David Bidussa
Abiura del fascismo bluff se restano i saluti romani
in “il Secolo XIX”, 13 maggio 2008, p. 19
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Una settimana dopo esser intervenuto a proposito delle valutazioni del neo sindaco di Roma – Gianni Alemanno – sul cinema italiano e sulla necessità di tenere a freno l’invadenza di Hollywood in Italia, il “Sunday Times” di domenica torna con un nuovo articolo (Italy needed fascism, says the new Duce, a firma John Follain) a proposito del nuovo sindaco di Roma e di cui sono riportate alcune frasi. Tra queste merita riflettere almeno su una. Secondo il nuovo sindaco di Roma il regime fascista - al netto di tutta la storia - contribuì alla modernizzazione del Paese. Ho la sensazione che si che si stia entrando in un campo che da una parte evita di chiarire i punti ambigui della politica e dall’altra fa finta di discutere della propria identità rispetto a un passato politico con cui dichiara di aver già chiuso i conti.
Primo aspetto. “Modernizzare” è concetto che va precisato. Il fascismo fu un fenomeno “moderno”. Questo non lo trasforma in un fatto di per sé positivo. Uso la parola “moderno” rispetto al fascismo per indicare che la sua politica in alcuni campi anticipa il futuro, distingue il nuovo dal vecchio, contribuisce perciò a “modernizzare” il Paese. Il problema, tuttavia, è come avviene tutto ciò, introducendo quali valori, confermando quali pregiudizi, mantenendo o approfondendo quali discriminazioni. Per esempio si può sottolineare come nelle politiche fasciste ci fosse una legislazione specifica legata alla questione della protezione e del sostegno. Altra cosa è, però, domandarsi quanto quelle politiche di sostegno favorissero o fossero volte alla prevenzione, all’emancipazione sociale e lavorativa delle donne o se invece non fossero rivolte a ridurle e a ribadirle nel ruolo di “fabbrica di figli” per la patria. In breve quanto quell’atto o quelle politiche contenessero ipotesi e finalità “antimoderne”, nonostante presentassero soluzioni tecniche e operative “moderne”.
Secondo aspetto. Nella scena della “gioia” per la vittoria lo scorso 27 aprile c’erano i simboli e i segni di un tempo che fu e di un’ideologia che ha marcato la storia del nostro Paese. In quel momento al neosindaco di Roma è mancata la forza, il coraggio e la durezza o forse la volontà di dire a una parte di quella piazza (non importa la quantità) che il saluto romano e l’evocazione del duce non appartengono al campo politico in cui egli si riconosce, , né strutturalmente, né marginalmente. Ovvero di dire con nettezza che in quella piazza bisognava scegliere: “o lui, o loro”. Emanciparsi dal passato, dal proprio passato, autobiografico e cultural-politico, non passa per dichiarazioni altisonanti, ma implica litigare e confrontarsi duramente con i propri, richiede di tagliare i ponti con una parte di loro, compiere gesti irrevocabili.
Non è solo un atto formale, quello di cui sto parlando. In quel gesto c’è anche l’inizio – e non la conclusione - di un viaggio culturale in cui si fanno i conti con parole, gesti, simboli, slogan, oggetti. In cui si rompono legami anche profondi e vengono meno amicizie precedentemente coltivate o che fanno parte della propria storia che si dichiara finita. Per dichiararla davvero finita non sono sufficienti né le dichiarazioni etiche, né le visite guidate ai luoghi dell’orrore, né le parole di valore morale. Certo sono atti che aiutano, indicano un’intenzione. Ma non sono la sostanza.
Preso atto che siamo tutti persone dabbene, come diceva Pirandello, si tratta di dire che cosa si rifiuta del passato e di rompere con coloro che ancora vi si riconoscono. Se invece rimane la dimensione del “ma anche”, allora da una parte la nostalgia ha già segnato un punto a suo favore e, dall’altra, la retorica ha preso il posto di un processo che non c’è. O che è prossimo al bluff.
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