venerdì 2 maggio 2008

La nuova rivoluzione che non abbiamo capito: lo sbriciolamento sociale

La nuova rivoluzione che non abbiamo capito: lo sbriciolamento sociale
di Alain Touraine - 02/05/2008

Fonte: La Repubblica

A lungo abbiamo descritto e analizzato la realtà sociale in termini politici: ordine e disordine, pace e guerra, potere e Stato, re e nazione, Repubblica, popolo e rivoluzione. Poi la rivoluzione industriale e il capitalismo si sono affrancati dal potere politico e sono diventati la "base" dell'organizzazione sociale. Abbiamo quindi sostituito al paradigma politico un paradigma economico e sociale: classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, disuguaglianze e ridistribuzione sono diventate le categorie di analisi più utilizzate.

Oggi, due secoli dopo il trionfo dell'economia sulla politica, queste categorie "sociali" appaiono confuse e lasciano in ombra gran parte del nostro vissuto. Abbiamo perciò bisogno di un nuovo paradigma; non possiamo infatti tornare al paradigma politico, perché i problemi culturali hanno assunto una tale importanza che il pensiero sociale va riformulato di conseguenza.
È all'interno di questo nuovo paradigma che occorre situarsi per poter definire gli attori e i conflitti attuali, continuamente svelati da uno sguardo capace di mostrarci nuove prospettive.
La ricerca del punto focale di questo nuovo paesaggio ci porta immediatamente ad affrontare il tema dell'informazione, un indice rivelatore della rivoluzione tecnologica i cui effetti sociali e culturali sono visibili ovunque. E, più precisamente, l'aspetto su cui ha insistito, a ragione, Manuel Castells: l'assenza di ogni determinismo tecnologico nella società dell'informazione. È questo a distinguere nettamente la nostra società dalla società industriale, in cui la divisione tecnica del lavoro era inseparabile dai rapporti sociali di produzione. La grande flessibilità sociale dei sistemi di informazione crea una situazione nuova: un'affermazione che contraddice i discorsi, fin troppo frequenti, sull'invasione della società da parte delle tecnologie, ma che risulta utile a coloro che definiscono innanzitutto la globalizzazione in termini di dissociazione fra l'economia globalizzata e le istituzioni le quali, esistendo solo a livelli più bassi, nazionali, locali o regionali, non sono in grado di controllare sistemi economici che agiscono a un livello molto più ampio. Allo stesso risultato conduce la percezione della violenza, delle guerre, dei sistemi di repressione: il mondo della violenza politica organizzata non è più un mondo sociale. Gli stati moderni presero forma guerra dopo guerra; i conflitti attuali, invece, non hanno valenza politica o sociale. La guerra non è più l'altra faccia del conflitto sociale.

Tutte queste osservazioni concordano su un punto: il crollo e la scomparsa dell'universo che abbiamo chiamato "sociale". Questo giudizio non deve sorprendere; sono milioni le persone che deplorano la rottura dei legami sociali e il trionfo di un individualismo disgregatore. Accettiamo quindi di assumere, come punto di partenza dell'analisi, la distruzione di tutte le categorie "sociali", dalle classi e movimenti sociali fino alle istituzioni e alle "agenzie di socializzazione" ˆ formula coniata per indicare la scuola e la famiglia nel momento in cui l'educazione fu definita una forma di socializzazione.
La perdita di centralità delle categorie "sociali" è così nuova che stentiamo a rinunciare alle consuete analisi sociologiche.
Certo non è facile parlare di analisi "non sociale" della realtà sociale. Eppure, a ben riflettere, questa espressione non suona molto più strana della formula "società politiche" applicata prima alle monarchie assolute e in seguito, quando il riferimento a Dio e all'espressione sociale delle credenze religiose perse la centralità attribuitagli fino ad allora, agli Stati nazionali. Si potrebbe persino tracciare il percorso che porta da collettività fondate su princìpi esterni di legittimazione, in particolare religiosi, ad altre la cui legittimità fu fondata sulla politica e ad altre ancora che si configurarono in termini di sistemi economici e sociali; fino a giungere al nostro tipo di vita sociale preso d'assalto, da un lato, da forze non sociali come interesse, violenza e paura e, dall'altro, da attori i cui obiettivi, anch'essi tutt'altro che "sociali", sono fondamentalmente la libertà personale o l'appartenenza a una comunità tradizionale.
L'ipotesi che ho sinteticamente tracciato condanna l'analisi sociologica e le sue possibilità a fine certa? La domanda si farà sempre più pressante man mano che ci avvicineremo alla conclusione della prima parte di questo libro, dedicata all'affascinante e inquietante "fine del sociale".
La scomparsa delle società come sistemi integrati e portatori di un senso generale, definito in termini di produzione, significato e interpretazione, ci pone in effetti di fronte a un mondo oggettivo di cui, come ha sostenuto Jean Baudrillard, il mondo virtuale è un'espressione estrema. Questo estremo, assoluto realismo bandisce dal campo sociale tutto ciò che gli è estraneo: la guerra e ogni forma di violenza, le ondate di irrazionalismo, la crisi degli individui, pieni di problemi e ormai impossibilitati ad affidarsi, per risolverli, alle istituzioni civili, giuridiche o religiose.
L'inquietudine e, talora, l'angoscia derivate dalla perdita dei punti di riferimento abituali vengono ancora più accentuate dall'onnipresenza di criteri di valutazione economici che non corrispondono all'intensità crescente della domanda, ma piuttosto la creano attraverso le scelte operate dai decisori economici di mantenere a un livello basso, o al contrario elevato, il prezzo della maggior parte dei prodotti. L'idea tradizionale che il prezzo di un prodotto dipenda dall'incontro della domanda e dell'offerta è sempre meno applicabile; e tra i prodotti creati dalla pubblicità, dalla propaganda o dalle politiche di guerra figurano anche le immagini di noi e del nostro io. È per questo che abbiamo la sensazione di perdere distanza e indipendenza da costruzioni, in tutto e per tutto ideologiche, che determinano il nostro sguardo quanto gli oggetti che guardiamo. (...)

Ma se è assurdo credere che la catastrofe sia inevitabile, tuttavia bisogna ammettere che i cambiamenti in corso non si riducono all'apparizione di nuove tecnologie, a un allargamento del mercato o a un nuovo modo di vivere la sessualità. Stiamo cambiando paradigma nella nostra rappresentazione della vita collettiva e personale. Stiamo uscendo dall'epoca in cui tutto trovava espressione e spiegazione in termini sociali e ci vediamo obbligati a esaminare come si costruisce questo nuovo paradigma, che ha riflessi su tutti gli aspetti della vita collettiva e personale. È ormai urgente capire a che punto ci troviamo e quale discorso sul mondo e su noi stessi potrà renderci questo mondo, e noi stessi, comprensibili. Prima di cercare di definire la natura di questo nuovo paradigma, è quindi opportuno prendere coscienza della rottura che ci sta rapidamente separando dal passato ancora prossimo.