A proposito del volume di Giulio Tremonti
Nessuna speranza,
un’oscura paura
L’appiattimento sul presente ha delle ragioni: “sta drasticamente diminuendo la capacità di pensare un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private”, scrive Remo Bodei, e aggiunge: “l’avvenire appare sostanzialmente improgrammabile, incerto o addirittura pauroso”. E’ la fine del Novecento, bellezza! In questa fine – a me pare – si iscrive il ritorno del pensiero irrazionalista e il ritorno del sacro. Con tutto ciò che ne consegue, a cominciare dai fasti di una nuova destra presente in tutta Europa e vittoriosa anche in Italia.
Il libro di Tremonti aiuta a capire, perché sistema in modo ordinato l’ideologia – nel senso di falsa coscienza – della nuova destra in Italia, con riferimento particolare (ma non esclusivo) alla politica della Lega.
Colui che citava se stesso
La lettura del volume “La paura e la speranza” di Giulio Tremonti (Mondadori 2008) colpisce per la psicologia dell’autore: le frequenti citazioni di volumi e di articoli, insomma la bibliografia presente nel libro, si riferiscono quasi esclusivamente ad opere dello stesso Tremonti. Il che, oltre ad essere segno di un ego di dimensioni spropositate, è assieme prova di un certo complesso, c’est à dire: “Vedete che sono coerente, ho e avevo ragione, non mi potete cogliere in contraddizione”.
La tesi di fondo dell’autore è essenzialmente questa: per l’Europa è finita l’età dell’oro. L’effetto della globalizzazione nella forma del “mercatismo, la versione degenerata del liberismo” è infatti catastrofico per il Vecchio Continente. Il futuro è quello di una marginalizzazione europea a causa dell’emergere dell’Asia e, in particolare, di Cina e India. L’Europa si è scavata e si sta scavando la fossa con le sue mani, perché “abbiamo i telefonini ma non abbiamo più i bambini”.
La coppia comunitarismo-liberismo
C’è già il primo accenno a quella “coppia” che ispira l’intero volume, e che è il modello economico-sociale di Tremonti: comunitarismo più liberismo. La dimensione territoriale (Europa contro il resto del mondo) sostituisce totalmente la dimensione sociale (non ci sono più classi e di conseguenza scompare la questione sociale). Colpisce il “nemico” di Tremonti, e cioè il “mercatismo”; il mercato “non può essere la matrice totalizzante esistenziale, la base di un nuovo materialismo storico”. Insomma, l’Autore considera il “mercatismo” anche come una sorta di sottoprodotto del marxismo e della dissoluzione dei Paesi comunisti. Chi d’altra parte può pensare che la vita si riduca al mercato? Il punto è che, dopo decenni di apologia del mercato, la “svolta” dell’ideologia della destra è nel porre un limite al mercato, ma non in nome, ovviamente, dell’universalismo, dell’eguaglianza, della solidarietà, bensì in nome del particolarismo, della differenza, della rottura del legame sociale contro qualsiasi diversità: cioè in nome del comunitarismo territoriale.
1789, illuminismo, 1968
Ancora Tremonti: di chi è la responsabilità del prevalere del mercatismo? Della Rivoluzione francese, dell’illuminismo, del 1968. Qui è più chiara la natura del suo pensiero, che si combina col pensiero di una parte della destra cattolica e laica. Il 1789 e l’illuminismo (per non parlare del 1968) non sono visti come frutto della cultura e della storia europea, ma come metastasi. Il che, com’è ovvio, ha conseguenze, per così dire, totali. In breve: il pensiero politico della nuova destra intende rifondare la cultura europea espungendone, fra i tanti, Freud, Malthus, Darwin, Marx; il suo comunitarismo postmoderno può costruirsi solo negando i valori che, a partire dall’89, segnarono l’800 e buona parte del ‘900.
Quali sono gli effetti del mercatismo? “Il rischio globale della catastrofe ambientale. Il rischio locale di un colonialismo asiatico di ritorno sull’Europa”. Giusto, seppur banale, l’accenno al rischio di catastrofe ambientale. Inquietante l’indicazione del pericolo del “colonialismo asiatico”; ancora una volta prevale la dimensione territoriale ed emerge il riflesso di un’antica sindrome nazional-imperialista. Gli asiatici in fondo vogliono negare all’Europa il suo sacrosanto diritto ad un posto al Sole.
No al libero commercio mondiale
Quali sono le date-simbolo della catastrofe prossima ventura che incombe sul mondo e in particolare sull’Europa? Il 9 novembre 1989, e cioè la caduta del muro di Berlino; il 15 aprile 1994, quando si firma l’accordo World Trade Organizzation sul libero commercio mondiale. Quest’accordo, per Tremonti, cambia il mondo perché introduce il libero scambio fra Paesi con costi di produzione (e modalità) diversi. Cosicché mentre l’Europa al suo interno si autolimita con regole e regolette di ogni genere, subisce l’invasione di altri Paesi nei quali tali regole non ci sono. Da ciò uno scivolamento progressivo che crea, specie in Occidente, la nascita (o il ritorno) del sentimento della paura. Questa è causata dal fatto che “l’Occidente esporta ricchezza e importa povertà”; “I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali” e “non occorre che gli operai sui muovano. A muoversi ci pensano direttamente i capitali occidentali”. Cosicché i salari degli “operai occidentali tendono a livellarsi verso il basso” e “la povertà entra nella busta paga dei salariati occidentali”.
Ecco fatto: è la concorrenza fra mano d’opera che livella al punto più basso le retribuzioni; il libero commercio mondiale ha scoperto il vaso di Pandora.
L’Europa dei Cavalieri di Malta
L’Europa, d’altra parte, “non ha una vera politica estera” né “una vera politica industriale”, ma fabbrica “regole che non ci servono”; né ha “una vera politica” commerciale, energetica, demografica, sociale, culturale. Quali le prospettive? “Il tramonto della vecchia Europa, con la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia. In una parola: la nostra civiltà”.
Il paradosso è che è vero che l’Europa è lontana da una “vera politica”, solo che la “vera politica” a cui pensa Tremonti è una variabile dipendente di quelle che, a suo avviso, sono “la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia”. Una “vera politica” della fortezza nel deserto dei tartari, come si vedrà. Nel vortice della paura scompare qualsiasi idea d’Europa che, per sua storia e definizione, è autonoma, cosmopolita e collocata in un mondo policentrico, per far posto, nella dimensione comunitario-liberista, ad un’idea subalterna, dipendente in modo vitale dall’alleanza con gli Stati Uniti contro il resto del mondo. Un’Europa angosciosa, angosciante e angosciata che ripudia Voltaire per i Cavalieri di Malta e si rivolge agli Stati Uniti come al capofila dello spirito guerriero religioso dell’Occidente.
Dopo questa lunga arringa di carattere economico sociale – la paura – Tremonti passa al che fare, e cioè alla speranza. E cambia totalmente il passo, trasferendosi sul terreno etico politico: la leva per spostare l’asse dall’economia alla politica è data dalle “radici giudaico-cristiane dell’Europa”. Non bastano: occorre contrastare il “consumismo” con un ritorno del “romanticismo” che, è vero, combinandosi “al principio del Novecento con la meccanica moderna ha finito per insanguinare l’Europa”, ma è anche vero che la fine del romanticismo ha spazzato via “una buona parte dell’humus che c’era sul fondo della nostra storia”; “l’idea che le sue radici affondano nella stessa terra in cui riposano i suoi padri”, “il valore proprio delle riserve della memoria”, “le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici ed umorali, le diversità, i vecchi valori e le “piccole patrie”, i monumenti e i patrimoni d’arte”, “in una parola, le nostre radici”.
I valori della tradizione
Insomma, c’è un po’ – ma non troppo - di Kenichi Omae, l’economista americano giapponese che qualche tempo fa scriveva che “lo Stato-nazione è diventato un’unità organizzativa innaturale per l’economia. Che senso ha l’Italia – si chiedeva – come entità economica coerente all’interno della Ue?”. Citava la Lega Nord, come prova dell’incongruità economica del nostro Paese. Tanto vale, sosteneva, organizzare gli Stati come “unità naturali di businnes”. Ergo, si separi pure il nord d’Italia dal sud!
Continua Tremonti, occorre “alzare le bandiere dell’onore e dell’orgoglio, della legge e dell’ordine, introdurre nella vita la politica, e dare alla politica la prospettiva di un ordine etico”. Basta con Darwin, Malthus, Marx, Freud, perché “non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio”. E’ quest’ultima una delle poche citazioni non di se stesso, ma di altro autore. Trattasi di Joseph Ratzinger. Di conseguenza la risposta alla “dittatura sfascista del relativismo” è in sette parole: “Valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”.
Ecco, specialmente e pienamente, la cultura della nuova destra europea. Cogliendo fior da fiore su internet, da uno dei tanti siti della nuova destra: “Difendere ad ogni costo le Identità etnico-razziali e le ancestrali Tradizioni delle Piccole Patrie europee dalla Sovversione politico-culturale e spirituale che le minaccia. Riaffermare con forza la volontà di ritornare pienamente padroni sulle nostre terre. Rendere edotti e consapevoli i Giovani d’Europa di appartenere a comunità etnico-nazionali antichissime aventi nei Popoli Indoeuropei i nobili padri fondatori. Vigilare, custodire, ricordare le ataviche Tradizioni di quell’Europa Aria che diede vita alle nostre Nazioni di Sangue e Suolo. Salvaguardare l’immenso ed unico patrimonio razziale, etnico, culturale, storico, linguistico ed ambientale delle nostre millenarie Heimat”. Ci sono, naturalmente, molti punti di diversità rispetto alla visione del mondo di Tremonti. Ma anche molte affinità che vanno colte e rivelate. La destra non è una categoria dello spirito; è un punto di vista, una politica, una pratica. La vittoria della destra intercetta un profondo cambiamento di senso comune in una parte maggioritaria di elettori. Sdogana pulsioni, risentimenti, paure. Mette a nudo la parte oscura di una società. La sequenza di aggressioni e di violenze delle ultime settimane lo conferma. Il ritorno dello squadrismo nazifascista, nonostante i ridicoli tentativi di minimizzarlo e di catalogarlo nella voce “delinquenza comune” lo ribadisce. Una democrazia forte sa difendersi. Ma oggi la nostra democrazia non è mai stata così debole.
L’Occidente non è più padrone del mondo
Da Marcello Veneziani a Oriana Fallaci a Marcello Pera, l’ideologia di Tremonti è l’ideologia della nuova destra che sta vincendo. Non solo (e tanto) della destra moderata. Anche, per molti aspetti specialmente, della destra estrema. Eppure – e perciò – male faremmo a sottovalutare questo pensiero politico. Ce lo ricorda Alfredo Reichlin (L’Unità del 21 maggio): “Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo”; “i sondaggi ci dicono che almeno il 60% degli italiani considera superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito”. “Non c’è solo il vuoto dei valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa”. “L’Occidente si è accorto – continua Reichlin – che non è più il padrone del mondo”. “Tremonti (…) aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura, e, mi permetto di aggiungere, su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva”. E dopo aver sottolineato “l’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri”, avanza la proposta di “una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo” al fine di “diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di un’apertura, di uno scambio fra pari, di una cooperazione fra popoli”.
Credo che sia giusto, necessario, ma non sufficiente.
La risposta possibile
L’offensiva della destra in Italia e in Europa scava in profondità e ha il consenso di masse sempre maggiori. Giorgio Ruffolo (Repubblica del 29 aprile) mette a fuoco – a mio avviso – il problema essenziale: all’offensiva della nuova destra “la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole”. Siamo all’inizio della traversata nel deserto. C’è un solo modo per costruire, nel tempo che sarà necessario, un contrasto totale alla destra vincente: ripartire dalla realtà, dalla sua conoscenza analitica, scaricando certezze indimostrate e aborrendo le alte grida di propaganda spacciate come “pensiero forte”.
All’irrazionalismo, al sacro, la sinistra deve opporre sia la razionalità critica sia una tensione etica e intellettuale non anticlericale o antireligiosa, ma capace di confrontarsi apertamente con la pluralità dei valori e delle culture.
All’apologia del presente la sinistra deve opporre la riflessione sul rapporto fra passato e futuro, e perciò l’esaltazione del legame di responsabilità con le giovani generazioni e con il loro diritto al futuro, a una vita degna di essere vissuta in senso individuale e collettivo.
Alla paura senza speranze la sinistra, a partire dalla realtà, deve avanzare le grandi domande di senso dell’epoca contemporanea e costruire possibili risposte.
Alla progressiva involuzione democratica che nell’iperspecializzazione tecnica vede approfondirsi la frattura tra coloro che sanno e coloro che non sanno deve contrapporre la rigenerazione del senso civico, della solidarietà, della pratica politica come pratica autentica di libertà e di partecipazione.
Alla visione comunitario-liberista deve contrapporre una lettura della società in grado di comprenderla nelle sue profondissime e nuove articolazioni, di cogliere l’evoluzione del rapporto individuo-masse avvenuta nell’ultimo mezzo secolo e così di contrastare la lettura sociale della nuova destra che è propriamente e pienamente populista.
Perché è vero che abbiamo i telefonini e non abbiamo più i bambini. Ma non vorrei che qualcuno pensi di risolvere il problema aumentando il numero dei bambini “ariani”.
Milano, 28 maggio 2008 Gianfranco Pagliarulo
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