martedì 16 giugno 2009

Gianfranco baldini. Giulia Guazzaloca: Le elezioni del Parlamento europeo

Da www.europressresearch.com

LE ELEZIONI DEL PARLAMENTO EUROPEO
Gianfranco Baldini, Giulia Guazzaloca - giugno 2009
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HA VINTO L’EURO-DISINTERESSE
A trent’anni dalle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, la percentuale dei votanti continua a calare, nonostante il progressivo aumento di poteri dell’Europarlamento. Con circa 20 punti in meno rispetto al 1979, infatti, quest’anno solo il 43% dei cittadini si è recato alle urne, il che significa che oltre 170 milioni di europei, di paesi, lingue, idee e religioni diverse, hanno detto “no” all’Europa attraverso la scelta di non votare. Si è trattato di un fenomeno uniforme e trasversale – fortemente “europeo” insomma – che ha riguardato sia i paesi della cosiddetta “vecchia Europa”, sia quelli di più recente ingresso come la Slovacchia e la Lituania, dove ha partecipato rispettivamente il 19,6% e il 20,9% degli aventi diritto. Un preoccupante astensionismo, dunque, che solo in parte si può ascrivere al cronico disinteresse dei cittadini verso i temi europei e che deve, invece, essere correlato anche al tipo di campagna elettorale che ha preceduto queste elezioni. È stata infatti, salvo rare eccezioni, una campagna fortemente “nazionalizzata”, priva di un autentico dibattito transnazionale, nella quale i vari partiti hanno giocato le loro carte prevalentemente sui temi di politica interna, anche a fronte del grande problema continentale e globale della crisi economica. La cosa non deve sorprendere più di tanto, visto che le elezioni per l’Europarlamento sono state vissute quasi sempre come dei test per i governi in carica nei singoli paesi; è poi frequente che nei periodi di crisi il malcontento si coaguli in forme di scetticismo e diffidenza verso le istituzioni. Tuttavia questa tornata elettorale, con la sua scarsa mobilitazione dei votanti, sembra confermare ulteriormente la debolezza della “cittadinanza europea” e il deficit di leadership e credibilità delle istituzioni UE nell’affrontare, in primo luogo, la grave congiuntura economica. A qualcuno questa situazione ha ricordato tristemente quella della Repubblica di Weimar: una democrazia senza democratici, proprio come la UE appare un’Europa senza europei. A fronte però di una campagna elettorale “nazionalizzata”, quando non apertamente nazionalistica, si è avuto, quasi paradossalmente, un esito davvero “europeo” da almeno tre punti di vista. In primo luogo, come si è detto, l’imponente astensionismo ha caratterizzato tutti i paesi, confermando così, dopo i “no” di Francia, Olanda e Irlanda alla Costituzione, la debole legittimazione democratica della UE ogniqualvolta si rivolge direttamente ai propri cittadini. Gli altri due dati in qualche modo transnazionali e trasversali riguardano la sconfitta della sinistra socialista e laburista, e dunque il crollo del modello socio-politico della socialdemocrazia europea, e l’affermazione dei partiti di destra e centro-destra. Facendo un ardito raffronto con la “morte” del comunismo in Europa nel 1989, il sociologo francese Alain Touraine ha osservato che la caduta della socialdemocrazia europea è dovuta alla sua incapacità di formare leadership autorevoli, all’indeterminatezza dei programmi e degli obiettivi da raggiungere e al suo crescente scollamento dai ceti popolari, quelli più colpiti dalla recessione e al cui interno, tra l’altro, si registra un sempre maggiore astensionismo elettorale. È probabile che nei mesi a venire politici ed intellettuali si troveranno impegnati ad analizzare le ragioni della débâcle socialista (a partire dallo storico tracollo del Labour Party britannico), ma fin d’ora si possono individuare alcuni elementi di debolezza, per così dire, strutturali, ovvero indipendenti dalle condizioni dei singoli partiti e paesi. Penalizzata sicuramente dall’alto astensionismo, la sinistra riformista europea non ha saputo dare una risposta coerente e coordinata alla crisi economica e alle preoccupazioni e paure da essa scatenate; non è stata in grado di rinnovarsi dal punto di vista ideologico e della retorica politica così da dare all’Europa lo slancio e la fiducia necessari, come invece sta facendo negli Usa il presidente Obama; ha politicamente giocato male le proprie carte sia nei paesi in cui si trova all’opposizione, come Francia e Italia dove ha scelto la strada dell’attacco “personalizzato” e aggressivo contro il governo in carica, sia nei paesi in cui è al potere, come Spagna e Gran Bretagna. Sconfitta in ben 16 Stati su 27 e con 60 deputati in meno al Parlamento di Strasburgo, la sinistra socialdemocratica ha pagato anche lo scotto delle proprie divisioni interne e quello – storicamente comprovato – della tendenza alla polarizzazione verso le estreme nei momenti di grave crisi. Ha infine subito le conseguenze dell’orientamento euro-scettico (o apertamente anti-europeista) di buona parte degli elettori, i quali, su questioni come immigrazione, allargamenti, identità e bisogno di sicurezza, hanno trovato più rassicuranti le proposte della destra. Sul fronte opposto c’è stata una buona tenuta dei partiti di centro-destra che afferiscono al PPE, ma nella sostanza il nuovo Parlamento europeo non è troppo diverso dal precedente; il centro-destra, semmai, ha subito una lieve flessione rispetto al 2004 (il PPE è passato dal 36,7% al 35,9%), facendo spazio alle formazioni della destra nazionalista e anti-europeista che hanno avuto un buon successo in Austria, Olanda, Danimarca e in diversi paesi dell’est (senza dimenticare l’importante risultato del British National Party che per la prima volta avrà due seggi nel PE). La vittoria delle forze moderate di area popolare è dunque da valutare più in rapporto alla “disfatta storica” dei socialisti che come dato assoluto; nel senso che dinanzi alla grave crisi economica, e alle connesse paure su disoccupazione e immigrazione, i partiti del centro-destra hanno saputo presentare programmi coerenti, concreti, flessibili e non dogmatici. Si tratta infatti di una destra che qualcuno ha definito “pragmatico-liberale” e che pare in sintonia col comune sentire dei cittadini europei, ancora sostanzialmente individualisti, fiduciosi nell’economia di mercato, ma nemmeno contrari per principio all’intervento statale e alla spesa pubblica. Si devono infine segnalare due fenomeni che, sebbene da angolazioni opposte, sembrano smentire parzialmente la tesi secondo cui l’Europa e i temi europei non interessano alle masse. Da una parte, vi è stata una buona performance dei partiti ecologisti (soprattutto in Francia e Belgio), che hanno puntato su un grande tema concreto e al tempo stesso evocativo come l’ambientalismo e hanno saputo collegarlo sia ai problemi della recessione economica globale, sia a quanto fatto finora dalle istituzioni europee e soprattutto dal Parlamento dell’Unione. In sostanza i Verdi sono riusciti a fare della propria issue tradizionale un efficace tema “europeo” di forte impatto sull’elettorato, dimostrando che quando programma e posta in gioco sono chiari è possibile coinvolgere i cittadini anche nel processo decisionale della “lontana” Europa. Dall’altra parte, l’avanzata dei partiti di estrema destra (benché si tratti di un’etichetta generica, utilizzata per qualificare formazioni molto diverse fra loro: partiti anti-europeisti e vagamente populisti, gruppi xenofobi e antisemiti, partiti ultra-nazionalisti e anti-islamici) rappresenta una seria incognita per il futuro del Parlamento europeo che, soprattutto se queste forze riusciranno a dar vita ad un gruppo unitario, si troverà a fare i conti con almeno 25 rappresentanti di “forze anti-sistema”. Benché costituisca un universo differenziato e frammentato, il fronte dell’estrema destra ha comunque coagulato le pulsioni nazionaliste e anti-europeiste di una parte degli elettori, sfruttando le preoccupazioni legate alla sicurezza e all’immigrazione per lanciare un inequivocabile “no” all’Europa. Dal punto di vista istituzionale è probabile che tutto rimanga fermo fino al nuovo referendum irlandese, previsto per il prossimo ottobre, che deciderà del futuro del Trattato di Lisbona; solo dopo di allora, infatti, si eleggeranno i membri della nuova Commissione e si potrà sapere se Barroso (per il momento l’unico candidato) verrà riconfermato alla presidenza. Dal punto di vista politico, invece, è opportuna una riflessione su come ricreare quel circolo virtuoso tra cittadini e istituzioni comunitarie che ha alimentato la costruzione dell’Europa unita ma pare essersi drammaticamente interrotto da alcuni anni a questa parte. Non sono mancati, sulla stampa e nelle dichiarazioni di diversi leader politici, i mea culpa e gli auspici per una “ripartenza” dell’Europa; così come in molti sperano che un nuovo slancio per l’UE possa venire dalla coppia Merkel-Sarkozy. È poco confortante però vedere che non si tratta affatto di “buoni propositi” nuovi e originali, perché sono almeno quattro anni che si discute di come “rieducare all’Europa” i suoi cittadini. In fondo, nonostante il clamore suscitato, queste ultime elezioni non ci hanno detto molto di più di quello che già sapevamo.
Giulia Guazzaloca

LE ELEZIONI EUROPEE IN ITALIA: TERRITORIO E POLARIZZAZIONE
Trenta anni fa, subito dopo le prime elezioni dirette del Parlamento europeo, due politologi tedeschi, Karlheinz Reif e Hermann Schmitt, coniarono il termine di “elezioni di secondo ordine”. Rispetto alle elezioni politiche, quelle europee sono infatti caratterizzate da: 1) partecipazione elettorale più bassa (e in continuo calo: dal 62,3% del 1979 si è passati oggi al 42,9%); 2) risultati tendenzialmente negativi per i partiti di governo (soprattutto se il voto non si tiene nel periodo di «luna di miele» con l’elettorato che normalmente segue le elezioni politiche); 3) maggiori consensi per i partiti minori. Di recente quest’ultimo aspetto si applica soprattutto, nei paesi dove esistono, ai partiti euroscettici. In gene¬rale, l’elettorato si mobilita poco per il voto europeo, e, laddove questo avviene, si «rilas¬sano» di molto i legami che normalmente orientano il voto politico. Da allora, come puntualmente ci ha ricordato uno dei due autori prima citati in un articolo del 2005 (The European Parliament Elections of June 2004: Still Second-Order?, in “West European Politics”, vol. 28, pp. 650-679), queste caratteristiche si sono sostanzialmente confermate ad ogni elezione, con poche sfumature, anche a causa di alcune particolarità dei paesi entrati dopo l’ultimo allargamento (dove, ad esempio, si vota di meno). Sebbene il Parlamento europeo abbia significativamente incrementato i propri poteri, il voto continua ad essere giocato su linee nazionali. Certo, esiste la particolarità dei partiti euroscettici, oggi diffusi in molti paesi. Alcuni di essi, come lo Uk Independence Party (che ha confermato il proprio exploit del 2004, ottenendo oltre il 16% e 13 seggi rispetto ai 12 che aveva) esistono praticamente solo grazie a questo tipo di voto: nelle elezioni politiche del 2005 prese il 2,2%. Come si colloca l’Italia in questo contesto? Da noi si vota tradizionalmente di più rispetto al resto d’Europa, e anche quest’anno è andata così: con il 66,3% l’Italia è al quarto posto dopo Lussemburgo, Belgio (paesi dove il voto è obbligatorio) e Malta. Inoltre non esistono partiti specificamente euroscettici. La Lega Nord non nasconde la sua ostilità verso Bruxelles: basta ricordare la grande sofferenza del partito di Bossi nella ratifica del Trattato di Lisbona, per il quale più volte avanzò la proposta di introdurre un referendum popolare (per il quale sarebbe però necessario modificare la costituzione). Come si è sottolineato da più parti, anche in questa campagna elettorale non si è parlato di Europa, come d’altra parte non fa praticamente nessun altro paese: l’eccezione è quella dei partiti euroscettici che basano appunto la loro stessa esistenza sull’ostilità alla UE. Vediamo allora, seguendo alcuni dei commenti più documentati, quali sono le novità del voto europeo in Italia. 1) L’astensionismo è stato territorialmente molto più diversificato rispetto alle precedenti elezioni (si vedano le analisi dell’Istituto Cattaneo al sito www.cattaneo.org). Mentre nel 2004 il differenziale regionale di partecipazione era di circa 20 punti – Trentino Alto-Adige 60,5% vs Emilia Romagna l’81,3% – oggi la differenza tra Umbria (77,9%) e Sardegna (40,9%) è quasi doppia. Coglie nel segno Stefano Folli (La tela leghista abbraccia mezza Italia, “Il Sole 24 Ore”, 9 giugno) ad indicare nello spostamento del G8 uno dei fattori cruciali per spiegare questo dato: come dimostrano le mappe di corredo all’articolo di I. Diamanti (Il Pd esule in casa, “la Repubblica”, 10 giugno) disponibili al sito www.demos.it, la provincia dell’Aquila è quella in cui il Popolo della Libertà avanza in modo più netto rispetto alle elezioni politiche del 2008. Questo dato della partecipazione è importante e spesso sottovalutato nei commenti che prendono in considerazione solo i valori percentuali (e non i voti) effettivamente avuti dai partiti. Consapevole che non si tratta di una specificità italiana, Luca Ricolfi (La vittoria del partito che non c’è, “La Stampa”, 11 giugno) ricorda che l’astensionismo fa del “non voto” il primo partito italiano: confrontando il numero di cittadini che votano per i grandi partiti con quello composito di coloro che non vanno a votare si trova come quest’ultimo, variamente conducibile ad opzioni di voice o exit, sia comunque il più forte, e che in particolare solo 22 italiani su 100 hanno votato Pdl, e solo 6 hanno espresso una preferenza per Berlusconi. Tutto vero e importante. Basta però non dimenticare che rispetto al 2004 l’aumento del non voto è stato, in Italia come in Europa, tutto sommato limitato, considerando la perdurante lontananza dei cittadini verso l’UE: rispettivamente di poco più di 5 e 2 punti percentuali. 2) In Italia la campagna elettorale è stata, come spesso capita da quando Berlusconi è sulla scena, molto polarizzata. Per settimane il capo del governo ha snocciolato sondaggi che davano il Pdl sicuramente sopra la soglia del 40% o addirittura vicino al 45%. Le opposizioni, con il distinguo dell’Udc, incalzavano il governo soprattutto sui problemi personali del leader. Se fino a un mese prima del voto sembrava scontata la prosecuzione della luna di miele tra Berlusconi e gli elettori, i risultati hanno visto una ridefinizione dei rapporti di forza, nella coalizione di governo, almeno in parte prevista dai sondaggi. La Lega Nord si avvicina infatti a un terzo dei voti del Pdl, rispetto al rapporto di quasi 1 a 5 delle elezioni politiche del 2008. Ma, come è stato notato (R. D’Alimonte, Pdl la croce del Sud, Pd cede il centro, “Il Sole 24 Ore”, 9 giugno), queste nuove alchimie non hanno penalizzato lo schieramento nell’area di maggiore competizione tra i due partiti (cioè il Lombardo-Veneto), ma sono sostanzialmente il frutto dell’avanzata della Lega sotto il Po, e del fatto che il complementare successo del Pdl in Umbria e Marche, che erode da Sud-est la tradizionale “zona rossa”, è più che compensato dal combinato disposto dell’avanzamento, al Sud, dell’astensionismo e dell’Italia dei Valori. In complesso, però, quello che colpisce è che i rapporti di forza tra sinistra e destra sono quasi esattamente gli stessi del 2008: i partiti di governo non hanno trionfato come forse pensavano di fare, ma nemmeno perso come vorrebbe la teoria delle elezioni di «secondo ordine». È evidente che la luna di miele che si voleva ancora in corso fino a tutto il mese di aprile, ha avuto fine con le polemiche del mese di maggio, dal caso Mills a quello Noemi. 3) Eccoci allora ai due vincitori previsti: Bossi e Di Pietro. I loro due “partiti minori” (ma anche la sinistra radicale) riescono, nel voto per un’assemblea distante e non per un governo nazionale, a recuperare parte del voto utile che elettori potenziali non concedono loro nelle elezioni politiche. Tanto da arrivare a rapporti di forza con i maggiori partiti del loro schieramento o coalizione, decisamente diversi da quelli precedenti: in un contesto partitico fondamentalmente destrutturato come quello italiano, dove forze politiche nascono e possono morire da un anno all’altro, le conseguenze del voto per Strasburgo sono spesso più forti che altrove, sebbene da noi le differenze rispetto al voto politico siano spesso minori. In Italia, allora, non vi sono state grandissime novità nelle dinamiche “second order” del voto europeo, anche per la parziale smentita di alcuni sondaggi che davano il governo in forte crescita. Se torniamo, in conclusione, a guardare oltre confine, osserviamo che la destra governa oggi in oltre 20 dei 27 paesi dell’UE, e i governi usciti sconfitti dal voto sono tra i pochi rimasti alla sinistra: tra i maggiori paesi spiccano Gran Bretagna e Spagna. In realtà la sostanziale tenuta delle destre di governo va letta in relazione all’ incapacità della sinistra di cogliere i frutti della crisi economica. Anche giocando sul rilassamento dei parametri per il rispetto dei conti pubblici, favorito dall’emergenza economica, molti partiti di centro-destra sono stati in grado di proporre politiche di stampo protezionista, tanto da diventare quasi nuovi interpreti del keynesismo di fronte a una sinistra generalmente spiazzata e molto vulnerabile alla penetrazione dell’estrema destra nei ceti popolari, in particolare sul tema dell’immigrazione.
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