Estremo Occidente
Oggi 28 maggio 2008, 3 ore fa
Sindacato “bianco”, padronato indiano
Oggi 28 maggio 2008, 3 ore fa rampini
Proletari del mondo intero unitevi: lo slogan lanciato 160 anni fa da Karl Marx e Friederich Engels nel loro Manifesto sembra riecheggiare dietro l’annuncio della più grande fusione tra un sindacato inglese ed uno americano. Col matrimonio tra la confederazione britannica Unite e quella americana United Steelworkers nasce la più grande sigla sindacale intercontinentale. Le classi operaie dei due paesi che furono la culla del capitalismo si uniscono per difendere meglio i propri diritti. Quello che Marx non poteva prevedere, è il tipo di minaccia che costringe i colletti blu angloamericani a serrare i ranghi: è un nuovo capitalismo nato dalle ex colonie dell’impero britannico. Sempre più spesso il padrone dei metalmeccanici “bianchi” viene dall’India. Per negoziare con multinazionali esotiche il movimento operaio è costretto a ripensare i propri confini organizzativi. La fusione è un progetto più ambizioso delle alleanze che in passato hanno riunito i sindacati di matrice cattolica (Cisl) o socialcomunista (Cgil). Stavolta inglesi e americani puntano più in alto. Derek Simpson, segretario generale di Unite, parla di “creare un vero sindacato internazionale, che sia capace di trattare con le imprese globali su un piede di parità, e di mobilitare insieme i lavoratori dei due paesi”. In Gran Bretagna la Unite ha 1,8 milioni di iscritti in tutti i settori dell’industria manifatturiera. La United Steelworkers americana ha 850.000 iscritti, con un nocciolo duro nel settore della siderurgia. E’ significativo che sia proprio da questo bastione storico della classe operaia a nascere il supersindacato transatlantico. Perché l’industria dell’acciaio – che a lungo fu considerata un metro per misurare il livello di sviluppo economico dei paesi – è ormai dominata dai capitalisti indiani. Le acquisizioni dei giganti asiatici sono state travolgenti negli ultimi anni. Il gruppo Mittal ha comprato diversi nomi storici della siderurgia americana, tra cuila Betlehem Steel, prima di conquistare il numero uno delle acciaerie europee Arcelor (esteso in Francia, Spagna, Belgio e Lussemburgo): con 225.000 dipendenti ha ormai una leadership planetaria. La Essar guidata da Shashi Ruia ha rilevato di recente le acciaerie Esmark negli Stati Uniti. La Tata Steel ha conquistato l’acciaeria inglese Corus. Inoltre la società di Ratan Tata è anche la nuova proprietaria di Jaguar e Land Rover e quindi è uno dei principali interlocutori dei sindacati metalmeccanici inglesi. In quanto agli Stati Uniti, il gruppo Tata vi realizza una percentuale del suo fatturato superiore a quella della Ibm. Il dominio assoluto degli indiani nel business degli altiforni ha una logica economica stringente. L’evoluzione della siderurgia segue in parallelo quella dei suoi mercati di sbocco. E oggi i grandi consumatori dell’acciaio sono le industrie manifatturiere dei paesi emergenti, Cina e India in testa. Mittal, Tata, Essar, sono cresciuti come i fornitori privilegiati per le fabbriche di automobili e i cantieri edili nelle superpotenze asiatiche. Per i loro dipendenti europei e americani la sfida è notevole. Bisogna negoziare salari e contratti con un padronato che non solo ha le sue sedi direzionali all’estero, ma per di più proviene da paesi dove le condizioni di lavoro e le conquiste operaie sono ben diverse. Questo non significa che il capitalista indiano sia per forza un interlocutore ostile. Il gruppo Tata, fondato quando l’India era una colonia di Sua Maestà, concesse le ferie retribuite, scuole e ospedali gratis ai suoi operai molto prima che le Unions e il Labour Party ottenessero conquiste simili nella patria della rivoluzione industriale. Oggi tuttavia nelle loro acquisizioni in Occidente questi gruppi seguono rigorosi criteri di redditività che possono portare a decisioni dure. Ne sa qualcosa il presidente Nicolas Sarkozy: in occasione del suo ultimo viaggio ufficiale in India è stato il protagonista di un furioso battibecco con Lakshmi Mittal, reo di aver deciso licenziamenti collettivi nelle acciaierie francesi del gruppo Arcelor. La fusione tra Unite e United Steelworkers segnala il livello del disagio sociale nei paesi più ricchi. Come si è visto durante le primarie democratiche, nelle zone a vecchia industrializzazione degli Stati Uniti si respira una profonda disillusione verso i benefici della globalizzazione. Ora che sono scesi in campo altri attori e l’America non impone più le sue regole del gioco, la reazione è brutale. I sindacalisti sono gli interpreti di questa paura. Il matrimonio angloamericano tra le due Unions punta a “proteggere i lavoratori minacciati dal dilagare del capitalismo globale”. Secondo Simpson le nuove multinazionali “spingono al ribasso i nostri salari, e tentano di dividerci opponendo i lavoratori di un paese a quelli di un’altra nazione”. La penetrazione del capitalismo indiano non si limita al settore metalmeccanico. E’ di ieri la notizia di un’altra acquisizione nel cuore dell’ex potenza coloniale inglese: il gruppo di telecom Vanco è finito nelle braccia dell’indiana Reliance controllata dalla famiglia Ambani. Gli investimenti cinesi all’estero hanno raggiunto la cifra record di 19,3 miliardi di dollari da gennaio a marzo di quest’anno, superando così in un solo trimestre il volume di investimenti di tutto il 2007. In America diecimila dipendenti della divisione personal computer Ibm hanno già imparato a convivere con un padrone cinese. L’alternativa a questa invasione dei capitalisti asiatici non è allettante: secondo l’ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder, “fino a 40 milioni di lavoratori americani nei servizi dovranno fronteggiare la concorrenza indiana”. Forse è meglio addestrarsi a negoziare con i loro chief executive qui, a casa nostra.
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