da Il Giornale
«Il piano per D’Alema al Quirinale»
Pubblicato il 6 giugno 2009 nella sezione Il Giornale — Pdf — Condividi
Quella nota l’ha scritta lui, a quattro mani, insieme a Claudio Velardi, e lo conferma. Erano i tempi ormai mitologici dello staff dalemiano: i giorni dei cosiddetti «Lothar», dell’assalto al cielo che avrebbe portato il leader maximo a Palazzo Chigi (e poi fuori). Rondolino e Velardi, i due uomini forti di quella squadra (i due spin doctor) firmarono allora un documento di analisi sulle prospettive politiche, di rara spietatezza. Giudizi feroci sul partito, sui suoi leader, sugli avversari politici. Qualche profezia. Qualche ipotesi azzardata. Giudizi inappellabili come sentenze: «Il partito, inteso come ceto politico è un cane morto. Il suo stato è, sotto ogni punto di vista, desolante: il gruppo dirigente nazionale è in buona parte formato da inetti, i gruppi dirigenti locali sono del tutto al di sotto della funzione». Quel documento, datato 1997, resta riservato per 12 anni. Poi, viene scovato e pubblicato da Alessandra Sardoni, cronista de La7 (e grande conoscitrice della sinistra politica) che lo pubblica nel suo libro sulla traiettoria del dalemismo (Il fantasma del leader, Marsilio) in libreria dalla prossima settimana. Il testo, anticipato dal Corriere della sera suscita qualche scandalo ed echi profondi, anche nel corpaccione del Pd. Così Rondolino accetta di parlarne a cavallo fra passato e presente.
Rondolino, come l’ha avuto quel documento la Sardoni?
«Non lo so, se le dicessi che me lo ero dimenticato lei non mi crederebbe, dunque… È saltato fuori».
Rileggendolo, qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Che è pieno di cantonate sesquipedali. La quantità di previsioni sbagliate è incredibile».
C’erano anche intuizioni decisive…
«Ma non spetta certo a me dirlo».
A parte i dettagli, che impressione le fa?
«Stupisce, quasi, un certo radicalismo che lo pervade, forse addirittura si può parlare di ingenuità giacobina… ».
… Dalemiana piuttosto.
«Le dirò un’altra cosa a cui è libero di non credere. Lo scrivemmo per discuterlo con D’Alema, tipo compiti delle vacanze. C’erano tutte quelle cose esplosive dentro, ma io non ho memoria di una discussione compiuta sul testo, con Massimo».
Si diceva: la Bicamerale sarà un successo.
«Ahimè, una cazzata… ».
Avevate studiato una strategia per candidare D’Alema alla presidenza della Repubblica…
«Ahimè, altra cazzata».
Si scriveva che D’Alema alterna fasi di lavoro iper-intensive a fasi di inattività totale…
«È un fatto. Era un dato del suo carattere, non so se lo sia adesso. Capace di reggere stress fortissimi, ma anche di ridurre il proprio impegno».
Ancora oggi molti nel Pds-Pd, leggendo il vostro giudizio sul partito griderebbero di indignazione…
«Be’, lì errore non ci fu, se non per difetto. La situazione era drammatica e sarebbe peggiorata sempre più».
Il Pd sta meglio o peggio del vostro Pds?
«Ma oggi non esiste più un partito! Quello era in crisi, questa è una organizzazione a macchia di leopardo, in certi posti c’è, in altri no, in un luogo ha una storia, in un altro una diversa… ».
Se fu una intuizione quella, cosa vi portava a un giudizio così drastico?
«Una banale constatazione. Vedevo dov’erano finiti gli uomini della mia generazione, chi aveva iniziato a far politica con me».
E dov’erano?
«Nel nulla».
Nel documento parlavate anche di Veltroni e D’Alema?
«Sì, ma lì in apparenza non c’era pepe. Consigliavamo a Massimo, pensa tu!, di fare la pace».
Voi due buonisti? Non ci credo.
«E infatti non era buonismo, per nulla. Ero convinto che in tempo di pace fra i due non c’era storia perché Massimo surclassava Walter. E che il conflitto avvantaggiasse Veltroni, rendendolo uno dei contendenti, e di fatto elevandolo».
Addirittura! Quanto temevate la «concorrenza» di Veltroni nella leadership?
«Devo essere sincero? Zero».
Zero? Non lo credevi un competitor?
«No. Per nulla. Credo che ora ci siano anche altri riscontri».
Eravate lo staff più rampante mai apparso sulla scena.
«Alt! Rampante non lo so… Di certo, nessuno di noi, né Claudio, Cuillo o Caprara è finito in parlamento».
Perché disdegnavate le poltrone?
«No. Semplicemente perché non lo consideravo il mio lavoro».
Se scrivessi oggi il documento che spiegazione daresti di quel fallimento?
«Citerei Berlusconi, credo: “Siamo andati nella cabina del pilota e non abbiamo trovato il volante… ”».
Hai detto più volte che «il complotto» contro Prodi non esisteva…
«Be’, almeno questo il documento lo prova. Eravamo molto più ambiziosi, puntavamo al Quirinale!».
E non vi ci siete nemmeno avvicinati.
«Per il fallimento della Bicamerale. Serviva una repubblica semipresidenziale che non è mai nata».
Per lei D’Alema poteva farcela, contro il Cavaliere?
«Io sono ancora convinto di sì: scrivevamo che era giovane, in gamba, aveva una famiglia con cui né Berlusconi né Fini erano competitivi… A parte il cinismo della notazione era vero».
Perché detestavate il vostro partito?
«Glielo spiego così: era molto più proficuo parlare di Tv dieci minuti con Freccero che un’ora con un sindacalista pds dell’Usigrai… Eh, eh, eh… ».
Insomma era tutto scritto?
«No, questo. Io per esempio, se devo rimproverare qualcosa a D’Alema, è di aver accettato di prendere il posto di Prodi a Palazzo Chigi. Ma oggi! Allora ero convinto che fosse giusto… ».
Nessun altro errore?
«Passare anni a discutere con Mastella e Boselli! Ma era la sua coalizione… ».
È stato un male per la sinistra, la fine di quel progetto, o solo per i dalemiani?
«Be’, visti i risultati di oggi, per tutti. Ma dico di più: è stata una sconfitta del riformismo, quindi anche per la destra».
In che senso?
«Da noi, tutti i grandi riformatori, ci metto anche il primo Berlusconi, non sono riusciti a realizzare i propri sogni. Vince sempre la palude delle burocrazie».
D’Alema era d’accordo con voi o no?
«Rispondo con un aneddoto su Cuperlo, che faceva il ghost writer. Passava notti in bianco per preparare note dettagliatissime, dati, schede… ».
E D’Alema?
«Sollevava lo sguardo dal foglio e diceva: “Bravissimo!”. Poi parlava a braccio, e non citava nemmeno una riga!».
E lei cosa pensava?
«Allora ci arrabbiavamo. Poi ho capito che il maestro era lui. E poteva improvvisare genialmente, perché c’era una partitura».
Una magra consolazione?
«Al contrario. Alla fine è l’unico, tra i leader del Pds-Pd-Ds, che non si sia circondato di yesmen. Ed è per questo che, al contrario di altri, è ancora in pista».
Luca Telese
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