Da Tuttolibri di ieri
Sono certo che molti di noi si ritroveranno, soprattutto nella conclusione (anche Gaetano Arfè, negli ultimi tempi, lo ripeteva spesso)
I PREFERITI In cattedra a Torino,maestro di centinaia
di ricercatori: «Le questioni sociali
si avvicinano con la buona letteratura»
ALBERTO
PAPUZZI
Quando gli chiedo se
legga anche letteratura, non
solo testi di sociologia, lo
scienziato sociale Luciano
Gallino sorride sotto i baffi
(metaforici): «Posso dire di
avere imparato a capire le
società leggendo letteratura.
Sa che cosa diceva della
letteratura Henry James?
Che essa reca in sé i colori
della vita, mentre i manuali,
di sociologia, di economia o
che altro, sono grigi, o in
bianco e nero. Ho sempre letto
tanta letteratura e anche
ai miei studenti ho raccomandato
la buona letteratura,
come mezzo per avvicinare
e conoscere le questioni
sociali. Un autore per me decisivo
in questo senso è stato
Thomas Mann. Non sarei
quello che sono, non scriverei
come scrivo, se non avessi
frequentato alcune centinaia
o migliaia di romanzi.
Dovrebbe uscire nei prossimi
giorni la riedizione einaudiana
d'uno dei racconti più
importanti sulla condizione
dei neri negli Stati Uniti, Uomo
invisibile di Ralph Ellison.
Era del 1952, cominciò a tradurlo
Carlo Fruttero, che poi
me lo passò, io avevo bisogno
di guadagnare, parliamo
del 1954 o giù di lì. Riappare
con una mia prefazione in
cui lo collego alla vicenda di
Obama».
D'altronde il professor
Gallino, un ottantaduenne alto
e diritto, come uno degli
alberi che circondano la sua
bella casa sulla collina torinese,
ha alle spalle una lunga e
dorata stagione professionale
alla Olivetti di Ivrea, dove
lavorò per oltre quattordici
anni, dal 1955 al 1970; quella
Olivetti dove anche gli ingegneri
e i manager, gli architetti
e i tecnici imparavano a
familiarizzare non solo con
la letteratura, ma con tutte
le varie espressioni del bello,
dalla Palazzina degli Uffici di
Figini e Pollini al designer
delle macchine da scrivere
di Ettore Sottsass o di quelle
da calcolo di Marco Bellini.
Quindi il passaggio all'Università
di Torino, per una
gratificante carriera di docente,
maestro di centinaia
di sociologi. La sua bibliografia
presenta almeno una ventina
di titoli (gli ultimi due
quest'anno: Con i soldi degli
altri e Il lavoro non è una merce,
usciti da Einaudi e da Laterza),
più edizioni, prefazioni,
introduzioni, traduzioni.
In questo percorso, il libro è
stato - da Cuore di Edmondo
De Amicis a Le benevole di Jonathan
Littell - un compagno
di viaggio indispensabile e
ineguagliabile, come testimonia
questa intervista.
Professore, ci ricorda quando
e come entrò alla Olivetti?
«Io sono stato assunto da
Adriano Olivetti nell'ottobre
del 1955. Lo incontrai a
Torino in via Viotti, dove
aveva il suo ufficio e la sede
di Comunità. Qualcuno gli
aveva parlato di me. Ne seguì
un colloquio del tutto privo
di filo conduttore. Ti faceva
domande del tipo: “Che libri
ha letto?” o “Le piace il cinema?”.
Non avrei scommesso
una lira sull'esito del
colloquio, invece un mese dopo
ricevetti la lettera di assunzione.
Diressi l'Ufficio ricerche
sociologiche e studi
sull’organizzazione, un acrostico
impronunciabile».
Quali scrittori incontrò a Ivrea?
«Per molti anni ebbi come superiore
Paolo Volponi, il quale
era il grande romanziere
di Memoriale ma anche un signor
direttore del personale.
Capufficio stampa era Libero
Bigiaretti, direttore della biblioteca
era Luciano Codignola;
un funzionario della
stessa era Ludovico Zorzi,
grande conoscitore di Ruzante.
Passava Franco Fortini, a
Milano c'era Giudici. Mentre
Geno Pampaloni fu segretario
generale».
Che cosa aveva di così speciale
Adriano Olivetti?
«Aveva l'idea che la fabbrica
deve produrre occupazione,
creare ricchezza e diffondere
attorno a sé bellezza. Sue parole.
Oggi non gli permetterebbero
neppure di accedere
a una convention secondaria.
Questo diffondere bellezza lo
applicava a dettagli minimi:
dal logo della carta da lettere
alle carrozzerie delle macchine
da scrivere. Nutriva una
convinzione etico-politica profonda,
che gli faceva dire ai
suoi operai: “La fabbrica chiede
molto a voi, fatica, tempo,
duro lavoro, perciò ritengo
sia un dovere ripagarvi in forma
di servizi sociali, asili,
scuole, biblioteche pubbliche
e buoni salari”. Alla Confindustria
veniva l'orticaria solo a
sentir nominare Olivetti».
Torniamo alle sue letture: a proposito
di Thomas Mann, quale
dei romanzi ha prediletto?
«Innanzi tutto precisiamo
che leggevo un po' di tutto. Sono
stato un lettore precoce,
forse per l'esempio di una madre
che era grande lettrice.
Da ragazzo lessi non dico tutto
ma molto Jack London, come
anche Zane Gray, autore
western. Più avanti ho letto i
russi: Guerra e Pace, Gogol,
Oblomov, Turgenev. Quanto
a Mann, naturalmente I Buddenbrook
sono il grande romanzo
sulla borghesia: sull'
avidità, ma anche la capacità,
sullo scontro con la politica.
Ma il libro di Mann che ho letto
due, tre volte è Doctor Faustus.
Perché ho sempre coltivato
le letture e gli studi sul
nazismo, come questa versione
letteraria di un anima che
si perde, si smarrisce, queste
meravigliose famiglie dove la
sera si suona Bach, dove si dà
del lei al padre, dove tutti sono
biondi e colti, ma qualche
anno dopo diventano comandanti
di campo o ufficiali delle
SS per sterminare ebrei. Anche
Le benevole di Littell è in
questo senso terribile e straordinario:
racconta di una SS
colta e azzimata, che partecipa
attivamente ai peggiori
massacri. L'ho comprato in
Francia, dove lui vive da tempo,
quindi l'ho preso anche in
italiano. A parte alcuni eccessi
è un romanzo del tutto fedele
alla realtà storica».
Lei e sua moglie, Tilde Giani, alla
metà circa degli Anni Sessanta,
siete stati anche i traduttori
di un libro simbolo: «L'uomo a
una dimensione» di Marcuse.
Come accadde?
«Sì, io ero fellow del Centro di
studi superiori di Stanford,
dove passai quasi due anni. Einaudi
mi scrisse che era uscito
questo libro e valeva la pena
di tradurlo subito. Cosa
che facemmo. Lì in California
avemmo anche l'opportunità
d'incontrare Marcuse: ricordo
un uomo amabile e spiritoso,
con battute taglienti sul
mondo politico».
Parliamo degli ultimi due suoi
saggi. Uno, «Il lavoro non è una
merce», smentisce i sostenitori
del lavoro flessibile.
«Ho letto non so quanti discorsi
che magnificavano i
vantaggi del lavoro flessibile:
accumula esperienze, arricchisce
la persona, è adatto alle
esigenze dell'economia globalizzata.
Allora sono andato
a vedere e ho raccolto dati
che dicono tutt'altro: con limitate
eccezioni il lavoro precario,
flessibile, discontinuo, ha
costi umani elevatissimi e anche
dei costi aziendali, perché
le persone non hanno alcun legame
con l'azienda e non ci sono
incentivi a fare formazione.
In più incide negativamente
sui cosiddetti figli della precarietà,
cresciuti in famiglie
dove c'è un reddito non da poveri
ma c'è anche una perenne
incertezza. Io parto da uno
splendido saggio, La grande
trasformazione di Karl Polanyi,
il quale diceva che ci sono
tre cose che non vanno mai
trattate come merce: la terra,
il denaro e il lavoro».
Chi sono invece i bersagli dell'altro
nuovo libro, «Con i soldi degli
altri»?
«Trovavo straordinario che
non ci fosse nulla sulla vera
grande novità della finanza
mondiale negli ultimi quindici
anni: l'enorme peso degli
investitori istituzionali. I soldi
nostri, i nostri risparmi, i
fondi comuni, i fondi pensione,
le assicurazioni vita, hanno
permesso agli investitori
istituzionali di accumulare
un portafoglio che nel
2007era di 53 trilioni di dollari,
quando il Pil del mondo
era in quell'anno di 54 trilioni,
quasi equivalente».
Ma perché economisti, politici,
studiosi sono, secondo la sua
valutazione, inattendibili e ingannevoli?
«La vittoria della destra: di
questo si tratta. Il suo successo
politico ha avuto come
componente di enorme portata
una vittoria culturale. In
trent'anni è stato rovesciato
l'insegnamento dell'economia.
Negli Anni Sessanta
l'idea di un mercato che si autoregola
sarebbe stata oggetto
di ludibrio, nessuno l'avrebbe
presa sul serio».
Professore, le capita mai di sentirsi
un estremista?
«No. Mi preoccupa però il fatto
che dicendo e scrivendo le
stesse cose di cinquant’anni
fa, quando preparavo i discorsi
di Adriano Olivetti, oggi
posso apparire un estremista:
significa che lo spettro
della sensibilità politica si è
spostato a destra. Molto a destra.
Per cui uno che ha sempre
votato socialista, che si
considera un progressista
moderato, rischia di apparire un sovversivo
1 commento:
A proposito della conclusione dell'intervista a Gallino.
Poco tempo fa ho sentito un intervento in Parlamento di Ugo La Malfa
del 1962. Lo facesse oggi sembrerebbe Bertinotti, con la differenza
che sembrerebbe anche credibile.
GF
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