giovedì 1 maggio 2008

Questo primo maggio
di Massimo Roccella

1° maggio 2008. In queste ore si stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli del grande concerto con il quale, come ormai da tradizione, i sindacati celebreranno a Roma la festa dei lavoratori. La poderosa macchina organizzativa funzionerà anche quest'anno: sebbene non vi sia gran che da festeggiare e molto invece su cui riflettere, a cominciare proprio, forse, dal rapporto fra questa grande forza organizzata e la sua capacità di incidenza sulla condizione dei lavoratori.
Ci si potrebbe chiedere, in effetti, - dovrebbero farlo in primo luogo gli stessi sindacati - come mai, a fronte di organizzazioni così poderose (oltre dodici milioni di iscritti nel 2007), il rapporto fra capitale e lavoro nel nostro paese appaia oggi così squilibrato, la distribuzione del reddito sia tornata a livelli da anni '50 e, in ragione di essa, la condizione salariale media dei lavoratori italiani sia precipitata a livelli fra i più bassi dell'Unione europea. Un principio di risposta, forse, potrebbe essere dato da una lettura più attenta dei dati. Non si può trascurare allora, in primo luogo, che quello sul tasso di sindacalizzazione complessivo sarebbe fuorviante, ove se ne volessero trarre deduzioni meccaniche sulla capacità d'incidenza dell'azione sindacale: dal momento che esso è la risultante di una composizione anomala, ove spicca una quota di iscritti alle tre organizzazioni confederali rappresentata per quasi il 50% da pensionati.
Ma v'è di più. Il dato che più dovrebbe fare pensare è quello relativo all'andamento della sindacalizzazione fra i dipendenti attivi, in calo costante dal 1992 (39%) ad oggi (33% nel 2007). Si faccia attenzione alle date: il 1992 è l'anno di passaggio da un sistema contrattuale basato su un meccanismo automatico (parziale) di indicizzazione delle retribuzioni ad un modello incentrato in via esclusiva sull'affidamento alla contrattazione collettiva della funzione di definizione dei livelli salariali. Ovviamente, non si tratta di rimpiangere il modello di un tempo, né è sostenibile che senza scala mobile non sia possibile difendere (ed incrementare) il valore reale dei salari: altrimenti non si comprenderebbe perché in altri paesi, come la Germania, i sindacati sono sempre riusciti a tutelare la condizione salariale dei lavoratori (anche meglio che da noi), pur senza disporre di un salvagente come la scala mobile. L'esperienza degli ultimi quindici anni, semmai, ci dice che i sindacati italiani, per troppo tempo abituati alla protezione della scala mobile, si sono dimostrati inadeguati a ridefinire le modalità della propria azione rivendicativa nel nuovo contesto rappresentato dal processo d'integrazione europea e dal vincolo della moneta unica. Le regole definite dal Protocollo del 23 luglio 1993 sono state interpretate in maniera fin troppo meccanica, finendo con lo svuotare di significati apprezzabili agli occhi dei lavoratori i contenuti salariali dei rinnovi contrattuali; e il riferimento all'inflazione programmata è stato tenuto fermo quando ormai aveva completamente perso significato, trasformandosi in uno strumento di compressione dei livelli salariali reali.
C'è da stupirsi allora se il tasso di sindacalizzazione picchia verso il basso, contribuendo a sua volta, come in un circolo vizioso, ad indebolire ulteriormente l'azione sindacale?
Sulla qualità dell'azione sindacale, naturalmente, pesa in negativo anche la crescente precarietà del lavoro. Non si può non ricordare, allora, che il biennio del Governo dell'Unione, che molto aveva promesso sia su questo versante, sia su quello della redistribuzione del reddito, a consuntivo davvero poco ha dato. La situazione sociale del paese, che era disastrata nell'aprile 2006, non si può dire migliorata dopo due anni di governo di centro-sinistra: e questo, senza bisogno di spendere troppe parole, aiuta a capire le vicende più recenti.
Si potrebbe pensare che i sindacati abbiano cercato di compensare sul piano della concertazione con il governo le difficoltà incontrate nella più tradizionale pratica rivendicativa nei confronti delle imprese. Fatto è che, depurato della retorica sulla „grande riforma del welfare‰, nel Protocollo del luglio 2007, ripensato a mente fredda, sembra aver preso corpo un singolare scambio politico: il Governo ha concesso il superamento dello „scalone Maroni‰ (che rappresentava un suo preciso impegno) ed in cambio ha imposto, ottenendone il consenso di parte sindacale (e contravvenendo ad altrettanti impegni assunti nel programma che gli aveva consentito di vincere le elezioni del 2006), una riforma del mercato del lavoro di profilo debolissimo, che non affronta (o lo fa in maniera quanto meno incerta ed ambigua) le questioni davvero essenziali.
L'esperienza di questi due anni, purtroppo, non ha fatto altro che ricordare una verità che pure avrebbe dovuto essere ben conosciuta: non è possibile sedere autorevolmente ed efficacemente al tavolo della concertazione, quando l'azione sindacale non ha radici profonde nei luoghi di lavoro e non è più capace di alimentarsi attraverso una pratica rivendicativa quotidiana e diffusa. Quando viene meno questo presupposto, la concertazione, naturalmente, si può sempre fare, ma diventa altra cosa rispetto alle sue esperienze più feconde: una sorta di esercizio burocratico, funzionale più al sostegno di un certo circuito politico-sindacale, che ad innervare il rapporto fra sindacati e lavoratori.
Né si tiri in ballo, per favore, il referendum con cui gli esiti del Protocollo sono stati sottoposti all'approvazione dei lavoratori. Una grande prova di democrazia, si è detto e non si può non essere d'accordo. Ma qualche cosa non deve aver funzionato, se a distanza di pochi mesi da una consultazione che, apparentemente, avvalorava le scelte dei sindacati e del Governo, quest'ultimo è andato in pezzi e il voto dei lavoratori (quello che conta davvero, deposto nelle urne del 13 e 14 aprile) se n'è andato in ampia misura a destra: irrazionalmente quanto si vuole, ma comunque da quella parte.
La vicenda degli ultimi anni dovrebbe far squillare più d'un campanello d'allarme per i sindacati in genere e per la CGIL in particolare. Alla quale si pone il problema supplementare di capire come mai tanti operai, pure iscritti alla CGIL, abbiano finito per affidare una delega politica ad una formazione come la Lega (ovvero, per colmo di contraddizione, al partito di quel ministro Maroni, padre del famigerato scalone).
Si potrebbe replicare che ciò dipende dal vuoto della politica, dall'assenza di un partito che assuma, credibilmente e programmaticamente, le ragioni del lavoro: la Sinistra non è stata capace di esserlo, il PD neppure se lo propone. Risposta giusta, ma forse parziale e un po' consolatoria: perché eviterebbe di fare i conti con il problema della qualità specifica dell'azione sindacale, che esiste da tempo e sempre più chiaramente si manifesterà nel futuro (anche prossimo).
Al fondo però è vero che debolezze della politica e insufficienza dell'azione sindacale si alimentano l'une con l'altra e contribuiscono a segnare la condizione di solitudine dei lavoratori nell'Italia di oggi. Nella quale la vera cifra di questo primo maggio è data da una notizia apparsa proprio alla vigilia sui giornali, che riportano il dramma di una lavoratrice (precaria) che con il marito (precario anch'egli) mette insieme 1.300 euro al mese e dunque rischia di non potersi consentire di portare a termine la propria gravidanza. Sarebbe bene evitare commenti commossi ed accorati, che durano lo spazio d'un mattino. Notizie del genere dovrebbero parlare in maniera eloquente alla sinistra politica e sindacale (o a quel che ne è rimasto in questo paese): perché se la sinistra ha sempre incorporato in sé l'idea di futuro, è bene sapere che un paese, dove mettere al mondo un figlio è diventato un lusso anche per chi lavora, è un paese senza futuro.

dal sito www.sinistra-democratica.it