sabato 31 maggio 2008

Pescati nella Rete: Bauman

Dal sito www.resetdoc.org
L'Occidente chiude le porte
In Occidente soffia un vento freddo sulla globalizzazione. I democratici americani fanno campagna contro il Nafta, il Congresso si oppone ai nuovi accordi di libero mercato con la Colombia e con la Corea del Sud, e appena il 28% degli americani concorda sul fatto che la globalizzazione sia un bene. L’Europa affronta il successo elettorale di forze regionali e ostili all’immigrazione. In Italia il nuovo governo di destra chiede dazi sui prodotti cinesi e sogna che la compagnia aerea nazionale rimanga di proprietà italiana. Come scrive il “Wall Street Journal”, “il mondo non è più piatto come una volta”.
"Quella sinistra che non sa più proteggere"Zygmunt Bauman intervistato da Elisabetta Ambrosi
“Chi si chiude non prospera”Bill Emmott intervistato da Daniele Castellani Perelli
“Ma il protezionismo non è un’alternativa”Una conversazione con Massimo Gaggi

Pescati nella Rete: Rifondazione

Dal sito www.aprileonline.info

Prc, Ferrero conquista Milano
Marzia Bonacci, 30 maggio 2008, 18:28
Politica Dopo Roma, la mozione che fa capo all'ex ministro conquista anche il capoluogo lombardo. Continua infatti la votazione dei Comitati politici federali che devono eleggere le commissioni incaricate di coordinare le tappe del congresso. Mentre Bertinotti lancia per il 12/6 un' iniziativa per discutere la sconfitta elettorale aprendola anche al Pd
Dopo Roma, anche il capoluogo lombardo si schiera a favore della mozione firmata da Acerbo, Grassi, Mantovani e Ferrero. Prosegue infatti la consultazione dei Comitati politici federali (gli organismi sovrani del partito su base provinciale) per eleggere le Commissioni incaricate di sovrintendere e coordinare i diversi passaggi che porteranno all'appuntamento congressuale del Prc previsto a Chianciano per il 24-27 luglio.
A Milano infatti il documento "Rifondazione comunista in movimento" ha incassato il 61,54% dei consensi, circa ottanta voti; quello che invece fa capo a Vendola e Giordano, cioè "Manifesto per la Rifondazione", ha guadagnato il 17,7% con ventitrè voti. Il 13,08% dei consensi, pari a diciassette voti, è stato dato al "Documento dei cento circoli" di Pegolo e Giannini, mentre "Una svolta operaia" ha guadagnato il 6,15% con otto voti e "Disarmiamoci" di De Cesaris e Russo l'1,54% con due voti.
Significativi, per quel che riguarda il panorama lombardo, le votazioni dei Cpf di Varese, dove la mozione di Ferrero ha conquistato l'80% dei consensi contro l'8,9% dell'ex maggioranza, e di Lodi, dove la prima mozione ha registrata una totalità di consensi. Diversamente da quanto accade a Como, dove è il documento Vendola a conquistare il 61,11% delle preferenze. Per un quadro complessivo bisognerà comunque attendere la prossima settimana, quando saranno Bergamo, Brescia, Monza, Crema, Cremona, Mantova, Pavia e Sondrio a votare.
Alfio Nicotra, segretario regionale di Rifondazione, ci spiega come si possono leggere questi primi dati, chiarendo subito che per avere una fotografia completa bisognerà aspettare il voto dei circoli. "Quelli di oggi sono numeri importanti perché indicativi di come i quadri intermedi si stanno orientando politicamente rispetto al dibattito che anima il partito". Numeri a favore della mozione Ferrero che, secondo lui, "non stupiscono", perché al Nord "si è sofferto in modo forse maggiore rispetto al resto di Italia la presenza del Prc al governo", ovvero la partecipazione ad un esecutivo "che non è riuscito a strappare risultati soddisfacenti per il mondo del lavoro". E proprio rispetto a questa "insofferenza" verso il ruolo reputato marginale di Rifondazione nel governo Prodi, il gruppo dirigente nazionale si è dimostrato "sordo". Dunque secondo Nicotra sono questi i fattori che hanno spinto a sostenere la mozione dell'ex ministro e di Grassi, oltre al fatto che la presentazione di cinque documenti non è stata digerita dal corpo del partito rispetto a cui, nella sua ottica, sarebbe stato meglio organizzare un congresso solo "su un documento unico emendabile". Un'assise, quella di luglio, che secondo lui si presenta fin da oggi come l'appuntamento "più difficile per la storia del Prc", perchè "siamo extra parlamentari, perché il rischio di implosione del partito non è mai stato così alto e perché se procedono le due costituenti, quella comunista e quella di sinistra, il Prc potrebbe spezzarsi, come del resto l'intera area". Per tali ragioni Nicotra ha scelto di sostenere "Rifondazione comunista in Movimento", un documento che insiste sulla necessità di ripartire dal Prc come riferimento politico anche per rilanciare nel futuro il processo unitario. "Serve una Rifondazione forte", ci spiega, "anche per l'unità a sinistra", ma niente costituenti che "dividono ideologicamente tutte le formazioni". Dunque l'accusa di settarismo, che l'altra anima del partito muove verso la questa componente, non gli sembra rendere giustizia alla realtà, anche locale. "Il Prc in Lombardia è aperto alle altre formazioni. Abbiamo sempre guardato con interesse alla Sinistra democratica, in particolare nella realtà di Milano". Però? "Però il punto è cancellare ogni ambiguità come quella di voler traghettare il Prc nell'alveo del socialismo europeo". Nonostante il risultato positivo di Milano e di altre regioni italiane, Nicotra riflette sul fatto che la mozione Vendola potrebbe comunque avvicinarsi alla vittoria. In Campania, Puglia e Calabria si è infatti assistito ad un incremento delle iscrizioni ed è proprio in tali regioni che la mozione del governatore pugliese è più radicata. Un dato che Nicotra spiega sociologicamente -nel Nord il partito è stato maggiormente penalizzato dalla presenza al governo- ma che, aggiunge, "va indagato politicamente", a meno che "la spiegazione non va solo cercata", afferma ironicamente, "nella maggiore bravura dei segretari locali di queste tre regioni".
Mentre continua l'iter congressuale del partito e dopo un silenzio post elettorale durato quasi due mesi, ritorna sulla scena politica anche Fausto Bertinotti. E' sua infatti l'idea di organizzare per il prossimo 12 giugno a Roma, presso il Centro Congressi di via dei Frentani, una giornata di studio dedicata alla sconfitta elettorale ed aperta anche ad esponenti del Pd. Tema che sarà anche il leit motiv del prossimo numero della rivista da lui diretta, Alternative per il Socialismo.

Pescati nella Rete: se il Che tradisce la sinistra

Dal sito www.aprileonline.info

Se il Che tradisce la sinistra...
Jacopo Matano, 30 maggio 2008, 19:15
L'aggressore del Pigneto non si definisce "un razzista", né un uomo di destra. Nel raid, secondo i testimoni, c'era anche un nero. Vi proponiamo una riflessione, con Carlo Leoni e Walter Tocci, sull'incapacità del centrosinistra di interpretare una società che cambia. E che, tra giustizia 'fai da te' e Tarzan, ha bocciato il "modello Roma"
Se ce l'avessero raccontato non ci avremmo mai creduto. A tradirci, a tradire sinistra, pseudosinistra e Pd, è stato Ernesto Guevara de la Serna. Proprio lui, quel Che con la stella rossa, un po' sbafato rispetto alla celeberrima foto di Korda, tatuato sulla pelle del braccio del giustiziere del Pigneto e finito a più riprese su tutti i giornali e i telegiornali. E' stato l'epidermico rivoluzionario argentino, assieme al suo proprietario e a quelle dichiarazioni ("io non sono di destra", "io non sono razzista"), nelle quali il mix di animo un po' coatto e robinhoodiano è diventato così umano da farlo risultare simpatico. D'altronde, all' "eroe" amato dal quartiere, l'avevano stuzzicato. E con lui nella banda, coinvolto nel raid, c'era pure un nero.
Maieutica, in questa storia, è stata Repubblica, sbizzarrita sul carro delle esclusive. Inutili sono stati il Consiglio comunale e il Parlamento, rintontiti, minoritari e alle prese con la crisi della terza settimana. Controproducenti sono stati la sinistra e i centri sociali, che hanno travisato (Migliore: "che errore la marcia antifascista"). Signore e padrone della situazione, in ultimo, è stato il neosindaco sempre "sul pezzo", così presente che è riuscito a fare fuori -notizia di oggi- le odiate strisce blu restando immobile sul lettino della clinica in cui è ricoverato per un'operazione alla spalla. E poco importa se a decidere è stato il Tar, e se nelle casse del Comune si rischia un buco di 30 milioni di euro. Alemanno ha fatto er miracolo.
CORTO CIRCUITO - L'aggressione al Pigneto ha dato il colpo finale al Modello Roma. Quindici anni di gestione della città, quindici anni di esortazioni alla tolleranza e di viaggi in Africa andati in fumo dopo che un gruppo di giovani e non giovani, bianchi e neri, armati di spranghe, devastano i negozi dei bengalesi della nuova piazza Vittorio romana. "Corto circuito mediatico", come si è affrettata a commentare la giovane e romanissima ministra Giorgia Meloni, che di ragazzi di destra e di estrema destra se ne intende, avendoli capeggiati ai tempi di Azione Giovani e della consulta studentesca. Ma anche corto circuito culturale: la sicurezza non è più questione di destra o di sinistra, di tolleranza o di xenofobia. E soprattutto: la sicurezza non è più questione di Stato, ognuno fa per sé e per quello che può. E chapeau a chi ci riesce.
Anche per Carlo Leoni stiamo viaggiando verso lidi difficili. "Che ci sia in un episodio rispetto all'altro una connotazione razzista più o meno marcata -ci spiega al telefono-, a partire dall'assalto ai campi rom e a finire all'episodio del Pigneto, sicuramente sono in molti che pensano che ci debba fare giustizia da soli. Il capo della polizia ieri avrebbe dovuto lanciare l'allarme su questo". Per Leoni "la manifestazione non era fuori luogo. Così come non era fuori luogo neanche l'allarme razzismo". "C'è un'attività squadristica permanente di gruppi di estrema destra che si sentono coperti da un clima politico a loro favorevole". Secondo l'ex deputato di Sd, dunque, "rimane tutto", a prescindere da quanto può dichiarare "una persona che aveva precedenti penali per reati contro il patrimonio, non certo uno stinco di santo". E il tatuaggio di Che Guevara? "Non basta per essere definibile di sinistra".
GIUNGLA METROPOLITANA - Tant'è. Eppure dopo che anche il guerrigliero di Fidel è passato dall'altra parte, e dopo la fuga di Rutelli nell'esilio d'oro dell'ex Copaco, a Roma, nel centrosinistra, resta solo Zingaretti. Gli assessori della giunta Veltroni sono sparsi tra Camera e Senato o tornati alle vecchie mansioni. I dirigenti, molti dei quali riconfermati, faticano a riassestarsi sulle nuove lunghezze d'onda. In consiglio comunale, riferimento della sinistra è Andrea Alzetta, il "Tarzan" di Action, unico sopravvissuto alla strage elettorale dei compagni ed oggi capogruppo di SA in consiglio. Anche questo un segnale. "Se guardi sia le elezioni in consiglio sia i municipi, quelli che hanno preso più voti sono stati quelli di Tarzan e di Sinistra Democratica", analizza Leoni. "Si sono dimostrate le due strutture più radicate nella società. Questo è un problema che riguarda la SA ma riguarda anche il Pd tutto il centrosinistra: bisogna ancora riorganizzare le idee sulle ragioni della sconfitta e capire su quale asse riprendere la strada di un'opposizione che punti ad una battaglia progressista". Per Leoni è necessaria una cesura con il passato, che è fatto di luci e di ombre. Quali ombre? gli chiediamo. "Chi teneva le leve del comando in questa città - ci risponde- pensava di aver costruito ormai un sistema di consenso inattaccabile ed infrangibile, e si è poco preoccupato dei bisogni e delle inquietudini quotidiane della popolazione". In due parole, per Leoni, nelle stanze romane aleggiava la certezza che "se ci sostengono il Corriere, il Messaggero e i costruttori allora la continuazione è garantita. E invece no".
LA FINE DEL MODELLO ROMA - Con noi, Walter Tocci, ex assessore alla mobilità ed oggi deputato, fa una riflessione partendo dal passato per esaminare il nucleo del problema, il nodo critico su cui è caduto il modello. "Per quindici anni", ci spiega al telefono, "abbiamo guardato la città con gli occhi dell'amministratore. L'amministratore non vive sulla luna, ed anzi ha un punto di vista molto completo. Però non c'è dubbio che osserva la città dall'osservatorio degli strumenti amministrativi". Contemporaneamente, "i nostri partiti, i partiti di centrosinistra, si sono limitati a raccogliere i consensi che venivano dai sindaci ma non hanno saputo sviluppare un'autonoma azione politica nei quartieri e nei territori". Tranne, ovviamente, alcune eccezioni, come circoli e associazioni. I partiti, per Tocci, "sono stati più dei raccoglitori di voti piuttosto che dei creatori di politica". Questa duplice e sforbiciata visione, amministratori e raccoglitori di voti è sfociata negli ultimi tempi in "una certa sicumera di cui l'espressione modello Roma è emblematica". Avendo una visione solo amministrativa, spiega l'ex assessore, "abbiamo perso la finezza dello sguardo, in questo magma sociale in cui può accadere una vicenda come quella del Pigneto". "Secondo me -continua- è mancata una costruzione politico-sociale oltre a quella amministrativa. Abbiamo governato la città anche bene, non dobbiamo flagellarci, però l'abbiamo fatto con una logica di governo. E' mancata una capacità di costruire uno schema politico-sociale". Capacità che Alemanno aveva? "La destra elabora dei modelli che poi in qualche modo influenzano anche i comportamenti sociali. Dal loro punto di vista, loro costruiscono un proprio popolo. Questo vale sia per gli atteggiamenti conservatori, ma anche per quella certa parte estremistica che si sente legittimata avendo oggi un sindaco vicino ai loro colori: li ha resi più forti, più visibili. Noi, il nostro popolo, non siamo riusciti a costruirlo. Tranne agli inizi, negli anni 90, dopo tangentopoli, quando abbiamo interpretato un "popolo dell'innovazione", del progressismo". Veltroni, in questa impresa, ci ha provato. E secondo Tocci ci è riuscito. "La sua narrazione della città, il suo insistere sui valori era in fondo un fare popolo". Però "era molto dall'alto, era molto legato alla sua figura come leader e come sindaco".
Ok, Veltroni aveva un suo popolo. Però Alemanno ha tolto le strisce blu.

Pescati nella Rete: Valdo Spini

Dal sito www.aprileonline.info
Socialisti, la diaspora si può fermare
Andrea Scarchilli , 30 maggio 2008, 17:35
Politica A meno di un mese dal congresso, Valdo Spini "lancia un sasso nello stagno". Perché non utilizzare l'appuntamento elettorale dell'anno prossimo per fare una lista comune di quanti, nel Pd, in Sd e nel Ps, ancora si riconoscono nell'appartenza al Pse? Un modo per aprire un dibattito, e riconquistare spazio
A meno di mese dal congresso del partito socialista, quello in cui si dovranno affrontare, per la segreteria, il presidente del Consiglio regionale della Toscana Riccardo Nencini e l'eurodeputata Pia Locatelli, il dibattito all'interno della formazione della Rosa europea, sulle prospettive future, non si ferma. I socialisti sono di fronte a un bivio: se dovesse prevalere, all'assise di giugno, Nencini, si opterà per un forte pressing sul Partito democratico per tentare di fare quanto non è riuscito a Enrico Boselli: l'alleanza. La linea della Locatelli, invece, è sul modello dell'assemblea di Chianciano Terme, quello che vuole e si muove per un soggetto liberale, radicale, socialista e laico anche al di fuori dei partiti già consolidati.
Valdo Spini, già tra i fondatori di Sinistra democratica e poi confluito nel comitato promotore del Partito socialista, ancora non si è posizionato ufficialmente nella battaglia congressuale, anche se parrebbe orientato a sostenere Nencini (a cui, tra l'altro, darà il suo appoggio Gavino Angius, che lasciò assieme a Spini Sd per entrare nel gruppo fondatore del Ps). Proprio nelle settimane in cui i delegati si preparano ad eleggere un nuovo leader che tenterà di rianimare una formazione sfiancata dalle ultime elezioni, l'ex vicecapogruppo di Sd alla Camera prova, come dice lui, a "lanciare un sasso nello stagno". Intervenendo in un dibattito con il vicepresidente democratico del Senato Vannino Chiti in un convegno alle Caldine (provincia di Firenze) e chiarendo le sue affermazioni ad "Aprileonline".
Il ragionamento delle Caldine prende spunto dall'opinione che "il dopo elezioni, dopo la vittoria politica di Berlusconi non può essere caratterizzato, nella sinistra e, nel senso più ampio nel centrosinistra, dalla continuazione sic e simpliciter delle polemiche della campagna elettorale. Dobbiamo fare, per quanto a ciascuno può competere, di più e meglio". Quello che compete a Valdo Spini è tentare di impedire che una diaspora violenta annienti le singole esperienze del Pse in Italia. L'anno prossimo ci sono le elezioni europee: perché non fare una lista comune di quanti aderiscono al Partito socialista europeo? Dice Spini: "Oggi esiste nel gruppo socialista al Parlamento Europeo una componente italiana a cui appartengono parlamentari che militano oggi sia nel Pd (sono quelli di provenienza Ds), che nel Partito socialista, che in Sinistra democratica. L'anno prossimo ci sono le elezioni europee. Che cosa faranno questi parlamentari: si divideranno in varie liste italiane? Oppure si può cominciare fino da ora un'azione politica che non prescinda certo dalle novità intervenute come la formazione del Partito democratico, ma per quanto attiene all'Italia agisca, per unire e non per dividere e, per quanto attiene all'Europa, per non operare rotture di continuità con la militanza socialista europea, ma al contrario allargarla?".
I nomi "pesanti", delle tre formazioni, nel Parlamento europeo già ci sono. Per fare qualche esempio: Sinistra democratica ha il neo coordinatore del movimento Claudio Fava e Pasqualina Napoletano, il Pd il capo della delegazione italiana Gianni Pittella, i socialisti la vicepresidente Pia Locatelli. Spini, intanto, vuole mantenere intatto questo patrimonio e questa appartenenza comune, poi "vediamo che succede". Il Partito democratico, del resto, ha in corso un dibattito sulla futura collocazione in Europa. E' noto che una parte del Pd fa capo ai socialisti europei, un'altra (l'ex Margherita) ai liberali. Spini si domanda: "Cosa faranno, l'anno prossimo, si presenteranno agli elettori dicendo che un pezzo degli eletti va da una parte e il secondo pezzo da un'altra?". E' noto che si sta tentando, attraverso un apposito gruppo di lavoro, di risolvere la questione, magari allargando le basi del gruppo socialista e farvi trovare spazio anche ai liberali - margheritini. Se, tuttavia, dovesse prevalere l'opzione di chiusura e non si riuscisse ad allargare il socialismo europeo anche alle nuove leve democratiche, si aprirebbero nuovi varchi. E la proposta di Spini, in sostanziale accordo con la mozione di Nencini, vuole utilizzarli per riaprire il discorso all'alleanza e ricominciare ad intaccare la solitudine veltroniana. Lo stesso ragionamento è rivolto a Sinistra democratica: "Che fa Fava, vuole rifare la sinistra con Rifondazione?". Spini è più interessato, evidentemente, al tavolo di confronto che il neo coordinatore di Sd ha aperto con Veltroni. Secondo lui, le elezioni europee potrebbero essere l'opportunità di aggiungere un posto a tavola. Riservato al Partito socialista.

Segnalazione: Giorgio Ruffolo

Ma perché la sinistra dovrebbe vincere?di Giorgio Ruffolo - 30/05/2008Fonte: La Repubblica [scheda fonte]
Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali. In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l’intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare». É un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l’iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell’umore politico e del comportamento elettorale. Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli "attrattori" del comportamento: tutte "spie" di mutamenti antropologici. Nell’ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l’Uomo medievale o l’Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare). Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile. La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell’impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt’altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D’altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell’edonismo materialistico. Sult erreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell’incontinenza consumistica; e l’ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c’è più; dall’altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali. Ecologiche: l’insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita. Morali: l’orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti. La sinistra, da una parte, quella "radicale", recita un vecchio copione inattendibile. Dall’altra, quella "riformista", insegue una rispettabilità politica basata sull’imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.

venerdì 30 maggio 2008

Vittorio Melandri: domande sul PD e la Chiesa

Nello stesso punto fisico del quotidiano l’Unità, ultima pagina ultima colonna a destra, in cui il 29 maggio si poteva leggere Antonello Soro, presidente del gruppo parlamentare alla Camera dei deputati, per il PD, che affermava entusiasticamente….
“non possiamo non vedere come la Chiesa stia tornando nei suoi interventi a una ispirazione autenticamente pastorale”
il 30 maggio si leggono queste parole di Monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana:
“ho l’impressione che la svolta programmatica propiziata dal Vaticano II non sia stata ancora sufficientemente recepita. I moduli dell’interpretazione sociale da parte dell’istituzione ecclesiale, ma diciamo anche dell’autocoscienza cristiana nella sua maggioranza, risultano spesso inavvertitamente debitori del precedente quadro di riferimento”.

Senza evocare Nanni Moretti, che se ne è presto tornato al suo cinema, abbandonando al vento le sue profetiche parole, “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai” sono, con il Giorgio Ruffolo che si legge su la Repubblica del 30 maggio, per chiedermi, “ma perché la sinistra dovrebbe vincere?” visto che, come fotografa con sintesi amarissima Ruffolo:

“la sinistra, da una parte, quella “radicale”, recita un vecchio copione inattendibile. Dall´altra, quella “riformista”, insegue una rispettabilità politica basata sull’imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.”

Il 30 maggio è stato davvero un giorno di lezioni esemplari, per il “tipo di dirigenti mediocri” che la sinistra si ritrova ancora in testa. Lezioni esemplari sia per il contenuto sia per le inopinate “cattedre” da cui sono giunte, peccato solo che il “tipo di dirigenti mediocri” che la sinistra si ritrova ancora in testa, sia caratterizzato ad un tempo da presunzione che continua ad essere a crescita esponenziale e da una capacità di ascolto prossima allo zero virgola zero.

Personalmente mi ostino a riassumere.

Oltre ai già citati Coda e Ruffolo, agli estasiati estimatori del “gioioso” Benedetto XVI, felice per il sereno, pacato, clima di dialogo da Lui solennemente certificato (dopo che Crozza lo aveva invece così svilito)

Giancarlo Bosetti su la Repubblica suggerisce di chiedersi “su quale base riposi una presunta facoltà della Chiesa romana di dettare l’agenda” e ricorda agli estasiati, fra le altre cose, che “tanta vicinanza della Chiesa all´agenda politica italiana (e solo questa?) è sospetta, specie nelle parole della sua guida più alta”.

Guido Rossi, di cui sempre su la Repubblica vengono riportati brani presi dalla sua prefazione al libro di Robert B. Reich “Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia”, Fazi editore, pagine 320, € 25, ricorda agli “imitatori” della sinistra riformista, cosi battezzati giustamente da Ruffolo, come ….

“il deficit grave di democrazia debba essere affrontato mettendo sotto accusa l’intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumisti e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che, come del resto ho scritto nel mio ultimo libro, abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme.”

E per finire in gloria, ci si mette addirittura il Consigliere Delegato di Intesa Sanpaolo

Corrado Passera, ieri a Trento al Festival dell’economia, ed oggi ripreso in prima pagina su Il Sole 24 ORE, a spiegare ai post-post-post comunisti e ai post-post-post democristiani di sinistra, che dominano l’opposizione parlamentare, che oggi
“il dinamismo del capitalismo democratico, fatto di crescita vigorosa, coesione sociale, welfare, diritti civili, libertà di informazione e di espressione, mobilità sociale, appare aver perso la sua spinta e si mostra quasi inceppato.”
Ai post-post-post, da neofiti evidentemente troppo zelanti nel considerare il mercato proprio come lo considera il vincente Berlusconi, ci deve pensare il manager Passera a ricordare che “il mercato lasciato a se stesso (o ai Berluscones, aggiungo io), imporrebbe la sua legge spesso crudele e iniqua, il suo darwinismo sociale fondato solo su rapporti di forza….per tutte queste ragioni, e nel rispetto reciproco, la democrazia deve avere il primato rispetto al mercato”.
Per cui, mi sento di concludere, sino a che la “democrazia” sostanziale non avrà il primato sulla “nomenclatura” dominante a sinistra, sia essa sedicente radicale sia essa sedicente riformista, varrà la domanda: “ma perché la sinistra dovrebbe vincere?”

Vittorio Melandri

Pescati nella rete: povertà e solidarietà

Da www.laviedesidées.fr

Pauvreté et solidarité : entretien avec Serge Paugam
Oggi 30 maggio 2008, 30 minuti fa
À l'heure où s'amorce une réforme en profondeur des minima sociaux, le sociologue Serge Paugam revient sur l'importance de la notion de solidarité dans la réflexion sociologique, sur l'évolution des représentations sociales de la pauvreté et sur les défis auxquels notre système de protection sociale est confronté. C'est l'occasion d'inscrire l'ambition du Revenu de Solidarité Active – mettre fin à la pauvreté – dans une perspective historique et sociologique de longue durée. - Essais & débats / , , , , ,
20080530_paugam.mp3

Pescati nella Rete: Marcello Cini

dal sito di micromega

Marcello Cini: “Il miraggio nucleare tra interessi e propaganda” (AUDIO)
Ieri 29 maggio 2008, 16.13.51 rvignoli
Marcello Cini, professore emerito di Istituzioni di Fisica Teorica e Teorie quantistiche all’Università "La Sapienza" di Roma, spiega perchè la scelta del governo di tornare al nucleare è completamente sbagliata da un punto di vista economico, politico e ambientale.
Scarica (10′ e 03”, 4,66mb)
(29 maggio 2008)

segnalazione: il piano Brunetta

LINEE PROGRAMMATICHE SULLA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Ministro per la pubblica amministrazione e innovazione
- Piano Industriale – Bozza: Primo Progress - Mercoledì, 28 maggio 2008
PREMESSA
Il tema della modernizzazione della Pubblica Amministrazione è cruciale per il Paese nel suo complesso:
non solo per le rilevanti dimensioni "quantitative" in gioco in un momento di evidente e grave gracilità competitiva del sistema economico (è stato stimato nell'equivalente di 2 punti di PIL un recupero di efficienza del 10% nella PA);
ma anche per la speciale configurazione dei caratteri dominanti dell'impresa privata italiana (modesta dimensione, proprietà familiare, vocazione all'esportazione, concentrazione nel manifatturiero e nei segmenti medi di valore, elevati costi dei fattori, etc).
Ciò rende strategico il ruolo dei beni e servizi pubblici offerti, in termini di quantità disponibili, qualità, costo, non meno che di coerenza/adeguatezza con la domanda.
Per tracciare le traiettorie di un rapido ed efficace programma di risanamento, ristrutturazione e rilancio della macchina pubblica italiana, bisogna muovere da alcuni presupposti condivisi:
la dotazione di capitale umano della nostra Pubblica Amministrazione;
i livelli retributivi allineati al settore privato;
la produttività media dei dipendenti pubblici e l'efficienza media delle organizzazioni pubbliche;
il deficit competitivo;
la mancanza della figura del datore di lavoro.
1. La dotazione dì capitale umano della nostra Pubblica Amministrazione è mediamente adeguata e addirittura, comparata a quella disponibile nel settore privato, migliore per alcune voci significative: tassi di scolarità, presenza femminile e distribuzione "orizzontale" delle competenze (restano preoccupanti l'età mediamente elevata e la scarsa apertura internazionale).
2. I livelli retributivi sono allineati al settore privato (soprattutto per le posizioni professionali d'ingresso) e contrassegnati da una dinamica di crescita più favorevole (a fronte di ciò l'attuale posizionamento economico-normativo dei dipendenti pubblici è caratterizzato da nessun rischio occupazionale, bassa mobilità e una quasi automatica progressione di carriera, materia di una vera condizione di privilegio nei confronti dei dipendenti privati, che in più scontano crescenti e assai elevati rischi occupazionali, instabilità professionale e carriera retributiva molto meno garantita).
3. La produttività media dei dipendenti pubblici e l'efficienza media delle organizzazioni pubbliche sono assai basse, non solo rispetto alle migliori prassi consolidate nei Paesi occidentali nostri competitor, ma anche e soprattutto rispetto agli indici di funzionamento del settore privato.
4. Il deficit competitivo comparato deriva sia da regole sia da forme organizzative inadeguate: è, infatti, soprattutto l'improprietà dei modelli adottati che genera i noti effetti perversi sulla distribuzione delle risorse (p.es.: 50% ca. del personale è addetto ad attività estranee alla missione istituzionale dell'Amministrazione di appartenenza, ed è invece dedicato ad attività di back-office, funzionali alla mera sopravvivenza "definalizzata" dell'Amministrazione stessa; la produttività della PA nelle sedi al Sud è la metà di quelle al Nord; le sedi centrali delle Amministrazioni assorbono elefantiache quantità di personale rispetto a quelle distribuite nel territorio, con una proporzione 3 volte peggiore che nel privato; etc).
5. Occorre introdurre nel lavoro pubblico la figura del datore di lavoro a cui sia possibile imputare l'eventuale responsabilità di un "fallimento" dell'Amministrazione, analogamente a quanto avviene per il fallimento civilistico nel settore privato.
Se nelle aziende private un imprenditore non sa gestire la sua azienda e non è capace di impartire le giuste direttive ai collaboratori, né di controllare se sono capaci di assicurare la salute economica e lo sviluppo all'impresa, questa va in fallimento o in amministrazione controllata, e si portano i libri in tribunale. L'imprenditore paga di persona. Lo stesso deve avvenire, in termini politico-amministrativi, per le Amministrazioni pubbliche.
Oggi, almeno gli enti locali possono essere commissariati e i loro organi eletti possono essere sciolti, ad esempio nel caso estremo in cui si hanno prove di infiltrazioni mafiose. Ma per lo stato centrale non valgono neanche queste regole estreme.
Occorre, quindi, stabilire il principio della responsabilità datoriale (politica e amministrativa) anche nel pubblico.
Manca ancora, e noi vogliamo costruirla, la figura del datore di lavoro politico-amministrativo, che in base alla legge impartisce le direttive ai dirigenti pubblici. Il
ministro, il governatore, il sindaco debbono sapere che se il ministero, la regione, il comune non manterranno gli obiettivi finanziari e produttivi su cui si sono impegnati, saranno obbligati ad ammettere le loro responsabilità e, al limite, anche a dimettersi dall'incarico.
In questo modo si potrà stabilire una piena analogia con l'impresa privata e si potranno introdurre criteri non occasionali per la selezione, nella classe politica, di buoni amministratori. Criteri che fino a questo momento sono mancati al Paese.
Sulla base di questi presupposti, è necessario convergere su alcune linee-guida di carattere culturale:
a) la necessità di un passaggio dalla cultura del procedimento a quella del provvedimento, da quella dell'adempimento a quella del risultato, da quella della funzione a quella del processo, da quella dell'autotutela a quella della responsabilità;
b) l'urgenza di una profonda revisione dei processi produttivi delle amministrazioni, con l'obiettivo di ottenere risparmi economici e una migliore soddisfazione dell'interesse del cittadino-cliente;
c) l'indispensabilità di estendere le aree della gestione a concetti, indirizzi e pratiche analoghi a quelli presenti nel privato in termini di autonomia, economicità e delegificazione della gestione;
d) la trasformazione dell'attuale modello di relazioni industriali, a vocazione difensiva e consociativa, in un modello a vocazione propulsiva e partecipativa (partnership sociale) nella riorganizzazione delle amministrazioni e della gestione delle risorse umane ai fini del risultato;
f) l'utilizzo in via primaria e fondamentale della risorsa
umana, delle sue competenze professionali, delle sue
motivazioni e delle sue capacità relazionali e organizzative.
Nella PA italiana esiste un bacino di produttività latente e inespressa, straordinario per intensità di dimensione e per facilità di accesso, il cui utilizzo è compito immediato e primario del Governo, delle parti sociali, delle categorie economiche, dell'intera società civile.
Da un lato si può prudenzialmente stimare che esso - in un orizzonte temporale di medio periodo (3-5 anni) - sia attingibile nella misura del 20%, generando un recupero di risorse economiche pari a ca. 40 mld € senza lacerazioni sociali od occupazionali (attraverso il blocco del turnover e la copertura di bisogni pubblici oggi non presidiati).
Dall'altro, si può prevedere che una netta accelerazione dei livelli di efficienza della macchina pubblica generi a sua volta un poderoso effetto booster sul settore privato, che oggi sconta nel suo sistema di costi un implicito onere di "inefficienza burocratica" gravoso e iniquo.
1. INTERVENTO LEGISLATIVO PER OTTIMIZZARE LA PRODUTTIVITÀ' DEL LAVORO
E' indispensabile qualificare, migliorare e rafforzare l'insieme dei beni e servizi pubblici prodotti, al fine di raggiungere nell'arco di 3-5 anni gli standard internazionali in termini di rapidità dei processi amministrativi e qualità degli stessi beni e servizi offerti.
Dobbiamo, pertanto, introdurre, nell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, sistemi di selezione, valutazione e gestione improntati al merito e alla trasparenza anziché all'anzianità e alle pressioni di forze politiche e sindacali.
Riconoscere e premiare chi vale e si dà da fare e sanzionare chi non fa il proprio dovere favorirà l'innalzamento della produttività di tutto il settore pubblico, affinché i cittadini ricevano servizi migliori e in tempi più rapidi.
Le direttrici sono cinque:
riconoscere e premiare il merito;
potenziare e valutare con criteri moderni e trasparenti l'operato del personale delle amministrazioni pubbliche;
ridefinire diritti e doveri del dipendente pubblico, restituendo dignità e prestigio a questo ruolo e consentendo di sanzionare chi lo svilisce con un comportamento scorretto;
rivalutare il ruolo e i compiti del dirigente pubblico;
potenziare la funzionalità delle amministrazioni attraverso la contrattazione collettiva e integrativa anche al fine di consentire la riorganizzazione dei luoghi di lavoro in accordo con i modelli dell'organizzazione del lavoro ad alta performance.
1. Merito e premialità
In questo momento esiste una elevata recettività da parte di un gran numero di italiani a far sì che un nuovo "circolo virtuoso del merito" si espanda e si estenda a tutta la nostra società. Il sistema migliore per creare una società meritocratica, fino a prova contraria, è il libero mercato che diventa, quindi, il contesto essenziale dove l'individuo viene misurato in base ai suoi risultati.
Ma nessuna società può divenire meritocratica senza uno Stato che goda della fiducia dei cittadini e sia esso stesso un simbolo del merito.
Solo una pubblica amministrazione meritocratica può avere la credibilità e la forza per immettere meritocrazia negli altri fondamentali motori dell'ascensore sociale e delle pari opportunità. Uno straordinario miglioramento del livello di servizio pubblico deve essere uno dei pilastri della nuova "politica del merito".
In tale ambito, saranno individuati sistemi di misurazione e valutazione delle organizzazioni pubbliche diretti a rilevare la corrispondenza dei servizi e dei beni resi ad oggettivi standard di qualità rilevati anche a livello internazionale, nonché stabilire percentuali minime di risorse finanziarie da destinare al merito e alla produttività.
Il bilancio di ciascuna amministrazione deve assumere un ruolo fondamentale, non solo ai fini giuridico-contabili, ma per valutare l'efficienza complessiva dell'amministrazione stessa.
I risparmi di gestione potrebbero essere utilizzati per premiare dirigenti e impiegati (si pensi, ad es. ai consumi di carta ed energia, ai risparmi ottenibili attraverso la raccolta differenziata della carta ecc.).
2. Valutazione del personale
Saranno definiti precisi e obiettivi sistemi di misurazione e valutazione delle organizzazioni pubbliche, in grado di rilevare se i servizi resi ai cittadini sono improntati a standard di tempestività e qualità definiti anche a livello internazionale; lo
scopo è valorizzare l'impegno e la professionalità dei singoli e delle strutture di appartenenza.
La valutazione del personale deve essere, unitamente al riconoscimento del merito e agli incentivi, e alla soddisfazione dei cittadini e dello stesso personale per il proprio lavoro e per l'organizzazione del processo produttivo cui partecipa, il volano per un'amministrazione pubblica produttiva ed efficiente.
I risultati della valutazione delle singole amministrazioni dovranno essere resi pubblici e trasparenti mediante i siti internet, ai quali i cittadini potranno rivolgersi per avanzare proposte di miglioramento e segnalare eventuali difetti e disservizi.
3. Dirigenza
Il dirigente deve diventare il cardine della manovra di miglioramento della produttività e della qualità dei servizi. Le norme previste tendono a trasformare il dirigente pubblico in un vero manager, reso il più possibile autonomo nell'uso delle risorse umane e finanziarie, attribuendogli precise ed ampie competenze in materia di organizzazione degli uffici e dei servizi.
La valutazione della dirigenza deve essere il primo tassello dell'intero sistema di valutazione di tutto il personale. Una delle conseguenze più importanti della nuova valutazione dovrà essere un'effettiva differenziazione delle retribuzioni di risultato dei dirigenti sulla base esclusiva del merito.
Al dirigente sarà anche assegnato il compito di vigilare sulla effettiva produttività dei collaboratori che gli saranno assegnati, e sarà considerato responsabile delle violazioni disciplinari che non segnalerà tempestivamente.
Viene anche prevista una specifica ipotesi di responsabilità del dirigente nel caso di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle risorse umane assegnate.
Un ulteriore importante principio sarà quello di rivedere in senso meritocratico la disciplina dell'accesso alla dirigenza, anche a quella di prima fascia. L'applicazione di questo principio sarà reso più facile dall'adozione di un sistema regolare di valutazione (almeno semestrale).
4. Definire diritti e doveri del dipendente pubblico
Per rendere più efficienti gli uffici pubblici occorre anche combattere la scarsa produttività e l'assenteismo.
Questo si può ottenere attraverso un'organizzazione più flessibile e attenta alla collocazione produttiva dei dipendenti; ma si
rende anche necessario modificare la disciplina delle sanzioni e della responsabilità nell'ambito del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.
In particolare, bisognerà semplificare e accelerare le fasi dei procedimenti disciplinari, con particolare riferimento a quelli per le infrazioni di minore gravità.
5. Potenziare la funzionalità delle amministrazioni attraverso la contrattazione collettiva e integrativa
Saranno previste una serie di misure volte ad accelerare le procedure di contrattazione, al fine di evitare i cronici ritardi degli anni passati. In particolare si prevede:
una riduzione dei comparti di contrattazione;
revisione della durata dei CCNL in linea con il settore privato;
individuazione di criteri di regolazione della contrattazione di secondo livello al fine di consentire il pieno raccordo con la situazione economica e finanziaria dell'Ente e con il rendimento complessivo dell'amministrazione;
riordino dell'ARAN in modo da garantire una rapida, e possibilmente, una simultanea definizione dei Contratti;
potenziamento del potere di rappresentanza delle regioni e delle autonomie locali e revisione del sistema della contrattazione anche in vista del federalismo fiscale;
introduzione di una clausola di salvaguardia relativa alla durata dei contratti in caso di esubero della spesa dei CCNL.
Si prevede anche di rafforzare l'autonomia e la responsabilità del datore di lavoro pubblico nella gestione delle risorse umane, riconoscendogli competenza esclusiva in materia di valutazione del personale, progressione economica, riconoscimento della produttività e mobilità.
2. RIORGANIZZAZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
Parallelamente alla riforma del lavoro pubblico, occorrerà intervenire con misure, normative e non, dirette a razionalizzare l'organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni e a sviluppare una forte accelerazione dell'innovazione tecnologica.
Le azioni si muoveranno su quattro punti principali.
Mobilità delle funzioni.
Qualità e Customers' satisfaction.
Utilizzo ottimale degli immobili.
Sponsorizzazioni e project financing.
1. Mobilità delle funzioni
Le attribuzioni delle amministrazioni centrali sono definite per legge. Tuttavia, spesso occorre adattare i moduli organizzativi deputati all'erogazione di prestazioni e servizi e, al tempo stesso, concentrare le singole amministrazioni sulle funzioni che si ritengano essenziali. Ciò richiede un processo di riallocazione delle funzioni tra amministrazioni (e tra i livelli di governo centrale e locale) nonché tra amministrazioni e privati, secondo un modulo possibile che possa prescindere dall'intervento legislativo.
Principi-guida di tale processo sono:
la sussidiarietà, orizzontale e verticale;
la mobilità delle funzioni;
anche al fine di assicurare una maggiore creatività, innovatività e autonomia del lavoro pubblico, la possibilità di carriere indipendenti da raccomandazioni e anzianità, un'amministrazione più intelligente e più colta, una maggiore soddisfazione dei lavoratori e una più efficace partnership sociale.
2. Qualità e Customers' satisfaction
E' necessario migliorare la qualità dei servizi pubblici
promuovendo la gestione orientata al miglioramento continuo, la adozione di standard, la misurazione della soddisfazione ed il benchmarking.
Sarà incentivato il ricorso a modelli di eccellenza, basati su autovalutazione e miglioramento continuo, in linea con indirizzi europei (CAF-Common Assessment Framework) nelle amministrazioni statali e non; sarà data attuazione all'art. 11 d.legs 286/99 per la definizione di standard di qualità nei servizi pubblici; sarà promossa la adozione di strumenti per la misurazione ed il miglioramento della soddisfazione dei servizi pubblici on line ed in presenza; saranno valorizzate e disseminate le pratiche di eccellenza anche attraverso premi di rilevanza nazionale, saranno attivate iniziative di benchmarking tra amministrazioni.
3. Utilizzo ottimale degli immobili
Occorre consentire negli immobili pubblici attività aggiuntive rispetto a quelle cui è destinato l'immobile in via primaria. Ciò consente di fornire servizi collegati tra loro all'utenza e di utilizzare anche risorse umane che si rendano disponibili, previa corresponsione di forme di retribuzione.
4. Sponsorizzazioni e project financing
Saranno previste misure volte a favorire e incrementare le iniziative di sponsorizzazione e di finanziamento di progetto, già consentite dalla legge, con una loro programmazione da parte delle amministrazioni dello Stato. Ciò consentirà l'utilizzo di risorse finanziarie per le seguenti priorità: maggiori entrate, nuove disponibilità finanziarie da destinare a nuova occupazione anche temporanea, incremento degli stanziamenti destinati a incentivare produttività del personale e dei dirigenti.
La sponsorizzazione potrà essere utilizzata anche per le finalità dell'utilizzo ottimale degli immobili.
Inoltre, sulla base delle migliori esperienze nazionali e internazionali di razionalizzazione dei servizi pubblici, vanno in particolare predisposte e implementate due diverse tipologie di piani di azione (non necessariamente legislativi), rispettivamente orientate a:
Cuna, conseguire recuperi strutturali di efficienza, attraverso la riduzione degli overhead, la ristrutturazione delle missioni operative e dei relativi processi, la razionalizzazione e la concentrazione dei livelli e delle strutture organizzative, accorciare la catena decisionale (diminuire il numero dei dirìgenti, favorire l'ingresso di nuove professionalità polifunzionali di supporto al dirigente);
l'altra, conseguire benefici one-shot di cassa, attraverso la dismissione di quote inessenziali del patrimonio o del business.
La prima tipologia di piani sarà articolata lungo le seguenti linee di intervento:
significativa contrazione delle mere attività di supporto e back¬up alle attività istituzionali delle Amministrazioni, attraverso la loro concentrazione in poli specialistici di eccellenza (amministrazione del personale, selezione del personale e organizzazione dei concorsi, contabilità, tesoreria, patrimonio e acquisti, comunicazione non strategica, ecc.), unificati presso TAmministrazione - o più amministrazioni - che assolvono detti compiti nel modo più efficace.
Generale riconfigurazione di tutti i processi organizzativi alla luce della loro diretta riconducibilità alle missioni istituzionali(logica pulì e non push), eliminando ogni fase non connotata da adeguato valore aggiunto attraverso la re-ingegnerizzazione focalizzata del flusso procedimentale e amministrativo. Il saving può essere prudenzialmente individuato nel 20% dei costi generali di funzionamento: e può pertanto essere assegnato alle Amministrazioni come obiettivo obbligatorio di miglioramento nel triennio.
Allineamento progressivo delle prestazioni di tutte le articolazioni organizzative delle Amministrazioni ai top performer interni censiti come tali.
Revisione delle politiche d'acquisto di beni e servizi, secondo le logiche e i modelli del strategie sourcing. Si penalizzeranno quelle amministrazioni che non provvedono (a titolo di esempio):
- all'acquisto di energia mediante l'individuazione delle migliori offerte;
- all'acquisto delle TLC mediante l'individuazione delle migliori offerte;
- all'adozione di programmi di dematerializzazione;
- alla raccolta differenziata della carta;
Trasformazione, pur mantenendone la proprietà in mano pubblica, degli Enti e Istituti a vocazione economica, a cominciare da quelli previdenziali e assicurativi, in società per azioni o Agenzie, al fine di conseguire i relativi benefici, sia in termini di riduzione dei costi di funzionamento sia di semplificazione e fluidificazione dei modelli di gestione e di prossimità al cliente/utente. Alcune amministrazioni possono finanziarsi, almeno in parte, vendendo servizi collaterali alla propria attività istituzionale, a prezzi di mercato.
La seconda tipologia di azioni sarà concentrata sulle seguenti attività:
dismissione delle quote residue dei patrimoni immobiliari delle Amministrazioni e degli Enti ancora inutilizzate o insufficientemente utilizzate, nonché dei titoli azionari od obbligazionari non pubblici ancora detenuti dagli Enti; cessione delle attività non-core, di fatto costituite in "rami d'azienda" improduttivi, degli Enti;
razionalizzazione delle sedi e degli uffici periferici delle Amministrazioni e degli Enti, concentrando, accorpando e unificando i presidi sui territori, qualificandone la logistica e riformandone il lay out alla luce dei nuovi standard internazionali e alle migliori prassi di organizzazione del lavoro e di relazione con i clienti;
re-ingegnerizzazione della presenza delle sedi e dei servizi sul territorio, superando la logica del presidio "fisico" delle aree periferiche, attraverso il rafforzamento delle relazioni - sia Business to Business, sia Business to Consumers - telematiche e telefoniche con i clienti e attraverso l'attivazione di sinergie in convenzione con altri attori (p.es. Poste, banche) presenti in modo distribuito e diffuso sul territorio nazionale, e conseguentemente dismettendo le sedi "minime" (sotto i 20/30 addetti). 33
3. RUOLO STRATEGICO DELLA DIGITALIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Il Codice dell'Amministrazione Digitale (CAD) ha definito il quadro di diritti dei cittadini e delle modalità da parte delle PP.AA. di utilizzare le nuove tecnologie. Il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) rappresenta una parte consistente del piano di attuazione della normativa contenuta nel CAD.
Negli ultimi anni, accanto alle grandi aree tradizionali di sviluppo informatico, previdenza e finanza, si è venuta sviluppando una intensa attività di realizzazione di progetti di digitalizzazione, sovente sperimentali, che hanno interessato una molteplicità di amministrazioni sia centrali che periferiche.
Tale intensa attività, che ha comportato costi ingenti, è stata generalmente scoordinata e disordinata con sprechi e duplicazioni.
E' significativo osservare come solo una piccola percentuale dei servizi on-line della Pubblica Amministrazione - circa il 17% di quelli della PAC secondo la Relazione 2007 del CNIPA- permetta di concludere in rete l'intero iter della procedura. I risultati sono stati generalmente scarsi, sia sotto il profilo del back-office, sia soprattutto sotto quello del front-office: poco è stato percepito dal cittadino, ancor meno di effettivamente utile.
Ciò è dovuto alla mancanza di una effettiva "cabina di regia", alla scarsa cultura del risultato all'approccio generalmente poco orientato alle esigenze del cittadino-cliente, in una parola alla debolezza della committenza.
Occorre porre rimedio urgente a questo stato di cose, a partire dai soggetti che fanno parte del Ministero, Dipartimento Innovazione e Tecnologie (DIT) e Centro Nazionale per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA), che sono gli strumenti fondamentali dell'azione di digitalizzazione della PA, riordinandone attività e competenze e rilanciandone il ruolo di "cabina di regia" del processo di ammodernamento tecnologico della pubblica amministrazione.
Il Ministro utilizzando gli strumenti ad oggi disponibili (una Rete unica di Nuova Generazione tra le più avanzate d'Europa), sia normativi che infrastruttura li e tecnologici, darà concreta attuazione ai seguenti principi guida:
Raggiungere la piena condivisione e interoperabilità
tra le banche dati delle diverse amministrazioni centrali e locali. L'amministrazione potrà in tal modo essere unica davanti a ogni cittadino e ad ogni impresa.
Non potranno più essere richiesti ai cittadini e alle imprese dati che sono già in possesso delle amministrazioni pubbliche, pertanto la modalità one-stop-shop dovrà diventare pratica generalizzata .
Al cittadino dovrà essere garantito un unico strumento di accesso ai servizi, valido sia ai fini sanitari che fiscali (il codice identificativo personale).
Qualunque servizio accessibile in forma digitale non dovrà più essere erogato in formato cartaceo.
Le amministrazioni aboliscono l'uso della carta
(dematerializzazione).
Un sistema di cali center guiderà il cittadino e le imprese all'uso dei nuovi servizi.
I cittadini avranno a disposizione attraverso un sistema di reti amiche i servizi pubblici in condizioni di prossimità ed amicalità. A questo scopo verranno messe in competizione e sovrapposizione tra loro le reti di massima capillarità.
CONCLUSIONI
L'insieme delle misure del Piano industriale deve saper parlare a tutti i dipendenti pubblici:
rinnovare la loro missione e il loro impegno,
migliorare le loro performance e, contestualmente, la loro remunerazione,
evidenziarne la valenza di servizio alla Repubblica e alla democrazia,
saper suscitare energie e speranze per l'innovazione e per il futuro.
Le amministrazioni pubbliche devono tornare ad essere strumenti essenziali per la crescita civile, sociale ed economica del paese.
Il Ministro intende dare attuazione a questo piano non solo attraverso la migliore normativa esistente, ma anche attraverso i rilevanti strumenti operativi di cui già dispone:
i Dipartimenti (Funzione pubblica e Innovazione),
Scuola superiore della Pubblica Amministrazione,
CNIPA,
ARAN e
FORMEZ.
Il piano industriale prevede, pertanto, la rivisitazione e il rinnovamento delle missioni di questi Enti, al fine di dare piena attuazione alle presenti linee guida.

pescati nella rete: Giorgio Parisi

Dal sito www.sinistra-democratica.it

Giorgio Parisi
Nucleare? Una follia!
A poco più di venti anni dall’esplosione del reattore sovietico di Chernobyl e dalla chiusura di tutti gli impianti nucleari in Italia, il governo italiano progetta l’istallazione di 4 centrali nucleari. Si tratta di un progetto sconsiderato per molti motivi, alcuni dei quali estremamente seri.IN BASE A CONSIDERAZIONI PURAMENTE ECONOMICHE: NEL RESTO DEL MONDO SI COSTRUISCONO POCHISSIME CENTRALI NUCLEARI. Una centrale nucleare è un’oggetto estremamente costoso, che richiede molta energia per essere costruito, un’energia paragonabile a quella prodotta in diversi anni di funzionamento. Il prezzo attuale dell’uranio è abbastanza basso, ma le riserve di uranio facilmente estraibile si dovrebbero esaurire tra una trentina d’anni. Se si incomincia adesso a costruire una centrale nucleare, bisognerà farla funzionare in una situazione in cui il costo dell’uranio sarà molto, ma molto più alto di quello attuale. Non è un caso che poche ditte private siano disponibili a fare un investimento a lunghissima scadenza con rischi talmente elevati. Negli Stati Uniti l’ultima centrale nucleare è stata messa in cantiere nel 1978. Nel 2002 la Germania ha deciso di abbandonare il nucleare quando le centrali esistenti saranno troppo vecchie per funzionare (circa nel 2040). Attualmente il 30 per cento dell’energia elettrica installata negli Stati Uniti è di natura eolica. Fare nuove centrali nucleari è una scelta in controtendenza con quella del resto del mondo. LO SMALTIMENTO DELLE SCORIE NUCLEARI È PROBLEMATICO. I reattori nucleari producono una grande quantità di rifiuti estremamente radioattivi, che devono essere trattati industrialmente, per ridurne il volume. La frazione radioattiva più pericolosa è costituita da Plutonio che mantiene la sua radioattività per più di centomila anni. Il confinamento di queste sostanze altamente corrosive per un periodo così lungo pone problemi non facilmente risolvibili. Rischiamo di lasciare alle generazione future, sempre che l’umanità non si estingua prima, un problema impossibile da risolvere. Inoltre l’Italia non sembra avere un particolare propensione a gestire in modo brillante i rifiuti, di qualsiasi natura essi siano. L’ITALIA È L’ULTIMO PAESE DOVE COSTRUIRE CENTRALI NUCLEARI. Se affrontiamo il problema in una prospettiva Europea, non ha senso costruire centrali nucleari in Italia. Le centrali nucleari devono stare in zone non sismiche con bassa popolazione per un raggio di un centinaio di chilometri. Altri paesi, la Francia, i paesi nordici, hanno facilmente siti con queste caratteristiche, noi no. Installare centrali nucleari in Italia e impianti che sfruttano l’energia solare in Svezia non è una politica astuta. Non serve essere un brillante economista per capire che converebbe fare il contrario. CI SONO DEI RISCHI CHE NON POSSIAMO CORRERE. Anche se la ripetizione di un evento tipo Chernobyl sembra improbabile, non può essere escluso con le attuali centrali nucleari (forse lo sarà per le mitiche centrali nucleari di quarta generazione che dovrebbero essere messe a punto fra una ventina d’anni). La centrale nucleare di Chernobyl non è esplosa per un difetto di costruzione, ma a causa del comportamento demenziale del direttore della centrale, che voleva studiare che cosa succede quando si porta una centrale nucleare in una situazione in cui sta per scoppiare. L’esperimento ha avuto successo: ha verificato che la centrale scoppia, esattamente come è scritto nei manuali. Il fatto che l’incidente sia dovuto ad un direttore quasi psicopatico non riassicura affatto per il futuro: dimostra soltanto che non è prevedibile il comportamento delle persone che dovrebbero avere a cura la sicurezza della centrale. L’esplosione di una centrale nucleare comporta l’evacuazione di una zona di circa un centinaio di chilometri di raggio intorno alla centrale, la distanza precisa dipende dalla direzione in cui soffia il vento. L’esposione di una ipotetica centrale nucleare localizzata a Montalto di Castro, con un vento da Nord-Ovest (vento molto frequente) implicherebbe la necessità di evacuare Roma e questo è un evento che non possiamo rischiare, come non possiamo rischiare nemmeno l’evacuazione di una città più piccola come Torino. COSTRUIRE NUOVE MAXI-CENTRALI È SBAGLIATO. Anche non considerando tutto quello che ho scritto fino adesso, le centrali nucleari sono una scelta profondamente sbagliata per motivi strategici. La costruzione di nuove centrali, in particolare quelle nucleari, deve essere considerata l’ultima risorsa da utilizzare quando tutte le altre sono fallite. Per prima cosa bisogna utilizzare fino a dove sia possibile le energie rinnovabili ed incrementare il risparmio energetico in maniera di diminuire il peso sulle risorse non rinnovabili del pianeta, che sono destinate ad esaurirsi. Passare da una risorsa non rinnovabile ad un’altra, nella speranza di poter continuare a sprecare l’energia per una decina d’anni di più, significa rilanciare in una partita in cui siamo necessariamente perdenti. Prima o poi bisogna incominciare ad aumentare in maniera consistente la produzione di energia mediante fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico…) e prima lo si fa, meglio è. Se l’Italia avesse investito in maniera massiccia nelle energie rinnovabili e nonostante tutto, ci fosse un grave deficit energetico, si potrebbe incominciare a discutere su un’eventuale costruzione di centrali nucleari, ma in questa situazione di quasi completa latitanza dello Stato nella promozione delle energie rinnovabili, è assurdo investire somme enormi in nuove centrali nucleari (che dovrebbero coprire solo il 7% del fabbrisogno, cifra ridicola paragonata al 20% previsto per l’eolico negli Stati Uniti nel 2020) trascurando le soluzioni alternative che dovrebbero essere prioritarie. Inoltre ci sono margini altissimi per il risparmio energetico. Una parte non trascurabile dell’energia elettrica prodotta è utilizzata per scaldare acqua nelle case, mentre dal punto di vista energetico sarebbe molto più efficiente scaldare l’acqua direttamente bruciando il metano. Non parliamo del fatto che necessariamente la produzione di energia elettrica mediante combustibile ha come sottoprodotto la produzione di grandi quantità di acqua calda che viene gettata nel mare o nei fiumi con grandi danni ambientali. La cogenerazione, ovvero l’installazione nelle case di piccoli impianti di produzione di energia elettrica e l’uso condominiale dell’acqua calda prodotta, porta ad enormi risparmi energetici. Una maggiore coibentazione dei muri ed altri piccoli accorgimenti diminuiscono enormemente la necessità di energia per il riscaldamento d’inverno e per il condizionamento d’estate. Non imporre, o perlomeno non incentivare in maniera massiccia l’adozione di misure di risparmio energetico nelle case attualmente in costruzione è un crimine in quanto rende molto più difficile il risparmio negli anni a venire. La prima priorità di un governo previdente, come non sembra che lo sia il governo Berlusconi e ahimè non lo è stato il governo Prodi, è impegnare tutte le risorse disponibili per lo sviluppo delle risorse alternative e il risparmio energetico. La costruzione di nuove centrali viene dopo.Io sono convinto che questa semplice verità sia alla portata della comprensione di tutti gli italiani e che un tentativo di imporre la costruzioni di centrali nucleari da parte del governo troverebbe una sostanziale opposizione da parte del paese. Sfortunatamente la Sinistra quando era al potere è stata bravissima a riempirsi la bocca di belle parole ma, tranne rare e lodevoli eccezioni, si è dimostrata incapace di passare a fatti concreti. Dobbiamo costruire un movimento che non si limiti a dire no alle centrali nucleari, ma che sia capace di proporre nei dettagli un’alternativa concreta e praticabile ed che sia capace di promuoverla sia a livello nazionale che locale, come per esempio avviene per il solare nelle Puglie. Anche per quanto riguarda la politica energetica la Sinistra si deve faticosamente ricostruire una credibilità perduta.
*docente di Fisica Università di Roma, del Comitato promotore di Sd

mercoledì 28 maggio 2008

Pescati nella rete: stefano zamagni

Dal sito www.piuvoce.net


Stefano Zamagni
Presidente dell`Agenzia per le Onlus; Ordinario di Economia Politica, Università Bologna
vai alla biografia
La lezione di Amartya Sen e il welfare sussidiario
NON C`E` GIUSTIZIA SOCIALESENZA RISORSE ALLE PERSONE
Vien prima la crescita economica o il welfare? Per dirla in altro modo, la spesa per il welfare va considerata consumo sociale oppure investimento sociale? Come quasi sempre accade in economia, l’evidenza empirica non è in grado di sciogliere nodi del genere. La tesi che difendo è che, nelle condizioni storiche attuali, la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico è assai più credibile e giustificabile della posizione contraria.
Come si sa, lo Stato sociale nella seconda metà del Novecento ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: per un verso, ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo, per mezzo della tassazione, reddito e ricchezza (la cosiddetta funzione di “Robin Hood”) e, per l’altro verso, offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel corso del tempo (funzione di “salvadanaio”). Lo strumento escogitato per la bisogna è stato, basicamente, il seguente: i governi usino il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio senza peggiorare la posizione assoluta di chi sta meglio. Senonché tutto un insieme di circostanze – la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale - ha causato, nei paesi dell’Occidente avanzato a partire dagli anni ’80, un rallentamento della crescita potenziale. Ciò ha finito con il dare fiato, nel corso dell’ultimo decennio, al convincimento per cui i meccanismi redistributivi della tassazione e delle assicurazioni sociali sono la causa del rallentamento della crescita potenziale e, di conseguenza, sono responsabili di generare una scarsità di risorse per l’azione sociale dei governi.
I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non solamente il vecchio welfare state si dimostra oggi incapace di affrontare le nuove povertà; esso è del pari impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento in Europa. Ad esempio, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia la quota dei profitti sul Pil è passata dal 23 al 30 per cento, mentre quella che va al lavoro è scesa dal 77 al 70 per cento. Come ci rivela l’ultima indagine Censis, l’Italia è ormai diventata un paese caratterizzato da una “mobilità a scartamento ridotto”: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti. E’ questo un segno eloquente della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade non riesce più ad uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Quanto a dire che la persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo; ne resta inesorabilmente emarginata perché il lavoro decente è solo per gli efficienti. Per gli altri vi è il lavoro indecente oppure la pubblica compassione.
Come procedere allora nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati (caro all’impostazione socialdemocratica) sia di uguaglianza delle posizioni di partenza (l’approccio favorito dalle correnti di pensiero liberali). Piuttosto si tratta di declinare la nozione di eguaglianza delle capacità (nel senso di Amartya Sen) mediante interventi che cerchino di dare risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita. L’approccio seniano al benessere suggerisce di spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni alla effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. E’ per questo che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del vecchio welfare. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, etc., per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci, e anche dannose, perché non aiutano di certo il processo di sviluppo. In buona sostanza, occorre procedere in fretta a superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (quelli cui guarda il welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato all’origine in Europa di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive.
Di un secondo passo, conviene dire. Il nuovo welfare deve essere sussidiario, deve cioè dirigere le risorse pubbliche ottenute principalmente dalla tassazione generale per finanziare non già – come oggi avviene – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò in quanto, il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i loro costi. Non solo, ma finanziare i portatori di bisogni aumenta la loro responsabilità e mobilità il protagonismo della società civile organizzata. Non si dimentichi, infatti, che il finanziamento diretto dell’offerta tende a snaturare l’identità dei soggetti della società civile, i quali vengono obbligati a seguire procedure di tipo burocratico-amministrativo che tendono ad annullare le specificità proprie di ciascun soggetto, quelle da cui dipende la creazione di capitale sociale.
La conclusione che traggo è che le ragioni a supporto della tesi dell’esistenza di un trade-off tra protezione sociale e crescita economica sono assai meno plausibili di quelle che militano a favore della tesi opposta. Non è affatto vero che il rafforzamento degli istituti di tutela sociale implichi la condanna ad una crescita più bassa, a lungo termine insostenibile. E’ vero, invece, che un welfare post-hobbesiano, centrato principalmente su politiche di promozione delle capacità delle persone, costituisce nella attuale fase post-fordista, caratterizzata dall’emergenza di nuovi rischi sociali, l’antidoto più efficace contro possibili tentazioni antidemocratiche e quindi il fattore decisivo di sviluppo economico.
Stefano Zamagni

Pescati nella Rete: Federico Rampini

Estremo Occidente
Oggi 28 maggio 2008, 3 ore fa

Sindacato “bianco”, padronato indiano
Oggi 28 maggio 2008, 3 ore fa rampini
Proletari del mondo intero unitevi: lo slogan lanciato 160 anni fa da Karl Marx e Friederich Engels nel loro Manifesto sembra riecheggiare dietro l’annuncio della più grande fusione tra un sindacato inglese ed uno americano. Col matrimonio tra la confederazione britannica Unite e quella americana United Steelworkers nasce la più grande sigla sindacale intercontinentale. Le classi operaie dei due paesi che furono la culla del capitalismo si uniscono per difendere meglio i propri diritti. Quello che Marx non poteva prevedere, è il tipo di minaccia che costringe i colletti blu angloamericani a serrare i ranghi: è un nuovo capitalismo nato dalle ex colonie dell’impero britannico. Sempre più spesso il padrone dei metalmeccanici “bianchi” viene dall’India. Per negoziare con multinazionali esotiche il movimento operaio è costretto a ripensare i propri confini organizzativi. La fusione è un progetto più ambizioso delle alleanze che in passato hanno riunito i sindacati di matrice cattolica (Cisl) o socialcomunista (Cgil). Stavolta inglesi e americani puntano più in alto. Derek Simpson, segretario generale di Unite, parla di “creare un vero sindacato internazionale, che sia capace di trattare con le imprese globali su un piede di parità, e di mobilitare insieme i lavoratori dei due paesi”. In Gran Bretagna la Unite ha 1,8 milioni di iscritti in tutti i settori dell’industria manifatturiera. La United Steelworkers americana ha 850.000 iscritti, con un nocciolo duro nel settore della siderurgia. E’ significativo che sia proprio da questo bastione storico della classe operaia a nascere il supersindacato transatlantico. Perché l’industria dell’acciaio – che a lungo fu considerata un metro per misurare il livello di sviluppo economico dei paesi – è ormai dominata dai capitalisti indiani. Le acquisizioni dei giganti asiatici sono state travolgenti negli ultimi anni. Il gruppo Mittal ha comprato diversi nomi storici della siderurgia americana, tra cuila Betlehem Steel, prima di conquistare il numero uno delle acciaerie europee Arcelor (esteso in Francia, Spagna, Belgio e Lussemburgo): con 225.000 dipendenti ha ormai una leadership planetaria. La Essar guidata da Shashi Ruia ha rilevato di recente le acciaerie Esmark negli Stati Uniti. La Tata Steel ha conquistato l’acciaeria inglese Corus. Inoltre la società di Ratan Tata è anche la nuova proprietaria di Jaguar e Land Rover e quindi è uno dei principali interlocutori dei sindacati metalmeccanici inglesi. In quanto agli Stati Uniti, il gruppo Tata vi realizza una percentuale del suo fatturato superiore a quella della Ibm. Il dominio assoluto degli indiani nel business degli altiforni ha una logica economica stringente. L’evoluzione della siderurgia segue in parallelo quella dei suoi mercati di sbocco. E oggi i grandi consumatori dell’acciaio sono le industrie manifatturiere dei paesi emergenti, Cina e India in testa. Mittal, Tata, Essar, sono cresciuti come i fornitori privilegiati per le fabbriche di automobili e i cantieri edili nelle superpotenze asiatiche. Per i loro dipendenti europei e americani la sfida è notevole. Bisogna negoziare salari e contratti con un padronato che non solo ha le sue sedi direzionali all’estero, ma per di più proviene da paesi dove le condizioni di lavoro e le conquiste operaie sono ben diverse. Questo non significa che il capitalista indiano sia per forza un interlocutore ostile. Il gruppo Tata, fondato quando l’India era una colonia di Sua Maestà, concesse le ferie retribuite, scuole e ospedali gratis ai suoi operai molto prima che le Unions e il Labour Party ottenessero conquiste simili nella patria della rivoluzione industriale. Oggi tuttavia nelle loro acquisizioni in Occidente questi gruppi seguono rigorosi criteri di redditività che possono portare a decisioni dure. Ne sa qualcosa il presidente Nicolas Sarkozy: in occasione del suo ultimo viaggio ufficiale in India è stato il protagonista di un furioso battibecco con Lakshmi Mittal, reo di aver deciso licenziamenti collettivi nelle acciaierie francesi del gruppo Arcelor. La fusione tra Unite e United Steelworkers segnala il livello del disagio sociale nei paesi più ricchi. Come si è visto durante le primarie democratiche, nelle zone a vecchia industrializzazione degli Stati Uniti si respira una profonda disillusione verso i benefici della globalizzazione. Ora che sono scesi in campo altri attori e l’America non impone più le sue regole del gioco, la reazione è brutale. I sindacalisti sono gli interpreti di questa paura. Il matrimonio angloamericano tra le due Unions punta a “proteggere i lavoratori minacciati dal dilagare del capitalismo globale”. Secondo Simpson le nuove multinazionali “spingono al ribasso i nostri salari, e tentano di dividerci opponendo i lavoratori di un paese a quelli di un’altra nazione”. La penetrazione del capitalismo indiano non si limita al settore metalmeccanico. E’ di ieri la notizia di un’altra acquisizione nel cuore dell’ex potenza coloniale inglese: il gruppo di telecom Vanco è finito nelle braccia dell’indiana Reliance controllata dalla famiglia Ambani. Gli investimenti cinesi all’estero hanno raggiunto la cifra record di 19,3 miliardi di dollari da gennaio a marzo di quest’anno, superando così in un solo trimestre il volume di investimenti di tutto il 2007. In America diecimila dipendenti della divisione personal computer Ibm hanno già imparato a convivere con un padrone cinese. L’alternativa a questa invasione dei capitalisti asiatici non è allettante: secondo l’ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder, “fino a 40 milioni di lavoratori americani nei servizi dovranno fronteggiare la concorrenza indiana”. Forse è meglio addestrarsi a negoziare con i loro chief executive qui, a casa nostra.

segnalazione: david bidussa

David Bidussa
Via Almirante non porta da nessuna parte
in “il Secolo XIX”, 28 maggio 2008, p. 23

L’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha proposto di intitolare una strada o una piazza a Giorgio Almirante, (fondatore del del Movimento sociale italiano di cui fu segretario dal 1946 al 1950 e dal 1969 al 1987) in occasione dell’approssimarsi del ventennale della sua morte. Pensando di apparire troppo di parte ha anche avanzato l’idea di un pacchetto di denominazioni in cui rientrano in molti (Craxi, Enrico Berlinguer, Amintore Fanfani,…). Ognuno rivendicherà i suoi. E’ una logica che funziona? Secondo me no.
La titolazione delle strade risponde di solito a tre criteri: la denominazione di concetti o luoghi che indicano l’identità nazionale; ricordare il senso di alcune figure nazionali e locali che segnano la storia collettiva; segnare la storia dell’uso di un luogo o di un concetto Questo terzo criterio apparentemente quello meno diffuso, è anche quello di maggior senso.
Risponde per esempio, al primo criterio la diffusione che ha lo spazio dedicato a Roma nella onomastica delle strade in tutte le città italiane (si distingue, ma anche questa eccezione ha una sua storia, Milano che non ha né una via, né una piazza, espressamente dedicate alla capitale d’Italia). E’ il tema della costruzione del mito nazionale, dell’idea di una storia condivisa e di simboli condivisi
Risponde al secondo criterio l’idea che si possa definire un Pantheon di figure pubbliche – di fama nazionale o locale - su cui si spiega la propria storia, si descrive la storia nazionale, si segnano e si marcano le tappe diverse del farsi di un Paese o di una comunità. E’ un criterio che risponde a una logica in cui il potere pubblico decide di celebrare la storia, gli eventi e i personaggi assumendoli come figure esemplari, per tutti. Perché ritiene che attraverso quelle storie e quelle biografie complessivamente e unanimemente il Paese abbia avuto un avanzamento. E dunque rappresentino un bene pubblico da tutelare o da proporre, perché reietto, sottovalutato o dimenticato.
Risponde al terzo criterio quella titolazione che indica le poste, la piazza del mercato, la via dell’archivio, della zecca o dei casini insomma quella denominazione in cui la pianta delle città attuali cerca di fissare la memoria dei luoghi che furono, spesso esattamente laddove quelle funzioni si svolgevano. E’ un modo per ricordarci che ci furono cose in un luogo e che per esse, o anche grazie ad esse, quella città ha una storia. Sottosta a quella scelta l’idea che l’identità non è il fermarsi del tempo, ma l’intreccio delle sue trasformazioni E’ così anche per quelle vie che ricordano le presenze comunitarie scomparse (“greci” “olandesi”) magari più diffuse nelle città di mare o nei centri commerciali (è uno dei motivi per cui a Londra c’è una via dedicata ai lombardi) che caratterizzano la storia di una città, ma anche ne segnano l’identità.
E’ il principio per cui, al contrario di ciò che comunemente si crede, l’identità non è ciò che rimane invariato nel tempo, ma è – come richiamava il filosofo Wittgenstein – un filo la cui consistenza è data dall’ “intreccio di fibra con fibra e la cui robustezza non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una all’altra”.
Questo terzo criterio in epoca di alta conflittualità sui simboli, è forse quello da tenere più caro. E’ anche quello più difficile e forse ci vuole un po’ di fantasia, che superi l’automatismo di pensare che la storia da rivendicare sia il rovescio di quella celebrata in precedenza dai propri avversari politici. Per esempio perché non dedicare una via alla ricerca scientifica che non c’è più (o che al più in Italia fa la parte della Cenerentola) e che una volta c’era? come i Lombardi a Londra, appunto. Possibilmente, a Roma, più centrale di Via Charles Darwin.

segnalazione: pagliarulo su tremonti

A proposito del volume di Giulio Tremonti

Nessuna speranza,
un’oscura paura

L’appiattimento sul presente ha delle ragioni: “sta drasticamente diminuendo la capacità di pensare un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private”, scrive Remo Bodei, e aggiunge: “l’avvenire appare sostanzialmente improgrammabile, incerto o addirittura pauroso”. E’ la fine del Novecento, bellezza! In questa fine – a me pare – si iscrive il ritorno del pensiero irrazionalista e il ritorno del sacro. Con tutto ciò che ne consegue, a cominciare dai fasti di una nuova destra presente in tutta Europa e vittoriosa anche in Italia.
Il libro di Tremonti aiuta a capire, perché sistema in modo ordinato l’ideologia – nel senso di falsa coscienza – della nuova destra in Italia, con riferimento particolare (ma non esclusivo) alla politica della Lega.

Colui che citava se stesso

La lettura del volume “La paura e la speranza” di Giulio Tremonti (Mondadori 2008) colpisce per la psicologia dell’autore: le frequenti citazioni di volumi e di articoli, insomma la bibliografia presente nel libro, si riferiscono quasi esclusivamente ad opere dello stesso Tremonti. Il che, oltre ad essere segno di un ego di dimensioni spropositate, è assieme prova di un certo complesso, c’est à dire: “Vedete che sono coerente, ho e avevo ragione, non mi potete cogliere in contraddizione”.
La tesi di fondo dell’autore è essenzialmente questa: per l’Europa è finita l’età dell’oro. L’effetto della globalizzazione nella forma del “mercatismo, la versione degenerata del liberismo” è infatti catastrofico per il Vecchio Continente. Il futuro è quello di una marginalizzazione europea a causa dell’emergere dell’Asia e, in particolare, di Cina e India. L’Europa si è scavata e si sta scavando la fossa con le sue mani, perché “abbiamo i telefonini ma non abbiamo più i bambini”.

La coppia comunitarismo-liberismo

C’è già il primo accenno a quella “coppia” che ispira l’intero volume, e che è il modello economico-sociale di Tremonti: comunitarismo più liberismo. La dimensione territoriale (Europa contro il resto del mondo) sostituisce totalmente la dimensione sociale (non ci sono più classi e di conseguenza scompare la questione sociale). Colpisce il “nemico” di Tremonti, e cioè il “mercatismo”; il mercato “non può essere la matrice totalizzante esistenziale, la base di un nuovo materialismo storico”. Insomma, l’Autore considera il “mercatismo” anche come una sorta di sottoprodotto del marxismo e della dissoluzione dei Paesi comunisti. Chi d’altra parte può pensare che la vita si riduca al mercato? Il punto è che, dopo decenni di apologia del mercato, la “svolta” dell’ideologia della destra è nel porre un limite al mercato, ma non in nome, ovviamente, dell’universalismo, dell’eguaglianza, della solidarietà, bensì in nome del particolarismo, della differenza, della rottura del legame sociale contro qualsiasi diversità: cioè in nome del comunitarismo territoriale.

1789, illuminismo, 1968

Ancora Tremonti: di chi è la responsabilità del prevalere del mercatismo? Della Rivoluzione francese, dell’illuminismo, del 1968. Qui è più chiara la natura del suo pensiero, che si combina col pensiero di una parte della destra cattolica e laica. Il 1789 e l’illuminismo (per non parlare del 1968) non sono visti come frutto della cultura e della storia europea, ma come metastasi. Il che, com’è ovvio, ha conseguenze, per così dire, totali. In breve: il pensiero politico della nuova destra intende rifondare la cultura europea espungendone, fra i tanti, Freud, Malthus, Darwin, Marx; il suo comunitarismo postmoderno può costruirsi solo negando i valori che, a partire dall’89, segnarono l’800 e buona parte del ‘900.
Quali sono gli effetti del mercatismo? “Il rischio globale della catastrofe ambientale. Il rischio locale di un colonialismo asiatico di ritorno sull’Europa”. Giusto, seppur banale, l’accenno al rischio di catastrofe ambientale. Inquietante l’indicazione del pericolo del “colonialismo asiatico”; ancora una volta prevale la dimensione territoriale ed emerge il riflesso di un’antica sindrome nazional-imperialista. Gli asiatici in fondo vogliono negare all’Europa il suo sacrosanto diritto ad un posto al Sole.

No al libero commercio mondiale

Quali sono le date-simbolo della catastrofe prossima ventura che incombe sul mondo e in particolare sull’Europa? Il 9 novembre 1989, e cioè la caduta del muro di Berlino; il 15 aprile 1994, quando si firma l’accordo World Trade Organizzation sul libero commercio mondiale. Quest’accordo, per Tremonti, cambia il mondo perché introduce il libero scambio fra Paesi con costi di produzione (e modalità) diversi. Cosicché mentre l’Europa al suo interno si autolimita con regole e regolette di ogni genere, subisce l’invasione di altri Paesi nei quali tali regole non ci sono. Da ciò uno scivolamento progressivo che crea, specie in Occidente, la nascita (o il ritorno) del sentimento della paura. Questa è causata dal fatto che “l’Occidente esporta ricchezza e importa povertà”; “I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali” e “non occorre che gli operai sui muovano. A muoversi ci pensano direttamente i capitali occidentali”. Cosicché i salari degli “operai occidentali tendono a livellarsi verso il basso” e “la povertà entra nella busta paga dei salariati occidentali”.
Ecco fatto: è la concorrenza fra mano d’opera che livella al punto più basso le retribuzioni; il libero commercio mondiale ha scoperto il vaso di Pandora.

L’Europa dei Cavalieri di Malta

L’Europa, d’altra parte, “non ha una vera politica estera” né “una vera politica industriale”, ma fabbrica “regole che non ci servono”; né ha “una vera politica” commerciale, energetica, demografica, sociale, culturale. Quali le prospettive? “Il tramonto della vecchia Europa, con la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia. In una parola: la nostra civiltà”.
Il paradosso è che è vero che l’Europa è lontana da una “vera politica”, solo che la “vera politica” a cui pensa Tremonti è una variabile dipendente di quelle che, a suo avviso, sono “la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia”. Una “vera politica” della fortezza nel deserto dei tartari, come si vedrà. Nel vortice della paura scompare qualsiasi idea d’Europa che, per sua storia e definizione, è autonoma, cosmopolita e collocata in un mondo policentrico, per far posto, nella dimensione comunitario-liberista, ad un’idea subalterna, dipendente in modo vitale dall’alleanza con gli Stati Uniti contro il resto del mondo. Un’Europa angosciosa, angosciante e angosciata che ripudia Voltaire per i Cavalieri di Malta e si rivolge agli Stati Uniti come al capofila dello spirito guerriero religioso dell’Occidente.
Dopo questa lunga arringa di carattere economico sociale – la paura – Tremonti passa al che fare, e cioè alla speranza. E cambia totalmente il passo, trasferendosi sul terreno etico politico: la leva per spostare l’asse dall’economia alla politica è data dalle “radici giudaico-cristiane dell’Europa”. Non bastano: occorre contrastare il “consumismo” con un ritorno del “romanticismo” che, è vero, combinandosi “al principio del Novecento con la meccanica moderna ha finito per insanguinare l’Europa”, ma è anche vero che la fine del romanticismo ha spazzato via “una buona parte dell’humus che c’era sul fondo della nostra storia”; “l’idea che le sue radici affondano nella stessa terra in cui riposano i suoi padri”, “il valore proprio delle riserve della memoria”, “le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici ed umorali, le diversità, i vecchi valori e le “piccole patrie”, i monumenti e i patrimoni d’arte”, “in una parola, le nostre radici”.

I valori della tradizione

Insomma, c’è un po’ – ma non troppo - di Kenichi Omae, l’economista americano giapponese che qualche tempo fa scriveva che “lo Stato-nazione è diventato un’unità organizzativa innaturale per l’economia. Che senso ha l’Italia – si chiedeva – come entità economica coerente all’interno della Ue?”. Citava la Lega Nord, come prova dell’incongruità economica del nostro Paese. Tanto vale, sosteneva, organizzare gli Stati come “unità naturali di businnes”. Ergo, si separi pure il nord d’Italia dal sud!
Continua Tremonti, occorre “alzare le bandiere dell’onore e dell’orgoglio, della legge e dell’ordine, introdurre nella vita la politica, e dare alla politica la prospettiva di un ordine etico”. Basta con Darwin, Malthus, Marx, Freud, perché “non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio”. E’ quest’ultima una delle poche citazioni non di se stesso, ma di altro autore. Trattasi di Joseph Ratzinger. Di conseguenza la risposta alla “dittatura sfascista del relativismo” è in sette parole: “Valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”.
Ecco, specialmente e pienamente, la cultura della nuova destra europea. Cogliendo fior da fiore su internet, da uno dei tanti siti della nuova destra: “Difendere ad ogni costo le Identità etnico-razziali e le ancestrali Tradizioni delle Piccole Patrie europee dalla Sovversione politico-culturale e spirituale che le minaccia. Riaffermare con forza la volontà di ritornare pienamente padroni sulle nostre terre. Rendere edotti e consapevoli i Giovani d’Europa di appartenere a comunità etnico-nazionali antichissime aventi nei Popoli Indoeuropei i nobili padri fondatori. Vigilare, custodire, ricordare le ataviche Tradizioni di quell’Europa Aria che diede vita alle nostre Nazioni di Sangue e Suolo. Salvaguardare l’immenso ed unico patrimonio razziale, etnico, culturale, storico, linguistico ed ambientale delle nostre millenarie Heimat”. Ci sono, naturalmente, molti punti di diversità rispetto alla visione del mondo di Tremonti. Ma anche molte affinità che vanno colte e rivelate. La destra non è una categoria dello spirito; è un punto di vista, una politica, una pratica. La vittoria della destra intercetta un profondo cambiamento di senso comune in una parte maggioritaria di elettori. Sdogana pulsioni, risentimenti, paure. Mette a nudo la parte oscura di una società. La sequenza di aggressioni e di violenze delle ultime settimane lo conferma. Il ritorno dello squadrismo nazifascista, nonostante i ridicoli tentativi di minimizzarlo e di catalogarlo nella voce “delinquenza comune” lo ribadisce. Una democrazia forte sa difendersi. Ma oggi la nostra democrazia non è mai stata così debole.

L’Occidente non è più padrone del mondo

Da Marcello Veneziani a Oriana Fallaci a Marcello Pera, l’ideologia di Tremonti è l’ideologia della nuova destra che sta vincendo. Non solo (e tanto) della destra moderata. Anche, per molti aspetti specialmente, della destra estrema. Eppure – e perciò – male faremmo a sottovalutare questo pensiero politico. Ce lo ricorda Alfredo Reichlin (L’Unità del 21 maggio): “Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo”; “i sondaggi ci dicono che almeno il 60% degli italiani considera superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito”. “Non c’è solo il vuoto dei valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa”. “L’Occidente si è accorto – continua Reichlin – che non è più il padrone del mondo”. “Tremonti (…) aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura, e, mi permetto di aggiungere, su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva”. E dopo aver sottolineato “l’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri”, avanza la proposta di “una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo” al fine di “diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di un’apertura, di uno scambio fra pari, di una cooperazione fra popoli”.
Credo che sia giusto, necessario, ma non sufficiente.

La risposta possibile

L’offensiva della destra in Italia e in Europa scava in profondità e ha il consenso di masse sempre maggiori. Giorgio Ruffolo (Repubblica del 29 aprile) mette a fuoco – a mio avviso – il problema essenziale: all’offensiva della nuova destra “la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole”. Siamo all’inizio della traversata nel deserto. C’è un solo modo per costruire, nel tempo che sarà necessario, un contrasto totale alla destra vincente: ripartire dalla realtà, dalla sua conoscenza analitica, scaricando certezze indimostrate e aborrendo le alte grida di propaganda spacciate come “pensiero forte”.
All’irrazionalismo, al sacro, la sinistra deve opporre sia la razionalità critica sia una tensione etica e intellettuale non anticlericale o antireligiosa, ma capace di confrontarsi apertamente con la pluralità dei valori e delle culture.
All’apologia del presente la sinistra deve opporre la riflessione sul rapporto fra passato e futuro, e perciò l’esaltazione del legame di responsabilità con le giovani generazioni e con il loro diritto al futuro, a una vita degna di essere vissuta in senso individuale e collettivo.
Alla paura senza speranze la sinistra, a partire dalla realtà, deve avanzare le grandi domande di senso dell’epoca contemporanea e costruire possibili risposte.
Alla progressiva involuzione democratica che nell’iperspecializzazione tecnica vede approfondirsi la frattura tra coloro che sanno e coloro che non sanno deve contrapporre la rigenerazione del senso civico, della solidarietà, della pratica politica come pratica autentica di libertà e di partecipazione.
Alla visione comunitario-liberista deve contrapporre una lettura della società in grado di comprenderla nelle sue profondissime e nuove articolazioni, di cogliere l’evoluzione del rapporto individuo-masse avvenuta nell’ultimo mezzo secolo e così di contrastare la lettura sociale della nuova destra che è propriamente e pienamente populista.
Perché è vero che abbiamo i telefonini e non abbiamo più i bambini. Ma non vorrei che qualcuno pensi di risolvere il problema aumentando il numero dei bambini “ariani”.

Milano, 28 maggio 2008 Gianfranco Pagliarulo