mercoledì 28 maggio 2008

Pescati nella rete: stefano zamagni

Dal sito www.piuvoce.net


Stefano Zamagni
Presidente dell`Agenzia per le Onlus; Ordinario di Economia Politica, Università Bologna
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La lezione di Amartya Sen e il welfare sussidiario
NON C`E` GIUSTIZIA SOCIALESENZA RISORSE ALLE PERSONE
Vien prima la crescita economica o il welfare? Per dirla in altro modo, la spesa per il welfare va considerata consumo sociale oppure investimento sociale? Come quasi sempre accade in economia, l’evidenza empirica non è in grado di sciogliere nodi del genere. La tesi che difendo è che, nelle condizioni storiche attuali, la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico è assai più credibile e giustificabile della posizione contraria.
Come si sa, lo Stato sociale nella seconda metà del Novecento ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: per un verso, ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo, per mezzo della tassazione, reddito e ricchezza (la cosiddetta funzione di “Robin Hood”) e, per l’altro verso, offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel corso del tempo (funzione di “salvadanaio”). Lo strumento escogitato per la bisogna è stato, basicamente, il seguente: i governi usino il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio senza peggiorare la posizione assoluta di chi sta meglio. Senonché tutto un insieme di circostanze – la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale - ha causato, nei paesi dell’Occidente avanzato a partire dagli anni ’80, un rallentamento della crescita potenziale. Ciò ha finito con il dare fiato, nel corso dell’ultimo decennio, al convincimento per cui i meccanismi redistributivi della tassazione e delle assicurazioni sociali sono la causa del rallentamento della crescita potenziale e, di conseguenza, sono responsabili di generare una scarsità di risorse per l’azione sociale dei governi.
I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non solamente il vecchio welfare state si dimostra oggi incapace di affrontare le nuove povertà; esso è del pari impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento in Europa. Ad esempio, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia la quota dei profitti sul Pil è passata dal 23 al 30 per cento, mentre quella che va al lavoro è scesa dal 77 al 70 per cento. Come ci rivela l’ultima indagine Censis, l’Italia è ormai diventata un paese caratterizzato da una “mobilità a scartamento ridotto”: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti. E’ questo un segno eloquente della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade non riesce più ad uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Quanto a dire che la persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo; ne resta inesorabilmente emarginata perché il lavoro decente è solo per gli efficienti. Per gli altri vi è il lavoro indecente oppure la pubblica compassione.
Come procedere allora nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati (caro all’impostazione socialdemocratica) sia di uguaglianza delle posizioni di partenza (l’approccio favorito dalle correnti di pensiero liberali). Piuttosto si tratta di declinare la nozione di eguaglianza delle capacità (nel senso di Amartya Sen) mediante interventi che cerchino di dare risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita. L’approccio seniano al benessere suggerisce di spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni alla effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. E’ per questo che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del vecchio welfare. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, etc., per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci, e anche dannose, perché non aiutano di certo il processo di sviluppo. In buona sostanza, occorre procedere in fretta a superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (quelli cui guarda il welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato all’origine in Europa di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive.
Di un secondo passo, conviene dire. Il nuovo welfare deve essere sussidiario, deve cioè dirigere le risorse pubbliche ottenute principalmente dalla tassazione generale per finanziare non già – come oggi avviene – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò in quanto, il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i loro costi. Non solo, ma finanziare i portatori di bisogni aumenta la loro responsabilità e mobilità il protagonismo della società civile organizzata. Non si dimentichi, infatti, che il finanziamento diretto dell’offerta tende a snaturare l’identità dei soggetti della società civile, i quali vengono obbligati a seguire procedure di tipo burocratico-amministrativo che tendono ad annullare le specificità proprie di ciascun soggetto, quelle da cui dipende la creazione di capitale sociale.
La conclusione che traggo è che le ragioni a supporto della tesi dell’esistenza di un trade-off tra protezione sociale e crescita economica sono assai meno plausibili di quelle che militano a favore della tesi opposta. Non è affatto vero che il rafforzamento degli istituti di tutela sociale implichi la condanna ad una crescita più bassa, a lungo termine insostenibile. E’ vero, invece, che un welfare post-hobbesiano, centrato principalmente su politiche di promozione delle capacità delle persone, costituisce nella attuale fase post-fordista, caratterizzata dall’emergenza di nuovi rischi sociali, l’antidoto più efficace contro possibili tentazioni antidemocratiche e quindi il fattore decisivo di sviluppo economico.
Stefano Zamagni

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