Il compagno Tremonti e il professor D’Alema
Pubblicato da Gad
14.05.2008
Questo articolo è uscito su “Vanity fair”.Il compagno Giulio Tremonti consiglia alla sinistra di rileggere Marx e i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Ma nel frattempo, lui che li ha già studiati e liquidati in gioventù prima di diventare un fiscalista dell’establishment e di accompagnare l’uomo più ricco d’Italia nella conquista del paese, preferisce rivolgersi al popolo con ben altro armamentario: Vico, Burke, Herder, de Maistre, cioè i custodi della tradizione del “sangue e suolo”, avversari delle idee rivoluzionarie degli illuministi, teorici della disuguaglianza fra popoli legittimati nel culto delle origini, dotati ciascuno di radici e spiritualità differenti.La parabola intellettuale con cui il compagno Giulio Tremonti è diventato l’uomo più à la page d’Italia, merita di essere studiata in parallelo con quella di un coetaneo che gli somiglia nell’amore di sé e nella competenza professionale: il professor Massimo D’Alema, suppongo anch’egli a suo tempo buon lettore di Marx e Gramsci.Non ho sbagliato a scrivere: lo so che fino a una decina d’anni fa il professore era Tremonti e il compagno D’Alema. Ma l’inversione dei ruoli appare oggi compiuta, e ci racconta perfettamente il cambio di stagione.D’Alema era il capo di una comunità popolare riunita intorno all’ideale comunista, orgogliosa di essere riuscita a tutelare e migliorare nel dopoguerra le condizioni di vita delle classi lavoratrici italiane. Ma ha perseguito il distacco da quel ruolo di capopopolo, ritenuto insufficiente al perseguimento del governo. Così D’Alema, benché sia ingeneroso caricargliene per intero la responsabilità, passerà simbolicamente alla storia come il capopopolo trasformato in tecnocrate sotto il cui regno le classi lavoratrici hanno perso quote di reddito e sono state relegate ai margini della società. Una macchia biografica che, essendo D’Alema uomo d’onore, sono certo gli pesa più di una sconfitta elettorale.Mentre il capopopolo D’Alema si faceva tecnocrate, e oggi dirige una Fondazione di teste d’uovo bene inserite nel potere, Tremonti perseguiva il cammino inverso. Giunto in Parlamento da “tecnico” isolato, forte solo di buoni agganci nei consigli d’amministrazione, nell’accademia universitaria e in via Solferino, lui s’è messo di buona lena in cerca di un popolo. Non so quanto abbia dovuto fingere, nella relazione “macho-cameratesca” instaurata con la leadership leghista che vedeva in lui il novello Gianfranco Miglio, l’interprete raffinato del Volk: fatto sta che ci è riuscito talmente bene da essere oggi l’unico esponente di Forza Italia detentore di una forza autonoma, che gli consente perfino di divertirsi strizzando l’occhio a sinistra. Vedete dove sono arrivato? Mi trovo qui anche perché vi ho saputo rubare il mestiere, oltre a una quota di voti operai.Sentendosi vincitore, il compagno Giulio Tremonti vuole apparire saggio e generoso. Aspira all’egemonia culturale, certo com’è che la deroga da lui proposta alle regole internazionali del libero mercato, non possa che trovare consenzienti i sindacati e la sinistra di fronte alle insidie della globalizzazione. Stavolta, insomma, se ci sarà da litigare con Bruxelles sul deficit di bilancio, o da violare le norme sulla concorrenza per tutelare l’italianità di un’impresa piuttosto che fornire degli aiuti di Stato, lui conta di essere sostenuto pure dagli avversari cui dedica sarcastici consigli bibliografici.Peccato che l’intera operazione tragga la sua fattibilità esattamente dalla sconfitta delle classi lavoratrici di cui Tremonti si presenta paladino. Un ventennio di impressionante erosione della quota di ricchezza nazionale destinata agli stipendi. Ben 8 punti di Pil trasferiti a favore dei profitti dal 1995 in qua, uno smottamento epocale.E’ su questa debolezza, sullo sfrangiamento della condizione operaia e precaria che il compagno Tremonti ruba il mestiere all’ex compagno D’Alema e promette simbolica riscossa: guai ai banchieri e ai petrolieri! Il governo del popolo –guidato dal nuovo padrone d’Italia- proteggerà magari la corporazione dei tassisti romani ma sarà implacabile con le rendite di posizione delle famiglie che contano. Un approccio molto latinoamericano: che il popolo sazi il suo malessere riconoscendosi nei suoi giustizieri. Ma nel frattempo che li andiamo a prendere –quei Moratti, Garrone, Brachetti Peretti, Profumo, Bazoli- si rimbocchi le maniche e faccia più straordinari detassati.
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