mercoledì 7 maggio 2008

Un intervento di Felice Besostri: Israele, la Sinistra e il Sionismo

Israele, la Sinistra e il Sionismo

Le manifestazioni contro Israele, come paese ospite della Fiera del Libro di Torino nel 60° anniversario della sua fondazione hanno riaperto un dibattito nella sinistra italiana.
Meglio detto, hanno riaperto una ferita, perché non c’è dibattito senza dialogo: su Israele e Palestina sono, invece, scarse le occasioni di incontro.
Ciascuno preferisce organizzare le proprie manifestazioni, i filo-palestinesi da una parte ed i filoisraeliani dall’altra. Questa divisione in campi contrapposti prevede tre vittime: i palestinesi, gli israeliani e la sinistra.
Ne deriva una grande confusione, anche terminologica tra israeliani ed ebrei, tra sionismo e politica israeliana fino all’assurdo di scambiare per antisemitismo ogni critica al governo di Israele ed il sionismo per una sorta di nazionalismo fascista e razzista.
Soltanto il terrorismo fondamentalista islamico non fa distinzioni e, pertanto, le forze di occupazione israeliane, come le Sinagoghe in Turchia od un ente ebraico di assistenza e beneficenza, in Argentina sono tutti obiettivi posti sullo stesso piano. In realtà gli obiettivi ebraici in tutto il mondo e la popolazione civile in Israele sono di gran lunga preferiti, perché più facili da raggiungere.
Lo stesso accade nella rappresaglie israeliane, perché la popolazione civile è naturalmente più esposta ed indifesa delle bande terroriste armate.
Nelle vicende del Medio-Oriente mi sono sempre attenuto alle richieste di due cari amici, purtroppo scomparsi da tempo Peretz Merchav (ebreo, israeliano, sionista e socialista) e Abdel Zwaiter (palestinese, poeta, comunista e rappresentante della OLP in Italia). Tutti e due dicevano che non avevano bisogno di alleati acritici e fanatici, ma di amici in grado di far da ponte tra israeliani e palestinesi con l’obiettivo prima della pace e poi della convivenza tra i due popoli. Questo ruolo lo assegnavano naturalmente alla sinistra perché antifascista ed antirazzista ed impegnata a fianco delle lotte di liberazione dei popoli e per la difesa dei diritti.
Non siamo stati all’altezza del compito se si aggrediscono nei cortei del 25 aprile, chi porta le bandiere della Jewish Brigade ed i reduci dai campi di concentramento, si bruciano le bandiere di Israele e si organizzano convegni nei quali la criticabilissima politica israeliana in Gaza e Cisgiordania, è qualificata come pulizia etnica, quasi che fossimo in Bosnia, in Cecenia o nel Darfur.
Per trasparenza, in un conflitto come quello israelo-palestinese, che taglia trasversalmente le coscienze, non si può essere osservatori esterni e, quindi, occorre enunciare il proprio punto di vista almeno sui punti essenziali.
I palestinesi hanno diritto ad una loro patria in forma di Stato ed Israele ha diritto di esistere in sicurezza.
I diritti sono per loro natura indivisibili e, pertanto, quando si scontrano si può soltanto dividere la terra: quindi due popoli, due stati.
Partendo da ciò, siamo, peraltro, soltanto all’inizio della soluzione, possibile non certa, del problema israelo-palestinese, ma senza questo punto di partenza non c’è pace e soprattutto non c’è speranza.
La negazione della legittimità della esistenza di Israele conduce in un vicolo cieco e le prime vittime della mancanza di una speranza di soluzione sono la parte più debole, i palestinesi.
La situazione attuale è esemplificativa dell’impasse, con due porzioni della Palestina soggetta a due distinte autorità in lotta tra di loro ed i cui scontri hanno provocato altrettanti morti della repressione dell’Intifada.
La negazione dello Stato di Israele ha bisogno di negare il sionismo, come movimento fondatore dello Stato israeliano, con critiche che, in molti al di là delle intenzioni, sconfinano nell’antisemitismo antiebraico.
La negazione del diritto di un popolo di raccogliersi in uno stato nazionale, nel caso di Israele, diventa negazione degli ebrei, in quanto tali, di avere uno stato, parlo degli ebrei in quanto individui e, perciò, indipendentemente dal fatto che siano osservanti o meno della Torah, che siano religiosi o laici od addirittura atei, come molti sionisti socialisti e di sinistra.
La religione è stato sicuramente uno dei fattori, il principale, che ha consentito al popolo ebraico nella diaspora di mantenere la propria identità e la propria coesione, ma ridurre gli ebrei alla sola dimensione religiosa significa discriminare gli ebrei che religiosi non sono e che hanno tutto il diritto, al pari degli italiani o dei francesi, di non esserlo senza dover per questo rinunciare alla aspirazione alla costruzione di una comunità nazionale.
La nazione, diceva Renan, è un plebiscito di tutti i giorni.
La nazione è memoria e progetto, finché ci sarà questo legame fra i cittadini di uno stato, non si può mettere in discussione la sua legittimazione. Uno Stato è caratterizzato dalla esistenza di un popolo su un territorio e soggetto ad una stessa autorità. Israele possiede queste caratteristiche oltre che essere internazionalmente riconosciuto dalla maggioranza dei governi degli Stati, compresi alcuni arabi e musulmani.
L’obiezione è che si è trattato di una creazione artificiale, un prodotto del colonialismo europeo, a danno di un altro popolo e la cui creazione si è fondata sul dolore di un altro popolo, che già abitava quella terra, per il quale la creazione di Israele ha rappresentato una catastrofe.
Israele sarebbe il risultato di un senso di colpa degli europei, che dovevano farsi perdonare il nazismo e la Shoah.
Se si dovessero applicare gli stessi criteri di critica, dovremmo mettere in discussione la legittimità degli Stati Uniti, che non sarebbero sorti senza lo sterminio dei pellerossa e la forzata annessione di stati abitati in prevalenza da ispanici come la Florida, il Texas e la California e senza l’acquisto dell’Alaska dalla Russia e della Louisiana dalla Francia.
In Europa lo Stato slovacco è nato, al pari della Romania, malgrado una consistente minoranza ungherese, pur territorialmente contigua alla madre patria.
L’impero russo ha conquistato militarmente il Caucaso e l’Asia centrale con massacri delle popolazioni locali, promuovendo una russificazione forzata e continuando nella repressione, fino ai giorni nostri come in Cecenia.
Il colonialismo ha prodotto l’esistenza del Libano, dividendolo dalla Siria, perché allora in maggioranza cristiano e tutti gli stati africani nei loro confini attuali sono artificiali, hanno diviso etnie e tribù. Il caso più esemplare per dire che le origini non sono decisive per il diritto ad esistere, è il Sud Africa creato dai boeri, conquistato dai britannici ed ora la più forte nazione africana.
Tutti gli stati dell’America Centrale e Meridionale hanno alla loro origine la conquista, lo sterminio delle popolazioni indigene o la loro acculturazione europea e un ripopolamento frutto della emigrazione europea di massa.
Non è un argomento che alcuni fatti sono ormai coperti dall’oblio e dalla polvere del tempo, mentre Israele ha appena sessant’anni.
La creazione dello Stato di Israele è il frutto di un lungo processo storico, del quale la nascita dal sionismo rappresenta soltanto una componente.
Henry Laurens (La question de Palestine, Parigi, Fayard, 1999) designa il periodo 1799-1922 come “L’invenzione della Terra Santa” e fa risalire alla spedizione di Egitto del 1798 e alla invasione del Sinai e della pianura costiera palestinese nel 1799 il legame tra quell’area e le vicende europee: l’impero ottomano, ancora Califfato, si alleò alla Gran Bretagna, protestante, all’Austria Ungheria cattolica ed alla Russia ortodossa per contrastare l’espansione delle idee di nation e di diritti del popolo, nate dalla Rivoluzione Francese.
La dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917 è di più di un secolo dopo, non prevedeva lo stabilimento di uno Stato ebraico, bensì di un Focolare nazionale per il popolo ebreo, “essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa portare lesione ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti ed allo statuto politico, di cui gli Ebrei dispongono in tutti gli altri paesi.
Pochi anni dopo l’articolo 22 del patto della Società delle Nazioni adottato a Versailles il 28 aprile 1919 prevedeva che alle colonie ed ai territori, che a seguito della guerra hanno cessato di essere sotto la sovranità degli Stati, che le governavano in precedenza (quindi anche alla Palestina, già soggetta alla Sublime Porta) e che sono abitati da popoli non ancora capaci di dirigersi da essi stessi, dovesse applicarsi una tutela internazionale.
“Il benessere e lo sviluppo di questi popoli formano una sacra missione di civiltà”.
Da questo scaturì il mandato britannico, quindi imputare al sionismo ed ai primi insediamenti ebraici la responsabilità è una deformazione dei fatti ad uso strumentale.
Il nazismo e la Shoah erano ancora lontani di più di venti anni.
Lo sviluppo degli insediamenti ebraici fu più un frutto delle condizioni degli ebrei nei paesi dell’Europa Orientale, che creava l’ambiente adatto all’espansione del sionismo nella sua versione socialista, che di una politica favorevole della potenza mandataria. La Gran Bretagna proprio nel 1939 con il Libro Bianco restrinse severamente l’immigrazione ebraica in Palestina, provocando la reazione di Leon Trotzky).
La Gran Bretagna, che nelle colonie aveva sempre applicato il principio del divide et impera anzi contrasta l’espansione degli insediamenti ebraici, anche quando dai territori conquistati da Hitler giungevano notizie sempre più preoccupanti sulla sorte degli ebrei. Un contrasto che è proseguito anche alla fine della guerra, con episodi come quello della nave Exodus, tanto che un settore del sionismo, quello revisionista, compì atti di terrorismo contro i britannici (esplosione dell’Hotel King David a Gerusalemme). Contrasto ma anche collaborazione con la formazione ebraica, che si incorporò nell’Armata britannica, con il nome di Brigata palestinese.
Nello sviluppo successivo dei rapporti tesi nell’area entrò il contrasto di costumi tra i palestinesi musulmani, in gran parte, con gli ebrei sionisti, laici e socialisti, uomini e donne, che praticano rapporti liberi da condizionamenti religiosi.
Tuttavia non si può dimenticare che il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, si alleò a Hitler in funzione antiebraica ed anti-inglese.
L’acquisto di terre fu reso possibile dall’aiuto delle comunità ebraiche di tutto il mondo, ma anche dalla struttura feudale della Palestina, con grandi proprietari terrieri e terre facenti capo alle comunità religiose, paragonabili alla manomorta ecclesiastica nei paesi europei.
Terre improduttive e con proprietari assenteisti non furono divise tra i contadini poveri in seguito ad una riforma agraria, ma comprate dai più dinamici kibbutzim, sperimentatori di un diverso modo di vivere più consono ai loro ideali socialisti ed egalitaristi.
Tuttavia, proprio gli insediamenti ebraici e lo sviluppo economico che ne conseguì, contribuì ad una crescita esponenziale della popolazione araba, anche in arrivo dai paesi vicini.
In questa mescolanza di popolazioni, quindi, parlare di popoli indigeni espropriati e di europei espropriatori è una mezza verità e, come ci insegna il Talmud, “una mezza verità è una bugia intera”.
Il dramma si scatenò quando la risoluzione delle Nazioni Unite, che poneva fine al mandato britannico e prevedeva la spartizione della Palestina in due stati non fu accettata dagli Stati arabi confinanti, che scatenavano la guerra nel 1948.
In una situazione di guerra ogni parte può ricordare le atrocità dei nemici, coprendo ed ignorando le proprie: nessuna di esse giustifica le altre.
Ora possiamo scegliere tra due strade, quella della vendetta e quella della composizione dei contrasti.
Nella scelta peseranno inclinazioni, esperienze subite di ingiustizie, ma anche gli obiettivi da raggiungere e gli interessi da tutelare.
Nella mia opinione l’interesse primario della popolazione israeliana e palestinese è nella pace, Shalom e Salam, nello sviluppo economico e civile, in questo caso particolarmente dei palestinesi.
Problemi giganteschi, ma che possono essere aggravati se la condanna di pratiche di occupazione, di chiusura di frontiere e di massicce rappresaglie diventa accusa di genocidio e di pulizia etnica.
La popolazione araba palestinese ed araba israeliana è incessantemente cresciuta di numero, anzi settori dell’opinione pubblica israeliana temono proprio il dinamismo demografico della popolazione araba. Una grande Israele estesa alla Cisgiordania in poco tempo avrebbe una maggioranza araba e mussulmana, a quel punto il mantenimento del controllo del Parlamento e del Governo richiederebbe la negazione della democrazia, non concedendo il voto ai cittadini acquisiti ovvero deportando la popolazione.
La necessità di un processo di pace è quindi nell’interesse degli stessi israeliani, anche se il dibattito sulla natura dello Stato di Israele, se Stato ebraico o Stato per gli ebrei, è ancora in corso.
I rapporti tra sionismo e religione, sono stati burrascosi, fatto che non si può dimenticare e che dovrebbe rendere cauti spiriti laici a brandire personalità e pensatori religiosi contro il sionismo e perciò contro lo Stato di Israele.
Basta leggere i racconti di Isaac B. Singer per rendersi conto dello scompiglio portato dai sionisti, nel mondo chiuso delle comunità ebraiche in cui dominavano rabbini e zaddik.
La liberazione delle donne, lo scatenamento di energie, il desiderio di conoscenza sono stati un fattore di progresso e di normalità ebraici.
Nello stesso tempo il sionismo socialista fu un fatto di rottura nel movimento operaio con gli scontri con il Bund ed i partiti socialisti o socialdemocratici, spesso fondati e diretti da altri ebrei, come è stato anche il caso di diversi partiti comunisti nei paesi arabi, a cominciare da quello egiziano.
Ragionando di ebrei e sinistra è interessante notare ed è un dato positivo come l’origine familiare non determinasse alcun specifico orientamento ideologico, basta pensare a Rosa Luxemburg ed Eduard Bernstein ovvero a Julius Mantov e Leon Trotzky (Robert S. Wintrich, Revolutionary Jews from Marx to Trotsky, Londra, 1976).
Il sionismo politico è nato nel secolo del risveglio delle nazionalità e perciò porta con sé tutte le contraddizioni di un movimento di risveglio nazionale.
Ho già fatto l’esempio del risveglio nazionale slovacco e romeno a danno dei magiari, che vivevano in quei territori da altrettanto tempo.
Nel suo piccolo anche il Risorgimento italiano sacrificò le popolazioni slovene, croate e tedesche, che per ventura si trovavano nei confini naturali dell’Italia.
Senza questa aspirazione a riunire in un unico stato tutti i pretesi membri di una stessa comunità nazionale non si spiegherebbe l’art. 51 c. 2 della nostra democraticissima Costituzione, “La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”.
Una norma che sotto lo statuto albertino riguardava “gli italiani non renicoli” e frutto del contesto risorgimentale, affinché il Piemonte potesse diventare la terra elettiva di tutti i patrioti italiani.
Spesso l’identità nazionale si forma nelle guerre, così è stato per la Francia rivoluzionaria, quella che partorì l’idea di nazione, non fondata su un’identità di lingua, di religione o di storia, ma da un’adesione individuale ad una comunità politica.
La nazione in senso moderno si è consolidata nelle guerre in difesa della Repubblica e in quelle napoleoniche.
Nella stessa Italia non fu la partecipazione popolare alle lotte risorgimentali: si ricordano i Mille di Garibaldi non i centomila!
Fu nelle trincee della Prima Guerra mondiale e nella leva obbligatoria che si è consolidata la nazione italiana.
Proprio questa idea di nazione come atto di volontaria adesione individuale rende il sionismo un erede della Rivoluzione Francese e fa superare la critica che il popolo ebraico dei sionisti fosse una astrazione, una invenzione.
Proprio questa invenzione è il merito del sionismo, altrimenti il popolo ebreo sarebbe stato concepito come gruppo etnico e religioso, come razza: gli ebrei, invece, dal punto di vista razziale sono come i rivoluzionari ed i socialisti di origine ebraica … di tutti i colori.
L’artificiosità del popolo ebraico, come concepito dai sionisti, è smentita dalla rinascita della lingua ebraica, che è senza dubbio il fenomeno linguistico più singolare del XX secolo, come già notava Yeshayahu Leibowitz alla fine della sua vita.
Da un lato il successo di Elizer Ben Yehouda, malgrado la freddezza di Herzl, nel reinventare la lingua ebraica come lingua parlata di tutti i giorni e dall’altro la scarsa diffusione dell’esperanto, invenzione dell’ebreo lituano Zamenhof.
Se non ci fosse stato un movimento di riscatto e di identità nazionale, l’ebraico non avrebbe prevalso sullo yddish, la lingua materna della elite politica sionista.
Contrapporre i veri ebrei religiosi, sia pure Martiri Buber, ai sionisti è un’operazione intellettualmente pericolosa.
Mi pare quasi di sentire quei belli spiriti clericali per i quali gli italiani cattolici avrebbero dovuto sostenere lo Stato della Chiesa ed il giobertiano primato del Papa, piuttosto che creare uno stato italiano, dominato dai massoni e dagli anticlericali, che infatti adottarono le leggi eversive del patrimonio ecclesiastico con le leggi Siccardi.
Personalmente sarei molto cauto nel privilegiare i religiosi contro i sionisti socialisti. Cosa dobbiamo pensare di un rabbi Kahame e di quei settori religiosi, che ispirarono l’assassinio di Itzakh Rabin? O del freno per ogni processo di pace dei partiti religiosi o di movimenti come il Gush Enumin (Blocco della Fede)?
Il movimento sionista prende il nome dal Monte Sion (Har Tziyyon), una collina appena fuori dalle mura della Gerusalemme Vecchia ed il ritorno in Palestina si lega all’invocazione, che ogni ebreo, anche non osservante, fa almeno una volta all’anno “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
Costruire uno Stato per gli ebrei, ma non dovunque, tanto che la proposta di Herzl per l’Uganda fu sconfitta proprio ad un Congresso mondiale sionista.
La stessa bandiera israeliana ricorda lo scialle di preghiera, il tallit, degli ebrei osservanti.
Furono i sionisti ad istituire come organo dello Stato l’Alto Rabbinato.
La competizione/compromesso tra sionismo e religione ebraica ha condotto a situazioni paradossali in materia di naturalizzazioni e di matrimonio o al permanente contrasto sull’osservanza dello shabbat.
La creazione dello Stato di Israele ha creato un imponente esodo di popolazione palestinese, in parte forzata in parte volontaria, nell’illusione che fosse temporanea. Qualunque accordo di pace dovrà tenere conto della volontà del ritorno dei profughi e dei loro discendenti, ma parliamoci chiaro un illimitato ritorno non è né realistico, né ragionevole se la prospettiva è quella di due popoli, due Stati.
La Palestina non è l’unico caso nel secondo dopoguerra: milioni di tedeschi dai Sudeti, dalla Prussia orientale e dai territori ad est dell’Oder assegnati alla Polonia o dei Greci che hanno dovuto lasciare insediamenti millenari nei territori turchi, i musulmani indiani in seguito alla divisione dell’ex dominio britannico tra India e Pakistan, in minore misura gli italiani dell’Istria e della Dalmazia ed in tempi più recenti a Cipro in seguito all’invasione turca della parte settentrionale dell’isola.
In tutti questi casi ha prevalso la volontà politica di integrarli, non di tenerli in campi profughi.
Popolazione palestinese è stata cacciata o se ne è andata dalle terre ancestrali, ma nel contempo Israele ha accolto gli ebrei yemeniti ed etiopi e tutti gli ebrei delle comunità sefardite dei paesi arabi dalla Siria al Marocco per non calcolare i milioni provenienti dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi dell’Europa orientale, specialmente dopo le politiche antisraeliane post 1956, che sono diventate presto antisemitismo ufficiale.
Un rovesciamento di antichi rapporti, malgrado i processi staliniani, che colpirono molti dirigenti comunisti di origine ebraica, come il ceco Slausky.
L’URSS fu il secondo stato al mondo a riconoscere Israele e alla morte di Stalin il giornale del Mapam, il partito sionista socialista di sinistra forte tra i kibbutzini uscì con il titolo in prima pagina “Il sole dei popoli si è spento”. Fino al 1956 le simpatie della sinistra per Israele erano scontate, un misto di rispetto per le persecuzioni subite dal fascismo e dal nazismo, per l’eccezione democratica che Israele rappresentava in tutta l’area, per non parlare dei criminali nazisti accolti nei paesi arabi e dai loro regimi più autoritari. In seguito ha prevalso, nei settori della sinistra più legati all’Unione Sovietica, l’antiamericanismo viscerale, che si estendeva automaticamente agli alleati degli USA.
Il naturale sostegno al movimento di liberazione dei popoli si è esteso ai palestinesi, popolo oppresso e sotto occupazione militare, ma il giusto sostegno ad una causa si è trasformato in accecamento totale nei confronti non solo del Governo di Israele, ma dell’intero popolo israeliano e per estensione degli ebrei.
Ci sono episodi come la bara depositata davanti alla Sinagoga di Roma durante un corteo sindacale che segnano una rottura psicologica e politica tra ampi settori della sinistra ed Israele e la comunità ebraica.
L’accecamento fanatico ha impedito di comprendere e valorizzare quei settori israeliani, impegnati nel processo di pace, come Shalom Akshav (Pace Adesso) da un lato e di condannare la deriva terrorista ed integralista islamista delle formazioni palestinesi dall’altro.
Se si è di sinistra è inaccettabile che non si siano levate in tempo voci critiche nei confronti della corruzione dilagante nell’OLP e nell’ANP, così come la pratica corrente della tortura nelle prigioni palestinesi e le esecuzioni, senza processo, di presunti collaborazionisti, come la repressione degli omosessuali e delle voci critiche di pochi isolati intellettuali palestinesi.
Parafrasando Maxim Gorki “proprio perché sono dalla parte dei palestinesi non posso perdonare tutto quello che fanno”, così come essendo dalla parte di Israele non si può tacere di fronte a qualsiasi cosa il suo Governo faccia.
Se si può ora parlare di nazione palestinese, paradossalmente è grazie ad Israele: è un’identità nata dalla contrapposizione ad Israele. Niente di strano il sionismo è nato anche come reazione all’antisemitismo ed alla sua manifestazione più virulenta: i pogrom. L’identità nazionale palestinese corre un pericolo che prevalgano gli islamisti: la fuga dei palestinesi cristiani è un segnale preoccupante in questa direzione, così come la contrapposizione tra Hamas ed al-Fatah.
Il movimento palestinese rischia di diventare la pedina della Siria, attraverso Hezbollah e dell’Iran: quindi un movimento etero diretto da giocare sullo scacchiere internazionale accrescendo la dipendenza di Israele dagli interessi geostrategici USA.
Bisogna essere consapevoli, che porre nel piatto della sinistra italiana anche il conflitto israelo-palestinese significa gettare benzina sul fuoco in una situazione drammatica della sinistra nel nostro Paese dopo la scomparsa, di tutte le sue componenti, dai socialisti ai comunisti, dai riformisti agli antagonisti, dal Parlamento.
Tuttavia, come si dice “Hic Rhodus, hic salta” .
Milano, 5 maggio 2008Felice Besostri

1 commento:

Anonimo ha detto...

chi tenta di utilizzare il sionismo per sabotare israele ,

chi tenta di giustificare il sionismo tramite israele.

povero Israele!

eppure è così semplice: ora gli israeliani sono nazione,
un tempo non vi era nazione israeliana.

i due fenomeni (sionismo ed israele) andrebbero scissi come la nazione italiana e le invasioni dei popoli germanici nel medioevo.


saluti

anti-sionisti
non anti-israeliani



p.s.
per coloro(molti purtroppo)che usano l'antisionismo per nascondere il loro razzismo anti-ebraico: LA GALERA!