venerdì 16 maggio 2008

pescati nella Rete: contro la detassazione degli straordinari

Dal sito www.lavoce.info

CONTRO LA DETASSAZIONE DEGLI STAORDINARIdi Matteo Richiardi 13.05.2008
Nonostante sembri mettere tutti d'accordo, il provvedimento ha evidenti conseguenze negative. Svantaggia i lavoratori più deboli che fanno comunque meno straordinari e che avranno più difficoltà a trovare un lavoro. A guadagnarci saranno soprattutto le imprese, che riusciranno per questa via a ottenere un abbassamento del costo del lavoro e una maggiore flessibilità di utilizzo della manodopera. Se si vuole rendere più competitivo il nostro paese intervenendo sul costo del lavoro, si può farlo in modi diversi e più efficaci. Per esempio, abbassando le tasse sul lavoro.
Una delle promesse con cui Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni è quella di detassare gli straordinari. Confindustria tiene molto alla proposta e anche i sindacati sembrano interessati, dal momento che i primi a esserne beneficiati dovrebbero essere proprio i lavoratori, anche i sindacati sembrano interessati. Il Sole 24 Ore cita, per esempio, il caso dell’operaio metalmeccanico che guadagna 1.300 euro lordi al mese e che potrebbe guadagnare fino a 580 euro in più se svolgesse tutte le 250 ore di straordinario previste dal contratto, che arriverebbero a 610 euro se si considerasse anche il risparmio sulle addizionali comunali e regionali all’Irpef.
PERCHÉ È SBAGLIATO
Eppure, le conseguenze negative di un tale provvedimento dovrebbero essere evidenti a chiunque mastichi un po’ di economia.I punti principali per cui la detassazione degli straordinari è sbagliata sono diversi: (1) la misura introduce una distorsione nel funzionamento del mercato; (2) tale distorsione penalizza i lavoratori più deboli e avvantaggia invece quelli più forti, riducendo la progressività del sistema fiscale; (3) in ultima analisi a guadagnarci sarebbero soprattutto le imprese, che riuscirebbero per questa via a ottenere non solo un abbassamento del costo del lavoro, ma anche una maggiore flessibilità di utilizzo della manodopera (4) ciò configurerebbe l’ennesimo esempio di riforma “al margine”, ovvero una riforma che invece di rimediare a eccessi e distorsioni della normativa, trova scappatoie che introducono nuove distorsioni e nuovi problemi; (5) la riforma sembra ispirata da una visione ideologica della società e del ruolo dei cittadini, in cui “lavorare è bene e lavorare di più è meglio”, a prescindere da una seria analisi che evidenzierebbe al contrario come i workaholics andrebbero invece disincentivati, se si guarda al benessere della società. Questo a prescindere dai costi per l'erario che non sono indifferenti (1). I primi due punti sono i più ovvi: privilegiare il trattamento fiscale degli straordinari ne favorisce il ricorso. Ma gli straordinari sono appannaggio quasi esclusivo dei lavoratori più “forti”: maschi, più qualificati, giovani o comunque non anziani. La misura non favorirebbe dunque se non marginalmente i lavoratori “deboli”, proprio quando il grosso problema del mercato del lavoro italiano continua a essere costituito dai bassi tassi di occupazione di donne, anziani, eccetera. A titolo di esempio, ricordiamo che i tassi di occupazione femminile in Italia sono i più bassi d’Europa (a 25 paesi), con l’eccezione di Malta, e che più di una donna su due in età di lavoro sta a casa. Inoltre, il vantaggio fiscale è crescente con il crescere delle aliquote che verrebbero “risparmiate”, e quindi con il reddito dei lavoratori, il che riduce la progressività. Ad esempio, un lavoratore con aliquota marginale del 23 pe cento “porta a casa” per ogni ora di straordinario un salario netto maggiorato del 29,9 per cento grazie all’esenzione; aliquote superiori (rispettivamente: 33, 39 e 43 per cento) si accompagnano a benefici significativamente superiori (rispettivamente: 49,3, 63,9 e 75,4 per cento del salario netto).Tuttavia, se è vero che il lavoratore risparmia l’Irpef, è pur vero che l’impresa paga un costo del lavoro superiore: in generale infatti il lavoro straordinario è pagato di più - il 50 per cento di più nei giorni lavorativi (al di fuori del normale orario di lavoro), e addirittura il doppio nei weekend e nei giorni festivi. (2) Fatta 100 la retribuzione lorda di un operaio di una grande industria, il costo del lavoro ordinario per l’impresa è pari a 132, mentre quello del lavoro straordinario, con retribuzione lorda incrementata a 150, è pari a 198. Dove sono dunque i vantaggi per le imprese? Ci sono, certo che ci sono. E provengono da due fonti. Per prima ll’impresa può appropriarsi di una parte almeno dei vantaggi derivanti dall’esenzione, lasciando quindi i lavoratori indifferenti rispetto alla proposta di riforma, potrebbe pagare lo straordinario come un’ora di lavoro normale già a partire dallo scaglione del 33 per cento, e realizzerebbe uno sgravio nel costo del lavoro a partire dagli scaglioni successivi.Ma soprattutto il ricorso al lavoro straordinario è flessibile per definizione, e può essere aumentato o diminuito a piacere senza incorrere in alcun tipo di sanzione o conflitto. In altri termini, prima di assumere una nuova persona l’impresa può prendere in considerazione l’ipotesi di chiedere lo straordinario ai suoi dipendenti. Il maggior costo del lavoro straordinario, nonché la riluttanza dei dipendenti a fornire lavoro straordinario oltre una certa misura, determina la soglia oltre la quale il gioco non è più possibile, e l’impresa decide di assumere. La detassazione degli straordinari modifica gli incenti di impresa e lavoratori nella direzione di favorire la sostituzione di lavoro " normale" con lavoro straordinario: in altre parole un trade-off tra ore di lavoro per dipendente e numero di dipendenti. Non solo dunque i lavoratori più deboli risultano svantaggiati perché fanno meno straordinari, ma anche perché hanno più difficoltà a trovare un lavoro (a parità di domanda): lavorare di più, lavorare in meno. Il passo successivo sarà allora quello di contrattare un orario di lavoro “ordinario” più breve, con una retribuzione di base inferiore, in modo da poter incrementare ulteriormente il ricorso al lavoro straordinario, e flessibile. Ci guadagneranno le imprese e i lavoratori “forti”, a prezzo però di una forte riduzione del tempo libero, ci perderanno i lavoratori “deboli”. (3)
IL PRECEDENTE FRANCESE
Esiste un precedente, che sicuramente sarà ben presente a Berlusconi: la detassazione degli straordinari realizzata da Nicolas Sarkozy. Eppure, molti commentatori (4) sono critici rispetto a questa misura, valutandola positivamente solo in quanto permette di superare il limite delle 35 ore settimanali, che in Francia è diventato un baluardo dei sindacati difficilmente attaccabileMa ha senso contrapporre al mito della settimana corta quello di Stakanov?È vero che in Italia le settimane lavorative sono più corte che altrove: la media è di 37 ore, più bassa per esempio di quella degli Stati Uniti (38,8). Ma il numero di ore lavorate è comunque più alto che in molti paesi europei, come Germania (34,5), Francia (36,2) e Gran Bretagna (36,4).
Tabella 1: Ore settimanali lavorate nel lavoro principale (dipendenti) e tasso di occupazione complessivo, anno 2006. Paesi in ordine decrescente per ore settimanali lavorate.

Ore settimanali
Tasso di occupazione
Giappone
..
76.0
Slovacchia
40.5
59.6
Repubblica Ceca
40.4
66.1
Ungheria
40.1
57.7
Polonia
40.0
55.4
Grecia
39.8
62.3
Portogallo
39.1
72.5
Stati Uniti
38.8
74.8
Spagna
38.3
66.2
Austria
37.5
71.0
ITALIA
37.0
59.4
Finlandia
36.9
69.7
Gran Bretagna
36.4
74.2
Francia
36.2
62.6
Australia
36.1
73.7
Svezia
35.7
75.9
Canada
35.7
74.4
Irlanda
35.1
69.6
Belgio
35.0
60.8
Danimarca
34.5
78.2
Germania
34.5
68.2
Olanda
29.7
73.3
Fonte: Ocse
Come si evince dalla Tabella 1, il problema non è tanto lavorare di più, quanto fare in modo che più persone lavorino.
(1) Si veda l’articolo di Baldini e Leonardi sulla rivista online www.nelmerito.com(2) In Francia, a titolo di esempio, la maggiorazione è più contenuta: + 25 per cento.(3) Esiste certo la possibilità che l’utilizzo più massiccio del “nocciolo duro” di lavoratori più qualificati e volenterosi accresca la redditività dell’impresa al punto che vengano aperti nuovi posti di lavoro. Ma l’effetto dello straordinario sulla produttività (media) è quantomeno incerto, come chiunque rimanga seduto per ore a una scrivania sa benissimo.(4) Si veda l’articolo di Charles Wyplosz del 5 giugno 2007 sul sito www.telos-EU.com

1 commento:

Anonimo ha detto...

Premessa: scrivo queste note molto velocemente, perché in questo momento non ho molto tempo - ma il tema mi affascina. Spero che lo stile non risulti troppo sgangherato.

Dal punto di vista teorico è tutto giusto.
Peccato, però, che il ricorso al lavoro straordinario sia, per le imprese, l'ultimissima spiaggia prima di assumere nuovo personale, e che questa insistenza sulle sue implicite virtù (più soldi in busta paga, chi più lavora più guadagna, ecc.) nasconda in realtà ragionamenti che chiunque abbia bazzicato imprenditori piccoli, medi o grandi ha sentito fare innumerevoli volte.
Agli imprenditori italiani assumere non piace. Non piace per nulla. E questo è dovuto alla rigidità nel meccanismo di licenziamento (almeno così dicono). Ovviamente parlo dell'industria e non dei servizi, perché in quest'ultimo settore il discorso è diverso.

In fabbrica la flessibilità non serve
In tempi di flessibilità e precarietà questo può sembrare strano, ma in ambito industriale i contratti flessibili non servono a niente. Il tema è già stato trattato più volte - proprio da uno dei maestri di Tremonti, Edward Luttwak, ma anche da Adair Turner, ex leader della Confindustria inglese ai tempi della Thatcher. Un turnista deve essere formato; se parliamo di produzioni industriali "da paese civile" è verosimile che si pensi a cicli automatizzati e complessi, in cui la qualità del prodotto - e la cura per il processo da parte del lavoratore - devono essere elevate. Perciò immaginare di portare in fabbrica persone sempre diverse, ogniqualvolta il mercato impone produzioni più elevate, è una stupidaggine colossale. Chiedete non solo a un imprenditore, ma a un suo responsabile di produzione, o ai suoi capi reparto, e vedrete.

Il sacramento dell'assunzione
In fabbrica, perciò, bisognerebbe assumere. Ma chi?
Personale formato dal nostro sistema scolastico a un livello di poco superiore a quello degli analfabeti, che per di più se finisce in fabbrica lo fa di malavoglia - perché anche il più imbecille tra i giovani preferirebbe - chissà poi perché - prendere uno straccio di diploma e finire a fare il precario in un call center o in una qualsiasi realtà commerciale. Ma si sa, in tempi di Grande Fratello "tirare la lima" in fabbrica "non fa figo" neanche un po' (non scherzo, simili argomentazioni risultarono anche dall'intervista a un giovane operaio vicentino, che per di più lavorava nella piccola ditta artigianale di parenti, ma che così motivava la sua partecipazione alle selezioni di un recente "reality").

Di conseguenza, perché assumere gente che in fabbrica non ha nessuna voglia di venirci, spesso non rende per nulla e mi devo tenere per forza a vita? Attenzione, giusto o sbagliato che sia gli imprenditori sono convinti che il contratto d'assunzione sia per l'azienda quello che per la Chiesa è il matrimonio: una specie di malinteso sacramento, che determina un vincolo indissolubile con il lavoratore.
Molto meglio, perciò, far lavorare qualche ora in più quei lavoratori già rodati e leali alla causa che costituiscono la spina dorsale di tutte le medie aziende del Lombardo Veneto - e a cui qualche lira in più in busta paga, tra l'altro, fa pure comodo.

Teoria e pratica
Questo rende conto dei fatti illustrati, con ragionamenti raffinati, da Richiardi, che infatti non riesce a spiegarsi il ricorso preferenziale delle imprese al lavoro straordinario, meno economico di nuove assunzioni. Richiardi mi pare poco a conoscenza del modo in cui si muovono le viscere dei nostri imprenditori, e troppo innamorato degli aspetti teorici della questione. Sorprendersi perché gli imprenditori adottano politiche antieconomiche per le stesse aziende significa non aver compreso che le storture di un sistema spiegano sul funzionamento dello stesso molto più di tante belle teorie.

Purtroppo l'unico modo in cui possiamo risolvere la questione è dare alle imprese - ma questo avviene già in mezzo mondo - piena libertà di assumere e licenziare. Certo, non prima di aver messo in piedi un sistema di sicurezze sociali degno di questo nome - uno dei motivi per cui tra l'altro sono d'accordo con le proposte di federalismo fiscale e decentramento spinto dei poteri, ma questa è altra faccenda.

Il modello svizzero
In Svizzera, realtà che conosco bene, i contratti di lavoro possono essere risolti nel giro di pochi mesi (uno o due,a seconda dell'anzianità di servizio). Gli stipendi sono a livello "svizzero" (nel 1998 un operaio turnista non qualificato in Ticino si assumeva per 3000 CHF lordi mese, costo aziendale circa 3600 CHF, netto in busta paga circa 2700 CHF. In Italia credo che figure analoghe prendessero stipendi di 1.100.000 Lire, ma forse anche meno. Il Franco era a 1350 Lire circa). Il sistema di assicurazioni sociali garantisce, per un periodo pari alla media per trovare lavoro in un determinato cantone aumentato di sei mesi, tra il 70 e l'80% dell'ultimo salario/stipendio, integrato da tutti gli assegni familiari che il lavoratore prendeva normalmente. Altro che i 400 Euro/mese per i precari della nostra scialba campagna elettorale! Uffici regionali (ogni cantone è diviso in più regioni) si occupano delle cosiddette "misure attive", che però lì sono una cosa seria, non certo scempiaggini come i corsi per programmatore fatti agli ex operai di Arese con i fondi sociali europei.

In queste condizioni le aziende assumono, investono in formazione e cercano di tenersi ben stretti i collaboratori più validi. Anche perché l'assicurazione sociale copre il periodo di disoccupazione anche se è il lavoratore stesso ad essersi licenziato!!! Nessuno ha contratti diversi da quelli a tempo indeterminato (il che significa che i contributi sono pagati, e vorrei ben vedere, viste le prestazioni del sistema previdenziale di quel paese, se si incoraggiassero contratti tipo quelli "flessibili" di stampo italiano, genere paga da fame e contributi inesistenti). Insomma, la cosa funziona perfettamente.
Il sindacato ha in mano la gestione delle assicurazioni sociali, e quindi non solo ha tutto l'interesse, ma anche il modo per verificare se un individuo ha perso il posto di lavoro per demerito suo, per incompatibilità ambientali o invece per vessazioni dell'azienda - nel qual caso la causa è garantita. E in genere le cause di lavoro sono vinte dai dipendenti (a memoria del Pretore di Biasca e Riviera l'ultima e forse unica volta che un'azienda vinse una causa di lavoro fu quando un cameriere venne sorpreso dal proprietario del ristorante per cui lavorava a rubare soldi dalla cassa).

Non possiamo, non dobbiamo o... non vogliamo?
Questi i fatti per come li conosco. Ma so già che in Italia "non si può fare", perché da Roma in giù chissà cosa succederebbe se mettessimo in piedi un sistema di assicurazioni sociali; perché in Italia le tasse non le paga nessuno e quindi il sistema non starebbe in piedi, eccetera eccetera.

Peccato che fare politica significhi cambiare l'esistente, non gestirlo alla meno peggio pensandolo immutabile...

Per inciso, se il tema interessasse a Bellinzona ho ancora buoni contatti, e non credo sarebbe difficile far venire a Milano qualche dirigente di un Ufficio Regionale del Lavoro per spiegarci come funziona il loro sistema e come si sostiene finanziariamente. Tra l'altro parlano italiano e non danese, il che è certo un bel vantaggio...
Pierpaolo