. Cioè: con un leader al vertice, gli elettori alla base ed in mezzo solo qualche notabile, ma nulla che conti veramente. Rimanere continuamente in bilico non gli giova. Non fosse altro perché lo indebolisce e pregiudica le sue stesse possibilità di riuscire ad aggregare i consensi necessari per poter governare. Ma se sceglie, come sarebbe auspicabile, la strada di costruire un partito forte e radicato deve coerentemente trane le conseguenze. Che vuol dire: discontinuità nella vita interna; che vuol dire rompere con il sistema delle cooptazioni; che vuol dire votare i dirigenti a tutti i livelli; che vuol dire infine sciogliere il “patto di sindacato” che consente al ceto politico di autoperpetuarsi.
Quando si parla in astratto dei sistemi politici ci si può anche non scandalizzare che alcuni tendano a favorire il progressivo slittamento dal sistema bipolare, ad un sistema bipartitico, per arrivare ad un definitivo biliderismo. Attenzione però. Questo modello, bene o male, funziona negli Stati Uniti. Ma L’Italia è in Europa. Ed in Europa la cultura politica ha un’altra storia. Ha altre tradizioni. Bene inteso delle tradizioni ci si può anche disfare. Ma è impossibile buttarle dalla finestra. Si può,. caso mai, cercare di spingerle lungo le scale. Un gradino alla volta però. Quando si trascura questo aspetto si combinano guai. Si va a sbattere. La questione è particolarmente rilevante per il centrosinistra. Non fosse altro perché a sinistra i militanti, secondo una tradizione tuttora piuttosto radicata, chiedono di partecipare e concorrere a decidere, mentre a destra sono, di norma, più propensi a delegare e quindi si accontentano più facilmente anche solo di tifare.
Alla discussione ed alla scelta del tipo di partito si collega quella relativa alla formazione della rappresentanza istituzionale. E, dunque, alla legge elettorale. In vista delle elezioni europee del prossimo anno la maggioranza aveva presentato una sua proposta di legge elettorale. Le due novità principali avrebbero dovuto essere: l’introduzione di una soglia di sbarramento del 5 per cento e l’eliminazione del voto di preferenza. Avrebbero dovuto essere, perché la nuova legge va improrogabilmente approvata entro il 10 dicembre. Il tempo materiale disponibile non sembra quindi sufficiente per varare il provvedimento. E’ quindi assai probabile che non se ne faccia nulla e che, a giungo del prossimo anno, si vada a votare per le europee con la legge i vigore. Il problema però resta. Resta perché l’opposizione aveva contrastato la proposta della maggioranza chiedendo di abbassare la soglia di sbarramento e di garantire il voto di preferenza. Sul primo punto c’è da dire che, dovendosi eleggere il Parlamento europeo, una qualunque soglia di sbarramento appare priva di senso. E perciò inaccettabile. Sui sistemi elettorali e sulla loro capacità di garantire la formazione democratica della rappresentanza è aperta, da sempre, una discussione. L’opinione prevalente (e di buon senso) è che per assicurare la “governabilità” si possa o si debba evitare una eccessiva frammentazione partitica, sacrificando in parte la rappresentanza proporzionale. A questo, appunto, servono le soglie di sbarramento. Ma se la rappresentanza proporzionale può (entro certi limiti) essere sacrificata alla governabilità, non si capisce perché dovrebbe essere fatto in occasione della elezione del Parlamento europeo. Essendo noto che tra le incombenze del Parlamento europeo non c’è affatto quella di esprimere il “governo” dell’Europa, ma piuttosto quello di dare vita ad un dibattito pluralista nel quale possano farsi valere le diverse culture, sensibilità, punti di vista, che siano rappresentativi (perché hanno un minimo di radicamento) della società europea.
La prima delle due richieste avanzate dell’opposizione lascia piuttosto perplessi. Per la buona ragione che se l’ipotesi della maggioranza appare del tutto inaccettabile, anche la soluzione prospettata dall’apposizione non risulta convincente. Ma nemmeno la seconda richiesta può essere considerata appropriata e persuasiva. Tanto più che il problema delle preferenze riguarderebbe sia le elezioni europee che quelle nazionali. Del resto, non si può dimenticare che anche il Parlamento italiano è formato da “prescelti”. Oltretutto blindato dal recupero delle decine di “ripescati”, grazie al meccanismo delle candidature multiple. Con il risultato che oggi in Italia ci sono più o meno una decina di persone che si sono autoattribuite l’incombenza di decidere la composizione delle istituzioni. Che perciò possono stabilire in solitudine ciò che l’insieme della politica dovrebbe invece essere chiamata a decidere collettivamente. Tutto ciò premesso, non c’è dubbio però che le preferenze pongano a loro volta non pochi problemi. Tant’è vero che in passato hanno favorito la formazione di correnti, l’esplosione delle spese elettorali, le corruttele ed il malaffare, persino le infiltrazioni ed il condizionamento criminale nelle rappresentanze istituzionali. Tuttavia alle preferenze, che, bene o male, sono una scelta non si può contrapporre una situazione nella quale gli elettori non debbano scegliere affatto.
Da gran parte degli elettori italiani, il potere di eleggere il sindaco, il presidente della provincia, della regione, di investire una maggioranza di governo sono stati considerati cambiamenti utili e positivi rispetto al passato. Proprio per questo motivo si capisce bene che ora essi trovino del tutto inconcepibile che non gli si consenta di mettere becco nella scelta dei propri rappresentanti. Oltre tutto, essendo di fatto uno schiaffo agli elettori, le liste bloccate possono perciò acuire un sentimento di distacco dalle istituzioni, di rifiuto della politica, disprezzo verso la “casta”. Sentimenti che non fanno certo bene alla democrazia. Ma il ritorno alle preferenze è il solo modo per farvi fronte? Anche perché non si può certo escludere che la richiesta delle preferenze nasconda una nostalgia per il ritorno al proporzionale. Motivo in più però per aprire una seria discussione pubblica sulla formazione e sul funzionamento delle istituzioni. Sul punto sarebbe quindi auspicabile una adeguata chiarezza. Si può capire che chi rifiuta di tornare ad un mercato parlamentare di alleanze, di posti di sottogoverno, chi vuole confermare il potere dei cittadini di scegliere la maggioranza di governo nell’ambito della democrazia dell’alternanza, guardi con sospetto al voto di preferenza. Che ricorda e rimanda ad altri periodi storici. Ma proprio per questo va chiarito che la preferenza non è affatto l’unica soluzione possibile per ristabilire i diritti di scelta dei cittadini. Di soluzioni ce ne possono infatti essere tante altre. Dai collegi uninominali, alle primarie obbligatorie per legge. Volendo fare solo un paio di esempi. Che consentono comunque di affermare che l’imposizione delle liste bloccate sono una provocazione gratuita e controproducente. Che andrebbe quindi scongiurata.
In definitiva per sbarrare la strada al “dispotismo che degrada gli uomini senza tormentarli”, che giustamente preoccupava Tocqueville, si deve aprire una seria discussione (capace di produrre una necessaria revisione) sui modi, sulle forme, sulle regole di democrazia interna della politica, come sui criteri di formazione della rappresentanza istituzionale. Per fare in modo che esse risultino più coerenti e funzionali allo sviluppo della democrazia nel Paese.

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3 – Crisi economica e redistribuzione

Naturalmente le regole, le forme ed i modi attraverso i quali la politica si esprime, non sono separabili dai suoi contenuti. L’agenda italiana è densa di problemi irrisolti che si trascinano con costi esorbitanti. Non c’è quindi che l’imbarazzo della scelta. Si va infatti: dalla scuola, all’università e la ricerca, sempre sull’orlo del collasso perché vi “coesistono pacificamente” mancanza di risorse e sprechi; dalla giustizia penale e soprattutto civile, oggi largamente negate soprattutto se si è privi di mezzi; dalla dissipazione e dissesto del territorio, alla dilagante speculazione edilizia, anche perché in molti comuni sono i “palazzinari” i veri assessori all’urbanistica; dai problemi del risparmio energetico, a quello delle fonti alternative e rinnovabili; dal caos della mobilità nei grandi centri urbani, alla via crucis dei pendolari; dall’inquinamento ambientale, alle ecomafie, che spesso hanno un complice: le istituzioni; dal controllo di intere aree da parte della criminalità organizzata, ai traffici ed allo spaccio della droga; dal bisogno di immigrati per fare fronte a precise esigenze sociali e produttive, all’aumento di atti di intolleranza, xenofobia, razzismo, che trovano nei leghisti i teorici ed i referenti. E ciascuno potrebbe continuare l’elenco anche solo sulla base delle proprie esperienze ed osservazioni quotidiane. Ma un cahier de doléances servirebbe a poco. L’agenda dei problemi è infatti sufficientemente nota. Sono semmai le soluzioni politiche che non convincono.
Prendiamo il caso della Pubblica Amministrazione. La sua inefficienza è, da tempo, al centro di continue, ripetute lamentazioni. Perché si dice giustamente che rappresenta un freno al dinamismo ed alla crescita. Ma denunciato il male ci si mette il cuore in pace dispensando placebo e cure palliative che, quando va bene, lasciano al massimo le cose come stavano. E’ il caso delle più recenti campagne contro i fannulloni, o per l’installazione dei tornelli negli uffici pubblici per controllare meglio ingressi ed uscite dei dipendenti. Si tratta però di misure che se, nell’immediato, possono far incassare qualche dividendo in termini di consenso a chi li promuove, restano pura apparenza che non intacca la sostanza del problema. Perché il loro scopo è soprattutto quello di “épaté les bourgeois”. Cioè di impressionare la gente comune. Del resto non occorre essere esperti di organizzazione del lavoro impiegatizio per capire che una maggiore presenza negli uffici di per sé serve a poco, se contemporaneamente non si adottano misure capaci di farla diventare anche utile. Ma per conseguire questo risultato si deve fare i conti con due difficoltà. La prima, per così dire, tecnica; la seconda di sostanza. Quella tecnica può essere formulata così: ciò che produce la Pubblica Amministrazione ha un costo, ma quasi mai un prezzo. Perseguire l’efficienza è quindi più difficile. Ad esempio rispetto al settore industriale od a quello dei servizi dove al costo corrisponde sempre un prezzo e per di più, almeno teoricamente, opera la concorrenza. Per riuscirci si dovrebbe dunque partire, invece che dai tornelli, da una chiara e trasparente distribuzione dei compiti e delle responsabilità per fare in modo che ogni ufficio possa essere concretamente chiamato a rispondere dei propri risultati. Quella di sostanza chiama invece in causa uno dei principi fondamentali su cui si basa il nostro diritto amministrativo. Si tratta del principio in forza del quale ciò che veramente conta per l’impiegato pubblico (e su cui non a caso può essere chiamato a rispondere di possibile “danno erariale”) è “la conformità della decisione alla norma”. Il “risultato” diventa perciò del tutto irrilevante. Ma se l’obiettivo che si vuole perseguire è quello di migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, si capisce bene che bisognerebbe ragionare in una logica opposta. Mettendo cioè in primo piano i risultati conseguiti, più che l’osservanza delle procedure. Oltre tutto non di rado assurde ed in alcuni casi persino alquanto irreali. Quindi illudersi che la situazione possa migliorare controllando meglio la presenza in ufficio è come curare i sintomi invece della malattia. Con la sgradevole conseguenza di procrastinare ulteriormente la possibile guarigione.
In ogni caso. Poiché ora ci troviamo in piena recessione (e le cose sembrano purtroppo destinate a peggiorare ulteriormente) conviene concentrarsi sull’aspetto più acuto ed urgente che in primo luogo chiama in causa la politica distributiva. E’ infatti difficile che si possa produrre di più se poi i consumatori non avessero i soldi per acquistare ciò che viene prodotto. Quindi, se non si ponesse rapidamente mano a questo problema è abbastanza facile prevedere che la recessione potrebbe diventare ancora più lunga e più grave.
Però, prima di entrare nel merito può essere utile premettere qualche considerazione sul contesto. Solo fino a pochi mesi fa la cultura egemone sosteneva che era possibile arricchire il mondo semplicemente lasciando fare al mercato. Ora sappiamo, a nostre spese, quali sono stati i risultati di questa teoria. Ma proprio per come sono andate le cose, la prima cosa che non può non colpire è che adesso, proprio coloro che nell’ultimo quarto di secolo avevano contrastato con veemenza ogni intervento statale (anche solo di regolazione) perché non si doveva “disturbare il manovratore”, sembrano rimasti “folgorati sulla via di Damasco” e dichiarano la propria conversione. Persino molti politici che non avevano esitato a fare ricorso alle ricette liberiste più hard invocano ora politiche stataliste. E chiedono di mobilitare una montagna di soldi per consentire alla “finanza pubblica” di andare in soccorso della “finanza privata”. Si tratta di una quantità risorse assolutamente inimmaginabili fino a qualche mesi fa e, di solito, drasticamente rifiutate (anche per somme estremamente minori) quando venivano richieste per migliorare questo o quel programma di protezione sociale. Anche un certo numero di rappresentanti del capitalismo anglosassone, normalmente devoti del laissez-faire, hanno cambiato strada. Al punto che ora non sembrano disdegnare una sorta di dirigismo capitalistico di Stato. Non così dissimile da quello di stampo cinese. Fino a poco tempo fa duramente esecrato.
Ciò che colpisce, dunque, è che mentre per anni si è imposto, con arroganza politica e culturale, di mettere a dieta lo Stato Sociale, nessuno dei gran sacerdoti del liberismo ha fatto una piega quando, in fretta e furia, si è deciso di metter in piedi uno Stato Sociale per il soccorso delle banche, del capitale finanziario, delle aziende. Ovviamente nessuno, tanto più coloro che provengono d una cultura che crede nella “redenzione”, vuole insinuare dubbi sulla buona fede di tante improvvise conversioni. Sulle prese di distanza da dottrine economiche che ci hanno messo in un mare di guai. Semmai la speranza è che questo straordinario germoglio di “catecumeni” possa essere il preannuncio di orientamenti economici più realistici e pragmatici, non solo nell’emergenza, ma anche per gli anni a venire. Anche se, in proposito, qualche dubbio resta. Perché, come diceva Plutarco: “non è la barba che fa il filosofo”. Comunque, si dovrebbe approfittare di questi inaspettati cambiamenti nella cultura economica e politica, almeno per sciogliere una contraddizione. Non si può mettere contemporaneamente in piedi un socialismo spendaccione per i ricchi e continuare invece a propinare ai lavoratori la ricetta liberista. Non è possibile accettare che, per far fronte alla inasprita competizione internazionale, siano soltanto i lavoratori a dover pagare i costi dell’aggiustamento. Con una accresciuta flessibilità dei rapporti di lavoro; con una riduzione del potere d’acquisto dei salari; con una cura dimagrante dei sistemi di protezione sociale. Come è possibile accettare questa logica? Come si fa quindi a riconoscere che è fallita l’ideologia di un mercato che tutto aggiusta, perché capace di autoregolarsi, e non riconoscere coerentemente che anche gran parte riforme costruite su quel presupposto sono fallite? Basti pensare alla privatizzazione di importanti beni pubblici (dalla scuola alla salute, dalla previdenza alla sicurezza, dall’acqua alla gestione dei rifiuti urbani) che possono mettere a rischio essenziali infrastrutture, e dunque la ricchezza pubblica e la stessa coesione sociale. Si pensi alla tendenza a trasferire progressivamente i rischi legati alla vecchiaia ed alla salute dal pubblico al privato, scaricandone il peso sui singoli, sulle famiglie. Con tutte le conseguenze che tali scelte hanno prodotto e continuano a produrre in termini di accrescimento delle disuguaglianze e della povertà. Allo stesso modo come è possibile riconoscere che la “deregolazione” ha giocato un ruolo cruciale nella deflagrazione della crisi economico-finanziaria ed insistere contemporaneamente a prescriverla per il lavoro.?
Insomma ci sono contraddizioni che devono essere sciolte. Per farlo il filo da tirare, la questione più urgente è quella delle politiche redistributive. Sebbene si debba riconoscere che il problema non è esclusivamente italiano, non si può però non prendere atto che in Italia è molto più acuto che altrove. La ragione di questa peculiarità è duplice. La prima è nei numeri. In effetti, malgrado da alcuni anni il numero degli occupati e dei pensionati sia in aumento, la quota di reddito destinata a salari e pensioni è in costante diminuzione. Questo contrasto tra occupati che aumentano e quota del loro reddito sul totale che invece diminuisce è assolutamente indicativo del carattere regressivo delle politiche redistributive in Italia. La seconda riguarda il sistema fiscale. Per spiegare questo aspetto bastano solo pochi dati. E’ infatti sufficiente ricordare che la quota di salari e pensioni sull’intero Pil è pari al 42 per cento, ma essi contribuiscono al totale delle entrate Irpef per il 76 per cento ed all’insieme di tutte le imposte sui redditi per il 55 per cento. Incluse quindi le imposte su profitti e rendite. La spiegazione di questa assurdità (che fa pagare in proporzione più imposte a chi ha meno reddito) non è difficile da individuare. Il fatto è che, mentre per salari e pensioni si attua il “prelievo fiscale alla fonte”, alle altre categorie di reddito è invece riconosciuto il “fai da te” fiscale. E, per fare buon peso, viene chiuso un occhio (e quando è il caso tutti e due) sui i fenomeni di elusione e di evasione.
Come tutti sanno, il governo Berlusconi ha ripetuto più volte l’intenzione a “non mettere le mani nelle tasche dei cittadini”. Non tutti però sono consapevoli che il riferimento alle tasche va inteso e limitato a quelle “più ricchi”. Perché in quelle dei lavoratori e dei pensionati le ha invece messe. Eccome! Basti considerare i soli effetti del così detto “fiscal drag”. Che fa scattare aliquote superiori anche in presenza di puri aumenti “nominali” di salari e pensioni (pure quando il loro “potere reale d’acquisto” diminuisce). Ebbene, per giustificare la mancata restituzione del fiscal drag membri del governo e della maggioranza hanno ripetutamente invocato le difficoltà di Bilancio. Insomma, il fatto che purtroppo i soldi non c’erano e non ci sarebbero. Spiegazione alquanto ecclettica. Considerato che lo stesso governo non ha trovato particolari difficoltà a mettere sul piatto tre miliardi Euro per eliminare l’Ici sulle abitazioni dei ricchi, od a trovarne altrettanti per finanziare il pasticcio Alitalia. Quindi, volendo, i soldi ci sarebbero stati. Perciò la solo conclusione possibile è che il tema di una maggiore giustizia fiscale non fa evidentemente parte delle priorità del governo.
Non è quindi difficile capire perchè, tra i Paesi sviluppati, l’Italia ha una pressione fiscale abbastanza elevata, ma anche distribuita nel modo più iniquo tra le diverse categorie di contribuenti. Stando alle stime Ocse infatti l’Italia sarebbe passata dal settimo al sesto posto nella graduatoria mondiale dei Paesi con la più elevata pressione fiscale. Preceduta solo dalla Danimarca, dalla Svezia, dal Belgio, dalla Norvegia e dalla Francia. Però, a differenza di quanto accade in questi Paesi (ed in particolare nei tre scandinavi) l’elevata pressione fiscale non è compensata da una redistribuzione efficace sul piano della quantità e qualità dei servizi sociali resi dallo Stato, con una conseguente diretta riduzione delle disuguaglianze. Non a caso, Svezia, Danimarca e Norvegia (insieme con la Finlandia che ci segue immediatamente in graduatoria) sono i Paesi nei quali le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono più contenute. Mentre, al contrario, l’Italia si trova, insieme agli Stati Uniti, la Russia ed il Messico, ai primi posti anche della graduatoria dei paesi con il livello di disuguaglianza più elevato. E persino con una maggiore incidenza della povertà. Che, oltre tutto, presenta pure caratteri di permanenza più forti.
Dunque, l’aspetto che non può essere sottovalutato è che nei paesi con una più alta pressione fiscale le maggiori entrate servono per assicurare una efficace redistribuzione. Sia tramite trasferimenti di reddito, ma anche assegni consistenti ed universalistici per i figli, adeguati congedi di maternità e genitoriali, reddito minimo per chi si trova in povertà, sostegni ai lavoratori a basso reddito, indennità di disoccupazione sufficientemente prolungate e decenti, edilizia sociale, E così via. Sia inoltre tramite servizi sociali ed educativi diffusi e di buona qualità. Quanto detto vale non solo per i paesi scandinavi, ma anche per la Francia, il Belgio, l’Olanda. E, sia pure in misura un po’ minore, per la Germania. Invece in Italia la spesa sociale è insufficiente ed al tempo stesso inefficacie ai fini della riduzione delle disuguaglianze. La spiegazione è abbastanza semplice. Intanto perché (considerata la durata media della vita) è in buona parte assorbita dalla spesa pensionistica che, per di più, riproduce le disuguaglianze originate dal mercato del lavoro e dalla differenza delle storie lavorative. E soprattutto perché la quota residua, destinata al sostegno delle famiglie con figli, o con disabili, dei lavoratori poveri, o semplicemente dei poveri e basta, oltre ad essere del tutto inadeguata (e persino assente, nel caso dei poveri), si perde in mille rivoli, in misure incoerenti, frammentate, di piccolo cabotaggio politico.
Una ragione di più per essere preoccupati. Preoccupati del fatto che, malgrado lo scossone che la crisi economico finanziaria sembra destinata a produrre sulla cultura politica a livello mondiale, in Italia continuino ad essere riciclati i cascami della cultura liberista. Del resto non è casuale che buona parte del ceto politico, soprattutto di maggioranza, prosegua imperterrito a sostenere che tasse e trasferimenti riducano la produttività e la ricchezza dell’intera economia. Continui a pensare che un aiuto ai poveri serva solo a sovvenzionare la loro permanenza nella povertà. Continui a ritenere che il sostegno al disoccupato serva solo ad incoraggiare il suo “ozio” e la sua scarsa volontà di cercare attivamente un nuovo lavoro. Consideri una semplice coincidenza (o magari una curiosità senza particolare significato) che in Europa i paesi con minori disuguaglianze abbiano tutti un tasso di crescita nettamente maggiore dell’Italia.
Fortunatamente, non la pensa così il nuovo presidente americano. E, probabilmente, questa non è l’ultima delle ragioni che gli ha permesso di vincere le elezioni. D’altra parte, avendo constatato che negli ultimi 25 anni il Pil americano è più che raddoppiato in termini reali, mentre la maggioranza degli americani ha visto crescere il proprio reddito solo del 17 per cento, non ha potuto non chiedersi: ma dove sono andati a finire tutti quei soldi? La risposta non è risultata particolarmente difficile. Perché è subito risultato chiaro che erano andati ai più ricchi. In effetti, nell’ultimo quarto di secolo il reddito dell’1 per cento più ricco della popolazione americana è quasi triplicato, mentre quello dello 0,01 per cento più ricco è più che quadruplicato. La tendenza si è poi ulteriormente aggravata durante l’ultimo quadriennio di espansione economica (dal 2002 al 2006). Infatti l’1 per cento dei più ricchi si è accaparrato addirittura il 75 per cento di tutti benefici della crescita economica. La conclusione di Obama è che questo stato di cose deve essere rapidamente corretto. Ha perciò deciso che verrà fatto pagare un 10 per cento di tasse in più ai ricchi. Sia eliminando i tagli fatti da Gorge W. Bush, che aumentando i loro contributi sociali. Considerato il ruolo degli Stati Uniti sulla cultura politica mondiale ci si può legittimamente chiedere: le misure che il nuovo presidente si accinge a varare potranno avere qualche effetto anche sulla politica italiana? La risposta non è facilissima. Nell’immediato si è indotti a pensare che sull’attuale governo non ne abbiano molto. Dovrebbero verosimilmente incoraggiare invece l’opposizione a mettere sul tavolo, con la determinazione necessaria, il problema redistributivo.
Problema che deve essere concretamente affrontato da due versanti. Il primo riguarda la dimensione contrattuale. Esso va perciò necessariamente lasciato alla autonomia delle parti sociali. Sperando che emerga la capacità e la volontà di farvi fronte. Il secondo esige invece una chiara e puntuale iniziativa di tipo politico. Perché riguarda, in primo luogo, la questione della pressione fiscale. Non in riferimento alla sua percentuale sul Pil. Dato che continua a fare discutere molto, ma che spiega poco, o niente. Perché, come si è già visto, tra chi è costretto a pagare troppo (in proporzione ai suoi guadagni) e chi può invece permettersi di pagare poco, il tasso di pressione fiscale è solo la “media del pollo” di cui parla Trilussa. L’opposizione dovrebbe invece incalzare la maggioranza sul il tema vero. Che è quello di una rapida e secca diminuzione della pressione fiscale su salari e pensioni. Ma poiché i conti pubblici sono quelli che sono, dovrebbe anche dire che si deve finalmente smetterla di girare inutilmente intorno alle cose. E che per confortare i tormentati si deve tormentare i confortati. Detto altrimenti significa che per fare pagare meno tasse a chi ha i redditi più bassi bisogna farne pagare di più a chi li ha più alti. Che essa intende perciò dare la necessaria battaglia, nel Parlamento e nel Paese, per impedire che il problema dell’equità fiscale continui ad essere relegato nel limbo delle buone intenzioni, o addirittura delle chiacchiere inutili.
Senza per altro dimenticare che collegato a questo aspetto c’è anche la questione non meno essenziale di cosa lavoratori e pensionati devono ricevere in cambio delle tasse che pagano. Perché se in cambio si continua a ricevere poco e male, se milioni di lavoratori restano esposti alla crisi senza cassa integrazione o una decente indennità di disoccupazione, se le politiche sociali continuano a rimanere al di sotto di ogni soglia di tollerabilità, la situazione non cambia. Si finirebbe infatti per aggravare gli effetti redistributivi avvantaggiando chi ha di più, a danno di chi ha di meno.
Inutile dire che il cammino verso la realizzazione di un sistema di protezione sociale di tipo universalistico, mentre in Italia si continua a pasticciare intorno ad un anacronistico sistema lavoristico, categoriale, ed in alcuni casi persino scriteriatamente aziendale (come dimostra la vicenda Alitalia), richiederà del tempo. Ciò che deve preoccupare però non è la gradualità dei passi che potranno essere fatti. Ciò che soprattutto serve è infatti la chiarezza dell’obiettivo che si intende perseguire. E’ una trasparente definizione delle priorità e delle discriminanti. E’ infine un preciso disegno delle politiche attorno a cui mobilitare le forze capace, nello stesso tempo, di sbarrare la strada al piccolo cabotaggio, a misure clientelari, raffazzonate e contraddittorie. Che disperdono solo risorse ed aggravano inutilmente i problemi.
Si è soliti dire che le crisi rappresentano, al tempo stesso, un rischio ed una opportunità. Per riuscire a scongiurare il rischio e cogliere l’opportunità l’opposizione democratica deve quindi mettersi in grado di affrontare questi problemi con la determinazione e l’energia necessaria. Secondo molti commentatori la crisi è indicativa della “fine di un mondo”. Ma la “fine di un mondo” non è “la fine del mondo”. Quindi una ragione in più per mettere in campo un'altra politica. Ben sapendo che, nella nuova situazione, essa non è solo possibile, è assolutamente indispensabile.



















In conclusione.

Tempi nuovi stanno avanzando e si impongono più in fretta che per il passato. Il diffuso convincimento che storture, ingiustizie, condizioni di insufficiente dignità e di insufficiente giustizia, non siano oltre tollerabili; l’ampliarsi del quadro dei problemi e delle speranze di gran parte dell’umanità; la consapevolezza del diritto degli altri, anche dei diversi, da tutelare alla pari del proprio; il fatto che i giovani sentendosi ai margini della storia facciano sempre più fatica a riconoscersi nella società in cui sono inseriti; sono tutti segni del grande cambiamento con cui si deve fare i conti. Al di là della superficie e degli specifici avvenimenti c’è una nuova umanità che chiede di essere ascoltata. E’ il moto irresistibile della storia. E’ il bisogno di un nuovo riconoscimento della condizione umana. E’ la richiesta delle persone di essere riconosciute al di là della propria condizione sociale, dal lavoro alla scuola, in Italia come in altre regioni del mondo. E’ la richiesta di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto effettivo che chiede di essere condivisa.
Insieme a tutto questo, e sia pure a fatica, si affaccia sulla scena politica la convinzione che al cinismo opportunistico si debba opporre una concezione della politica che rifiuti l’ingiustizia, che non sia elusiva, e nemmeno tardiva, ma sempre più intensamente ed effettivamente umana. Per riuscire a portare la società ad una maggiore livello di coesione e giustizia.
Oggi siamo infatti più consapevoli di quanto lo fossimo nel secolo scorso, che se la storia dell’uomo è un movimento per andare sempre più lontano, essa non si fa e non si può intendere senza un principio di permanente insoddisfazione e di perpetua ripresa. Certo anche le difficoltà si rinnovano. E se fino a qualche decennio fa l’ordine politico appariva più chiaro e sembrava rendere più forte l’identità e l’appartenenza, oggi siamo costretti a governare la nostra barca non orientandoci su un cielo di stelle fisse. Le plaghe favorevoli ed ostili che ci capita di attraversare ci sono rivelate, oltre che da una costellazione lentamente mobile, dalla luminosità dell’aria, dal gioco dei venti, dai riflessi dell’acqua, da un benessere o un malessere della vita che è in noi. Per cercare di migliorare le prospettive serve quindi un impegno continuo e diffuso, che non richiede l’appartenenza al ceto politico professionale, ma soltanto la disponibilità e la partecipazione.
D’altra parte, la verità, e specialmente la verità storica, non si può conoscere se non in un impegno vissuto. Ritirarsi in una torre d’avorio od in una posizione d’isolamento e di arbitrio, attraverso una scelta di voluta estraneità, diviene, a lungo andare, una condizione di accecamento. Tenuto conto che la verità sulle cose umane non può mai nascere da una indifferenza, da una separazione. Essa nasce infatti solo da una comunità: di destini, di preoccupazioni, di problemi, di errori, con coloro con i quali dividiamo la sorte. Essa si rivela quindi più nella solidarietà di una via comune che in astratti schemi intellettuali. In definitiva, più che nella rigidità passiva delle strutture, nell’entusiasmo cieco, nell’opinione irresponsabile ed acritica, si rivela soprattutto nel gusto dello scambio, del dialogo, dell’impegno, del giudizio, della diversità. Vecchie qualità degli uomini. E soprattutto della generazione che in Italia, in momenti difficili e rischiosi, non ha esitato a battersi per la libertà e la democrazia. Qualità che perciò, anche oggi, è possibile salvare e promuovere al di fuori delle caste.


Roma, Novembre 2008

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