L’etica della democrazia
Data di pubblicazione: 22.06.2009
Autore: Galli, Carlo
Il degrado civile della società italiana è sottolineato dalla sua indifferenza ai problemi etici. Da la Repubblica, 22 giugno 2009 (m.p.g.)
Che l’uomo politico non debba essere vizioso è stato a lungo affermato dalla tradizione, tanto da quella pagana quanto da quella cristiana, attraverso una ricca trattatistica.
Si imponeva al principe, proprio perché fosse un buon politico, l’esercizio delle più comuni forme di moralità: la rettitudine, l’onestà, la mansuetudine, la magnanimità. Virtù umana e virtù civile del principe non dovevano divergere: la loro sconnessione era indizio di decadenza pubblica, non solo di privata malvagità.
È in età moderna che si fa strada l’idea che i comportamenti privati dei politici possano essere irrilevanti politicamente, perché l’esistenza collettiva ha un’intrinseca e autonoma moralità, diversa da quella che riguarda i singoli individui. Così, nella tradizione aperta da Machiavelli e proseguita nella Ragion di Stato, i valori politici sono la sicurezza, la potenza e la gloria dello Stato; si tratta di fini e di ideali che consentono al governante, per realizzarli, comportamenti difformi dalla morale tradizionale; e poiché si chiede all’uomo politico solo il successo, con ogni mezzo, della sua azione politica, la sua vita privata non è più importante.
La distinzione fra morale e politica che così si istituisce è controversa, e viene a volte accettata e a volte respinta tanto dalle culture religiose quanto dal pensiero politico laico. La Chiesa cattolica ha di fatto concesso qualcosa alla distinzione, dato che - pur continuando ad affermare che la politica si fonda in ultima istanza sulla morale - ha rifiutato di far dipendere la legittimità di un uomo politico dalla moralità dei suoi comportamenti privati (fino a quando non fanno scandalo pubblico); mentre al contrario nel mondo protestante - meno nel luteranesimo e più nel calvinismo - si è lottato contro la corruzione e la peccaminosità dei principi, e si è preteso da loro, come da tutti i fedeli (ossia da tutti i cittadini), una linearità di comportamento morale che non distinguesse fra pubblico e privato. Certamente, ne sono nati fanatismi e ipocrisie, cacce alle streghe e conformismi; ma ne è nata anche l’attitudine delle pubbliche opinioni a chiedere conto ai potenti della loro integrità personale oltre che della loro capacità politica. Secondo uno stile che si è affermato pienamente negli Usa, un popolo di uomini liberi ha l‘orgoglio di non farsi governare da politici corrotti.
Pare a molte delle culture politiche europee liberali che questo sia moralismo politico, per quanto di orientamento democratico. E quindi la tradizione liberaldemocratica tiene ferma la distinzione fra morale e politica, poiché crede nella separazione fra privato e pubblico; e auspica tanto dall’uomo politico quanto dal semplice cittadino il rispetto della morale (di una delle molte possibili morali) nei comportamenti privati, mentre esige che la conformità alla legge (che incorpora inevitabilmente diffuse credenze morali, ma che con la morale non coincide per nulla) sia la regola dell’agire pubblico di chiunque. Mentre le violazioni della morale sono faccende private (di privacy), rispetto alla legge sono concesse agli uomini politici (non ai semplici cittadini) deroghe e eccezioni, segreti e opacità, ma in misura molto limitata e esclusivamente per il superiore interesse della cosa pubblica.
Tutto chiaro, dunque? La liberaldemocrazia europea ha risolto la millenaria questione del rapporto fra morale e politica privatizzando la morale e giuridificando la politica? Per nulla. Infatti, come è assurdo immaginare una democrazia viva e vitale in una società di persone rispettose della legge ma tutte e sempre moralmente abiette, così è impensabile che un grande governante sia anche radicalmente e sistematicamente immorale nella vita privata. In realtà è evidente che la liberaldemocrazia per essere vitale deve negare tanto la piena sovrapposizione fra politica e morale quanto la loro totale separatezza, tanto il moralismo quanto il cinismo, e deve esigere che fra politica e morale si istituisca una qualche relazione. Questa - non formalizzabile in norme di legge eppure, per una sorta di istinto, chiara alle pubbliche opinioni informate - consiste in una sorta di analogia, ovvero in una vicinanza o almeno in una non radicale contrapposizione, fra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini, e risponde a loro (la sua politica). La legittimazione dei leader, insomma, non sta solo nell’aver vinto le elezioni, ma nel saper rispettare in ogni circostanza e in ogni momento il fine ultimo - politico e insieme morale - della democrazia, l’ethos democratico: la libertà degli individui, la dignità dei cittadini, l’umanità delle persone. Decadenza c’è quando di questa analogia - civile, e non fanatica - né i politici né i cittadini sentono la necessità.
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