Intervista a Niki Vendola
Scritto da Redazione Tematica: Sinistra Europea
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"Il comunismo è una domanda, non certo un modello."
13/05/2008 - Niki Vendola, dopo il Comitato politico nazionale che ha deciso le modalità del congresso di Rifondazione comunista, hai ufficializzato la tua disponibilità ad assumere, al termine di questo stesso confronto congressuale, il ruolo di segretario del partito. Tu, che sei già presidente della Regione Puglia, risulti ora il solo candidato segretario. Ci riassumi le ragioni di questo passo, accolto non senza polemiche da parte di altri nell’attuale dialettica interna al Prc? Guarda, ci tengo veramente a discutere in maniera aperta della mia candidatura. Perché credo che la discussione vada liberata da qualsiasi equivoco o argomento capzioso. Io sono presidente di una cruciale regione del Sud. Svolgo un ruolo che è di grandissima delicatezza e straordinario impegno e che è considerato uno dei vertici del potere. Ora mi lancio in una sfida terribile. Ho attorno a me una comunità ferita, un partito cancellato dalla rappresentanza parlamentare, gravemente sconfitto, diviso. Chiunque volesse alludere ad un mio desiderio di “carriera” dovrebbe avere il senso dello humor. Vorrei dire che la mia scelta fosse letta per quello che è: un atto di assoluto amore nei confronti di quella casa (il mio partito) che ho contribuito a far nascere e che è diventata parte integrante della mia stessa vita.E però Paolo Ferrero, così come aveva proposto un congresso a tesi piuttosto che a documenti contrapposti, ha interpretato la tua candidatura come qualcosa di distante da un necessario spirito unitario. Che cosa rispondi? Che bisogna smetterla di giocare a quelli che gridano «al lupo, al lupo!». Certi compagni si comportano in perfetta aderenza allo spirito dei tempi, mettendo al centro della politica e delle passioni il sentimento della paura. Desidero essere molto chiaro: mi è capitato spesso di essere accusato di voler sciogliere. Anche di voler sciogliere il Pci, magari da parte di quelli che effettivamente lo sciolsero. E nella storia di Rifondazione comunista ciclicamente torna questo tormentone, che è l’argomento demagogico usato da tutti coloro i quali pensano sia sufficiente richiamarsi all’identità: come se l’identità fosse il terreno delle certezze assolute e non viceversa il cammino accidentato alla ricerca dei luoghi e dei soggetti della trasformazione. Questa visione dietrologica e complottista è sbagliata, induce riflessi viscerali ed è abbastanza improponibile da parte di chi ha usato la sconfitta elettorale per un pesante regolamento di conti interni.
L’argomento della critica alla tua candidatura, comunque, si appunta sull’annuncio immediato, all’apertura del percorso congressuale: bisogna sfuggire, si dice, al rischio d’una piega presidenzialista... Tutta questa cautela sulla questione della leadership avrebbero dovuto metterla in campo prima, in quel Cpn in cui invece hanno pensato bene di prendere un’intera leadership e di dividerla in due: una parte per esporla al bombardamento delle critiche, e l’altra invece per immunizzarla, salvagualdarla da qualunque tensione nel bilancio delle responsabilità. Devo dire che c’è qualcosa che per me ha rappresentato necessariamente davvero un vulnus insopportabile: il processo sommario a Bertinotti e Giordano è stato una spettacolo poco consono a quello che dovrebbe essere il nostro costume collettivo. E invece la correttezza di Franco (Giordano, ndr) non solo nel fare un passo indietro ma nel chiedere lo stesso a tutti i responsabili della direzione politica del partito e a tutti i suoi massimi rappresentanti, era un atto di grande lealtà. D’altronde è un classico: di fronte ad uno sconquasso di tali proporzioni si può reagire in due modi, o aprendo un confronto libero e vero, spietato ma anche capace di stringere la rete della solidarietà, oppure precipitando in una faida interna agli apparati e ai gruppi dirigenti. Io mi sono permesso qualche minuto dopo la sconfitta elettorale di dire in conferenza stampa: per piacere, compagne e compagni, non cerchiamo i colpevoli ma cerchiamo tutti insieme le cause. Purtroppo quest’appello è caduto nel vuoto. E allora oggi chiedo a tutti, per lo meno, di archiviare le ipocrisie. Naturalmente, a tutti e a cominciare da me stesso, chiedo uno sforzo supplementare per mettere al centro il tema vero della discussione congressuale.Ecco: qual è, per te, l’oggetto politico fondamentale di questo congresso? E’ cosa dovrà essere questo partito in una stagione culturale e politica così segnata dall’egemonia delle destre. E’ il “che fare” in questo vuoto pneumatico di rappresentanza politica delle domande di sinistra.Bene, ma prima di sviscerarlo, approfitto della tua risposta per soffermarci ancora un momento sulle divisioni attuali: ancora Ferrero dice, mi pare, che non c’è vuoto pneumatico ma una diversità di soggetti politici. E che dunque «la costituente della sinistra» dividerebbe, tanto che la chiama «socialista» per dire che tende ad escludere «i comunisti»: mentre al contrario servirebbe «una casa più grande, dove possano stare tutti». Tu che ne pensi? Vorrei diffidare tutti dall’inabissarsi nelle dispute nominalistiche. E guardiamo e cose che sono dietro le parole. La federazione come modello di elazione tra i diversi soggetti della sinistra è esattamente l’opzione che ha ortato all’esperienza fallimentare de “la Sinistra l’Arcobaleno”. Prendi quel oco che c’è, lo sommi e magari cerchi una cartolina illustrata che evochi n’ipotesi di convivenza. Ma questo è davvero il modo di sfuggire al grande tema che è quello di come si ricostruisce una sinistra di popolo.La quale invece cosa e come sarebbe? Intanto, il contrario della somma algebrica delle cose talvolta contraddittorie che sono in campo. Il problema, invece, è il processo costituente di questa sinistra di popolo. Il processo costituente non è la convocazione di un’assemblea che fa nascere chissà che cosa: è un processo di costruzione, nella politica e nella società, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, nelle scuole, in tutte le comunità, di reti che mettano in collegamento sensibilità, culture, esperienze, conflitti. A partire dal confronto con quel dato sconvolgente che è la mutazione di tutte le forme di comunità, da quella urbana a quella di lavoro. In quell’ipotesi che abbiamo ad un certo punto condiviso, quando parlavamo di nuova soggettività unitaria e plurale, non stavamo pensando ad un partito: altrimenti, l’avremmo chiamato apertamente così. Il tema di come si ricostruiscono le forme dell’agire politico di massa, noi ce lo siamo già presentato quando c’era il Pci che, diciamo, le masse le frequentava: intendo per noi quelli come me che hanno criticato la forma partito e le sue liturgie. Il punto oggi è fare politica da sinistra in una società disgregata e atomizzata, in un mercato del lavoro che frammenta le grandi identità collettive, in una condizione urbana che ferisce i legami sociali, in una crisi radicale di tutti quei consorzi umani che sembrano ormai abitati dalla lingua del trash della tv commerciale. E’ un tema gigantesco quello che abbiamo di fronte, altro che piroette politicistiche, voli pindarici - sciolgo un partito, ne faccio un altro...; quasi si trattasse di stare in laboratorio a giocare con l’alchimia del politico. E’ esattamente il contrario. L’assillo è: come si riconnette la politica alla società, come la politica diventa principio di identificazione dei corpi sociali.
A proposito di crisi dei consorzi umani: non pensi che la ricostruzione di un linguaggio politico debba anche riconoscere nuove forme di vita, di relazione, nuove pratiche e identità sociali? Assolutamente sì. Le nozioni di spazio e di tempo sono saltate. Quando si dice oggi “territorio” non si può pensare ad un’entità statica. Anche Beppe Grillo occupa un territorio, a partire dal suo blog. Non c’è più una relazione meccanica tra territori e comunità, anzi ce ne sono di molto abitati ma senza comunità, compresi tanti territori del lavoro. Uno potrebbe dire: e se non c’è comunità, come potrebbe mai esserci comunismo? Il filologo, se non trova più la radice non solo etimologica ma materiale, non sa dare più significato alla parola. Allora, il tema è la rifondazione dei consorzi umani e della loro possibilità di liberazione. Aggiungo che questo comunismo oggi si propone necessariamente come una grande ricerca, una grande domanda: perché se si presentasse come l’organizzazione d’un campo internazionale o d’un modello da emulare, saremmo non alla reiterazione delle tragedie del passato ma al grottesco. Lo dico perché le miniature caricaturali dell’internazionalismo del Novecento oggi si presenterebbero come l’esatto contrario rispetto alla cultura del movimento altermondialista. E poi: non è che noi possiamo essere pacifisti contro gli Usa e muti rispetto alle politiche di iper-armamento di altre parti del mondo.Non è che siamo super-ambientalisti rispetto alla produzione di emissioni di anidride carbonica da parte dell’Occidente industrializzato, e siamo poi muti rispetto all’industrializzazione in corso in Cina e ai suoi effetti ambientali. E non è che i diritti umani possono avere un peso differenziato a seconda della collocazione sul mappampondo della loro violazione. Insomma: non si può più parlare con lingua biforcuta. La menzogna non può mai e in nessun caso essere giustificabile perché c’è una prospettiva salvifica davanti a noi. Il registro delle doppie verità, o meglio della doppiezza, è elemento d’una storia che io considero finita. E’ il mondo intero con le sue contraddizioni e i suoi dilemmi che ci propone la necessità d’un discorso di verità da costruire. Verità sui rapporti di produzione, sulle aggressioni alla biosfera, sulla violenta gerarchizzazione dei rapporti tra i generi sessuati, sul contenuto crescente di violenza nella cultura generale del nostro tempo. Dunque, siamo chiamati a pensieri lunghi. E contemporaneamente a tenere i piedi ben piantati per terra...A proposito: volevo proprio chiederti se c’è qualcosa da dire su che si fa qui ed ora, in Italia, da quest’estate 2008... Certo che c’è. Ci sfida l’agenda del governo Berlusconi, dal federalismo fiscale alla psicosi dell’insicurezza, dall’attacco all’autonomia del conflitto sociale alla paura delle nuove libertà e delle nuove soggettività. Ma c’è molto di più, per l’agenda nostra. C’è ciò che della vita delle giovani generazioni ci racconta la tragedia di Verona. C’è quella mutazione antropologica che si intravede nella quotidiana ripetitività del bullismo adolescenziale, che indica davvero un buco nero di umanità e di valori. E’ paradossale: la crisi del nostro tempo è talmente radicale che chiede pensiero forte e radicali risposte. Berlusconi ha vinto con la forza del suo radicalismo - populista, liberista, piccolo borghese. Ha vinto esiliando i centristi dalla sua coalizione. Ha vinto sconfiggendo l’immagine più imprenditoriale e antiradicale del centrosinistra, come quella di Riccardo Illy. Ha vinto presentando per il governo della capitale l’ideal-tipo della destra sociale e radicale, Alemanno. E il Partito democratico è apparso persino inconsapevole di quale fosse la qualità della sfida e di quale fosse il terreno su cui da lungo tempo si andava consumando una sconfitta. Il Pd ha giocato a nascondino, ha occultatato tutto ciò del proprio patrimonio che potesse essere ricondotto alle parole della sinistra. In questa stagione della politica italiana, in questo tornante della politica europea e in questa drammatica fuoriuscita ancora in corso dal Novecento, c’è una necessità vitale di immettere un’analisi e una strategia che vadano alle radici del passaggio d’epoca. Questa è la radicalità di cui abbiamo bisogno: non una radicalità parolaia, agitatoria, organizzativistica, minoritaria. Serve un cantiere aperto, un partito del coraggio, una comunità che non ripiega sul proprio ombelico.
Quanto al Pd, chi ti critica dice che il processo costituente d’una grande sinistra ne sarebbe necessariamente subalterno. Ci sono molti modi di essere subalterni: per esempio un’opposizione fatta di vuoto estremismo è sicuramente un regalo al Pd. Avere interlocuzione politica nel campo delle forze democratiche è il contrario della subalternità. Vorrei ricordare che Gramsci invitava a coltivare curiosità per le ragioni dell’avversario, persino per cercarne la verità interna. E che il tema della coalizione anche con le forze borghesi a mia memoria per primo l’ha posto uno che si chiamava Karl Marx. Come ci comportiamo, se si apre una dialettica interna al Pd su temi dirimenti, per esempio di fronte al tentativo di uccidere l’autonomia del sindacato in Italia? E se il Pd dovesse convergere con la Pdl su una legislazione da “sorvegliare e punire”, dando forma al delirio securitario, per noi sarebbe un vantaggio? E se invece fa una battaglia politica differente, per contrastarla, sarebbe per noi uno svantaggio? Non è che siamo più forti se siamo da soli a gridare. Non siamo il Battista, che grida nel deserto perché lo sentiranno nei secoli a venire; un partito comunista il deserto lo attraversa per arrivare alla città, perché deve riorganizzare la speranza, perché la voce deve darla a molte e a molti.
Senti, Niki: non avverti la necessità di rispondere anche ad un altro genere di paura che scorre nella comunità-Prc e anche fuori, ossia che si divida ciò che già è stato sconfitto? Come rispondi? Mi rivolgo alle compagne ed ai compagni per dire: tutti insieme mettiamo al bando tra di noi tutto ciò che non è politica e che invece appartiene alla militarizzazione del confronto. E non consideriamoci esaustivi della sinistra. Per mostrarcene coscienti, apriamo una campagna di tesseramento. A chi all’esterno è sgomento per la scomparsa della sinistra politica, che si è materializzata, chiediamo un gesto importante: è il momento di allargare Rifondazione comunista, chiediamo che ci sia una nuova leva di iscritte e di iscritti che ci aiuti a trovare la strada. E soprattutto apriamoci all’esterno. Non possiamo discutere oggi chiusi in una stanza, ma spalancati all’esterno, alle realtà giovanili, al volontariato, al sindacato. Senza questi mondi vitali non valiamo più d’un cactus. Abbiamo bisogno di ossigeno, di relazioni ariose. Una sinistra di “duri e puri”, che s’accontenta di percentuali da prefissi telefonici, a qualcuno può interessare, a me no: m’interessa un soggetto, anzi un insieme di soggetti che diano rappresentanza a quel che dal sistema di potere non è più previsto l’abbia. Una soggettività che dia voce alla precarietà dell’esistenza, ben oltre il lavoro. Vedi: quando c’è una sinistra che almeno prova ad essere così, ci possono essere anche altre mille piccole esperienze minoritarie. Al termine dell’onda degli anni 70, quando c’era il Pci, vi era una costellazione di piccoli gruppi. Ma noi, oggi, è proprio una grande sinistra di popolo che dobbiamo costruire, per il futuro.
di Anubi d’Avossa Lussurgiu su” Liberazione” del 13 maggio 2008
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