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Pensieri sul dopo elezioni
Giunio Luzzatto*, 09-05-2008
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L’area riformista/progressista è in gravi difficoltà in gran parte d’Europa. E ciò non sembra neppure dipendere in modo determinante dalle formule di governo adottate dal partito socialdemocratico, che ovunque rappresenta tale area: i pessimi risultati, appena giunti, dei laburisti inglesi nelle amministrative riguardano un governo monocolore, quelli da tempo verificati in Germania in numerose elezioni di Länder riguardano una Grande Coalizione. Nel nord scandinavo sono in mano ai conservatori Paesi ove la socialdemocrazia è stata al potere per decenni, la situazione francese è nota; ci resta Zapatero …
Colpisce il fatto che tutto ciò accade in un momento nel quale il dogma del mercato-e-basta, che pareva ormai indiscutibile nell’Occidente capitalista, mostra la corda: la destra non è più tutta allineata sul “pensiero unico”, e in alcune sue parti giunge a richiedere “più Stato”. Ma il centro-sinistra non riesce ad approfittare di questa vera e propria crisi delle fondamenta del vangelo iper-liberista.
La tendenza, che i riformisti hanno perseguito, a rincorrere i moderati sul terreno di questi ultimi non sembra apportatrice di successi. Si è detto che le parole d’ordine della sinistra non solo marxista, dalla tutela del lavoro al welfare State, erano vecchie, e che occorreva modernizzarsi; ma sul terreno del dominio dell’individualismo rispetto alla socialità gli elettori mostrano di preferire l’originale rispetto all’imitazione. Aver accreditato, da parte di molti, l’anacronismo della stessa categorizzazione destra/sinistra non dà frutti: in Germania si rafforza fortemente proprio chi esplicitamente si chiama Linke.
La vera sfida è nella ricerca di risposte diverse certo da quelle del passato (se non altro perché il lavoro non è più fordista), ma radicalmente diverse anche da quelle di destra. Un esempio: prioritario dovrebbe essere ridurre la forbice tra gli alti e i bassi redditi, che in tutto il mondo occidentale si è invece ampliata. Il carattere globale dei mercati finanziari rende probabilmente impossibile far molto, in questa direzione, a livello nazionale; la sinistra dovrebbe battersi per maggiori poteri sovranazionali finalizzati a un governo “sociale” dell’economia. Quando nella U.E. 13 governi sui 15 di allora erano di centro-sinistra (sono passati pochi anni, e sembra impossibile…) si è persa una occasione storica non operando unitariamente nella direzione di istituzioni europee realmente democratiche e dotate di poteri.
Quanto sopra è stato richiamato non per consolarsi sul risultato italiano nella logica del “mal comune, mezzo gaudio”, ma per evidenziare che sfumare le differenze rappresenta, ovunque, una scelta perdente. Qui invece non solo abbiamo avuto il terrore nell’uso della parola sinistra (forse Bobbio era un sovversivo...), ma il partito che vuole rappresentare da solo, in quanto “a vocazione maggioritaria”, l’area progressista non è neppure in condizione di dichiarare, senza se e senza ma, che si colloca a Bruxelles/Strasburgo tra i socialisti europei (i quali, si noti, anche lì sono centro-sinistra, perché esiste un gruppo di sinistra radicale).
Abbiamo avuto inoltre il problema della collocazione sia del PD sia dell’Arcobaleno rispetto alla coalizione e al governo Prodi. Esso è stato affossato dai moderati, ma era stato attaccato per due anni da Rifondazione e PDCI; nella campagna elettorale, il PD cercava di far dimenticare il governo, e quando ciò era proprio impossibile ne difendeva debolmente alcuni risultati, attribuendo tutte le colpe alla natura della coalizione. Ma questa attribuzione era generica: nella illusione rivelatasi vana di acquisire voti “al centro” si è rinunciato ad attaccare a fondo Mastella e Dini non solo per la loro scelta finale, ma soprattutto per aver sabotato per due anni l’attuazione del programma nelle parti più qualificanti (sistema televisivo, conflitto di interessi, minore precarietà nel lavoro). In ogni caso, l’elettorato (giustamente!) non permette che chi ha governato si defili dalle proprie responsabilità: alla sconfitta del 2001 aveva contribuito l’auto-sconfessione dei propri governi (3 diversi Primi Ministri nella legislatura 1996-2001, e come candidato premier un quarto), e questa volta ci si è comportati in modo analogo. (N.B. - Quel candidato perdente è stato ora riproposto a Roma: il bis in idem era forse prevedibile.)
Si attribuisce la sconfitta, almeno in parte, a una insufficiente attenzione alla domanda di sicurezza da parte dei cittadini; in realtà, i DS (meno gli altri) hanno cercato di dire che anche noi siamo contro la criminalità piccola oltre che contro quella grande, ma lo hanno detto con l’inefficacia che caratterizza chi accetta di collocarsi sul terreno degli altri. La sinistra dovrebbe porre con forza il problema della legalità, nonché della certezza della pena, a tutti i livelli, iniziando dai più alti: che si è fatto sulla criminalità economica, sulla pressoché totale scomparsa dei reati finanziari dal codice penale, sulla possibilità -per chi si può permettere avvocati di grido- di scalare i diversi gradi di giudizio fino alla prescrizione? Si tace perché insieme agli altri si è fatto l’indulto, insieme agli altri si è difesa la casta circa le “garanzie” atte a impedire indagini sui potenti; e si finisce con l’essere poi in imbarazzo quando si vede sanzionato duramente il piccolo spacciatore o il venditore di articoli contraffatti mentre è indenne il falsificatore di maxibilanci.
La delusione rispetto al governo Prodi deriva anche dall’eccesso di aspettative che erano state suscitate da una opposizione più di lotta che di governo nel quinquennio precedente. La mobilitazione, peraltro positiva, in tutto quel periodo ha così determinato la convinzione che all’indomani delle elezioni 2006 si potessero attuare drastici interventi immediati: per cancellare le leggi ad personam, sulle quali è gravissimo essere poi stati inerti, ma anche per modificare radicalmente o abrogare leggi quali Maroni-pensioni, Biagi, Bossi-Fini, Moratti, sulle quali cautele e gradualismi erano probabilmente necessari.
Ben venga, perciò, la costituzione del governo ombra: in una logica di democrazia compiuta l’opposizione sa di poter diventare governo, e deve pertanto costruire strategie che non rischino di essere ingestibili in un domani. Peraltro, e Libertà e Giustizia può dare un grande contributo in questa direzione, occorre che il lavoro del governo ombra si caratterizzi non come azione di partito, bensì come elaborazione comune di quanti si collocano nell’ottica di una sinistra riformista di governo. Al proposito, è decisivo il coinvolgimento della società civile (tutti hanno rilevato c’è stato un grande distacco tra PD e società, occorre allora operare per superarlo), ma occorre anche una riflessione sulla Sinistra Arcobaleno, sui suoi elettori e ancor più sui mancati elettori (suoi, ma anche del PD).
Nell’analisi del crollo della Sinistra Arcobaleno non è stata quasi mai citata la causa prima, la pretesa cioè di una missione impossibile: tenere insieme chi vuole contribuire al governo, pur da posizioni di “fermezza” riformatrice, e chi ama la mera opposizione dei duri e puri. Un esempio: nella sua azione di ministro Mussi -pur commettendo il grave errore di creare un eccesso di divario tra “annunci” e fatti- ha tentato un’opera riformatrice seria mirante alla qualità e al rigore nell’università e nella ricerca, esattamente il contrario della demagogia e del lassismo dei suoi alleati. Il governo ombra deve costituire allora uno strumento concreto per aprire un dialogo con quella parte dell’area non più rappresentata in Parlamento che vuole, senza ambiguità, puntare a un governo riformatore.
Non si tratta di offrire incarichi di finto ministro: il Cencelli sui posti-che-non-ci-sono non avrebbe senso! Si tratta invece di dare peso, molto più che ai ministri-ombra, al complesso di persone che, con le loro diverse storie, sono in grado di apportare competenze contribuendo al lavoro comune: in molte organizzazioni e associazioni (penso che Libertà e Giustizia sia tra queste) non vi è sostanziale divisione tra chi si colloca pienamente nel PD e chi si sente ancora “ulivista” in termini più ampi.
Un’ultima considerazione: la prossima scadenza elettorale sono le europee 2009. Guai se le si considerasse una mera occasione per provare a risalire la china delle percentuali italiane. Per i motivi accennati sopra, occorre un salto di qualità: i socialisti e i progressisti europei facciano unitariamente una proposta coraggiosa, al di sopra dei Paesi. Non lo hanno mai fatto perché dominati dalla paura che le rispettive opinioni pubbliche siano ancora troppo legate agli interessi nazionali; dovrebbe essere invece ormai chiaro che o si riesce - con una battaglia culturale prima ancora che politica - a modificare questo atteggiamento, o si continuerà a perdere. Gli Italiani hanno sempre avuto minori timori al riguardo e possono perciò assumere una iniziativa forte: nei nomi, cari a molti di noi, di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi.
*Giunio Luzzatto del coordinamento LeG Genova, è Professore Ordinario di Analisi Matematica presso la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali di Genova. È presidente del CARED (Centro di servizio d'Ateneo per la Ricerca Educativa e Didattica) dell'Università di Genova e della CONCURED (Conferenza Nazionale dei Centri Universitari per la Ricerca sull'Educazione e la Didattica). Dal 1998 è membro della Commissione di coordinamento del MURST per l'attuazione dell'autonomia didattica.
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