A Piacenza una associazione che si definisce “politico culturale” che si chiama “cittàcomune” e che annovera fra gli altri suoi promotori il prof. Gianni D’Amo e Piergiorgio Bellocchio, ha rivolto a “tutti i cittadini interessati”, queste domande: “un’altra politica è possibile?, è utile, ha una prospettiva? Domande di chiaro stampo retorico se posso dirlo, con incorporata una perentoria risposta affermativa; sono per dire, capace di invocare una chiosa che azzardo: un’altra politica è indispensabile, non resta che lavorare per crearle una prospettiva. Gianni D’Amo è stato molto chiaro in proposito, quando all’inizio del suo intervento ha sottolineato che l’Art. 2 della Costituzione “…richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. E a chi può richiedere ciò la Costituzione, se non a noi a “tutti i cittadini”, e come non cogliere che “i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” lì indicati, sono da intendersi, come doveri che ciascuno di noi, in primo luogo, deve rivolgere verso sé stesso. Non è retorico né affatto inutile sottolinearlo, né tanto meno lo si può considerare un esercizio egoistico, perché al contrario, solo se sappiamo avvertire il dovere di essere solidali con noi stessi, possiamo sperare di esserlo nei confronti degli altri, così come, e il parallelo non è per nulla ardito né utopistico, solo amando noi stessi potremo essere capaci di amare gli altri allo stesso modo. La realtà in cui siamo immersi, ci racconta altro, ma è sbagliato pensarlo come un “altro immodificabile”. È comunque vero che da quando la Costituzione sessant’anni fa è nata, il “Popolo sovrano” è stato di fatto un “Sovrano muto”, chiamato ad esprimersi collettivamente una volta ogni tanto (non si può più nemmeno dire ogni cinque anni), salvo poi essere appunto collettivamente indotto al mutismo, e ad essere poco Popolo, e per nulla sovrano, ed oggi come detto autorevolmente, pure ridotto a mucillagine; tutt’al più frantumato in corporazioni l’una contro l’altra armate e tutte strumentalizzate dal potere dominante di turno, locale, nazionale e sovranazionale. Vale per i cittadini che si considerano di destra e per quelli che si considerano di sinistra, perché il “potere” figliato dalla “politica che c’è” in questo si somiglia, e che sia di destra o sia di sinistra, ambisce ad alimentare e a praticare una politica che sa essere forte sì, ma forte dei propri privilegi, non certo delle proprie idee. Le idee hanno infatti un difetto, sono per loro natura fragili, e sottoposte a verifica possono rivelarsi anche sbagliate e indurre al dovere di cambiare, sia le idee sia i governanti che le promuovono, mentre i privilegi una volta “creati” sono indistruttibili e interscambiabili, si possono vestire per diritto e per rovescio, e non tradiscono mai chi ne gode. L’ “altra politica” indispensabile, è proprio allora una politica capace di svestirsi dei suoi privilegi e determinata ad essere forte delle proprie idee. Da dove partire? A livello locale (e parlando della parte che mi interessa), in quel che resta sul campo della sinistra piacentina, certamente partendo dal tentativo di spogliarsi innanzi tutto dei propri vincoli ideologici, come lo stesso Gianni D’Amo, Davide Benedetti (di sinistra democratica), Carla Antonimi (di R.C. con Vendola) e Stefano Forlini (dei Verdi), hanno nell’ordine dichiarato con esemplare chiarezza intervenendo sabato sera al convegno organizzato appunto da “cittàcomune”, e senza per altro rinunciare alle proprie idee, che al contrario vanno in modo trasparente portate al confronto, perché per dirla con le parole del direttore de l’Unità, “al confronto delle idee non mi vengono in mente alternative”. E poi, forse suggestionato dalla recente lettura di una pagina de “il manifesto” del 27 novembre, partendo dall’impegno a ricomporre la sciagurata separazione fra fare e pensare. Questa idea la riprendo appunto dall’ultimo lavoro di Richard Sennett citato da “il manifesto”, in cui lo studioso statunitense riflette sulla separazione fra pensare e fare, separazione da ricomporre al più presto, perché è su tale separazione che si fonda il potere delle classi dominanti, e troppo spesso capita anche nel nostro piccolo mondo di provincia, che ci si divida fra quelli del fare contrapposti a quelli del pensare, senza cogliere quanto sia al contrario esiziale per ribaltare gli attuali rapporti di forza sfavorevoli a noi strutturalmente più deboli, una ricomposizione di detta separazione. A livello nazionale poi, a mio parere, occorrerebbe ri-partire con l’abbattimento del privilegio padre di tutti i privilegi, quello per cui i politici si sono riservati la possibilità di essere primi ed unici giudici di sé stessi, privilegio raffinato da una legge elettorale detta “porcata”, che nomina e non elegge i parlamentari, ma purtroppo, privilegio incardinato da sempre nell’Art. 66 della Costituzione, che recita: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Non padroneggio a sufficienza la scienza costituzionale né la storia della nostra costituente, per spiegare qui cosa abbia indotto i padri costituenti a compiere tale scelta, so però che da tempo tale scelta, quella per cui lo stesso soggetto è giudice di sé stesso, si è inesorabilmente solidificata in privilegio, sino a giungere oggi al concreto paradosso del nostro concittadino On. Maurizio Migliavacca, che nelle vesti di autorevole dirigente di partito, ha contribuito a formare appunto liste, che in base alla legge in vigore sono servite a nominare i parlamentari, ed in veste di Presidente della “Giunta delle elezioni” della Camera, presiede al giudizio solenne sul proprio lavoro. Zaccaria, D’antona, ed altri del PD, il 29 aprile 2008 hanno sì presentato una Proposta di Legge Costituzionale per modificare l’articolo 66 della Costituzione, che prevedere appunto l’introduzione della facoltà di ricorso alla Corte costituzionale contro le deliberazioni delle Camere in materia di verifica dei poteri, e in tale proposta fra l’altro vi si legge che “da un’analisi comparatistica risulta come nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea la verifica dei poteri spetti ad organi esterni al Parlamento (si vedano Svezia, Regno Unito, Portogallo, Spagna, Francia e Austria)…” ma se è facile profezia immaginare che la proposta finirà come una bolla di sapone, a tale proposta non possiamo rimanere indifferenti, perché, citando per concludere Piero Calamandrei, “una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica”. Calamandrei lo diceva agli studenti milanesi il 29 gennaio 1955, noi ripetiamolo a noi stessi, non può farci che bene.
Vittorio Melandri
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