mercoledì 10 giugno 2009

Andrea Romano: Alla socialdemocrazia serve una terza giovinezza

andrearomano
Ieri 9 giugno 2009, 9.53.25

Alla socialdemocrazia serve una terza giovinezza
Ieri 9 giugno 2009, 14.49.00
Non è la prima volta che la sinistra europea viene data per defunta. Accadde già alla metà degli anni Ottanta, quando Ralf Dahrendorf annunciò la “fine del secolo socialdemocratico” guardando al tramonto del tradizionale modello welfarista. Oggi, come ha spiegato Giuliano Amato intervistato su queste pagine da Franco Locatelli, i progressisti europei verrebbero puniti perché troppo cauti nel rassicurare un elettorato spaventato dalla crisi e bisognoso di più garanzie e maggiore intervento dello Stato. Può darsi che le cose stiano effettivamente così. Ma uno sguardo alla storia recente della sinistra europea può indurre una riflessione di segno diverso, tale da spiegare quest’ultimo tracollo con la fine della seconda giovinezza del progressismo continentale. Un esito dopo il quale sarà comunque impossibile tornare alle vecchie sicurezze ideologiche, ormai definitivamente prive di riferimenti sociali e culturali.

Non aveva infatti tutti i torti Dahrendorf con quel suo necrologio di ormai un quarto di secolo fa. Alla fine degli anni Settanta la missione socialdemocratica che era riuscita a scolpire i sistemi di welfare europei con gli strumenti dello stato nazionale, della stabilità dei flussi demografici e dell’espansione della spesa pubblica poteva ormai dirsi felicemente conclusa. Un traguardo raggiunto, ma dopo il quale la sinistra europea si trovò priva di una vera ragion d’essere mentre i suoi tradizionali insediamenti collettivi cambiavano definitivamente profilo e lo stato nazionale perdeva il pieno controllo delle politiche economiche e sociali.

Da quel declino da successo la socialdemocrazia uscì solo quando seppe reinventare negli anni Novanta la propria natura, provando a conciliare coesione sociale e innovazione economica. Fu quella la stagione di nuovi e baldanzosi riformismi, variamente intesi di qua e di là dall’Atlantico tra clintonismo, blairismo, Neue Mitte tedesco e persino qualche brandello di ulivismo italiano, ma tutti impegnati a spingere insieme crescita e redistribuzione sui ritmi del tempo nuovo della globalizzazione. Un’epoca pervasa dallo spirito di un ottimismo che ai nostri occhi più cupi può apparire ingenuo, ma tuttavia un’epoca che vide buoni tassi di sviluppo andare di pari passo con la trasformazione dei tradizionali sistemi di garanzia sociale mentre risorgeva una cultura politica che solo pochi anni prima aveva esaurito le cose da dire.

In un libro di grande acume (“Eclisse della socialdemocrazia”, appena pubblicato dal Mulino) Giuseppe Berta muove al socialismo di quella stagione l’accusa di aver aderito “quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli”. Ma il punto è che proprio “aderendo plasticamente” al capitalismo, e interpretandone gli impulsi vitali all’insegna dell’innovazione, la socialdemocrazia europea ha vissuto la sua seconda e più recente giovinezza. Una rinascita che oggi può essere definitivamente archiviata con il risultato del voto europeo, dopo essersi incrinata da anni per i colpi della crisi della globalizzazione e del tramonto dell’ottimismo degli anni Novanta.

L’interrogativo che ne deriva è dunque questo: davvero la socialdemocrazia europea potrebbe risorgere tornando alla sua prima gioventù in nome dell’esigenza di rassicurare con più Stato e meno libertà economica gli elettorati continentali, e dunque mettendosi in cerca di riferimenti sociali scomparsi da decenni e di strumenti nazionali ormai dimezzati? Lo pensano in molti, soprattutto in una sinistra come quella italiana che non ha mai davvero completato la propria trasformazione in senso liberale. Eppure non è difficile accorgersi, come ha scritto John Lloyd sul Sole 24 Ore qualche settimana prima del voto europeo, che non è certo la sinistra ad avvantaggiarsi dell’atmosfera di crisi. Ci riesce molto meglio una destra che qua e là riscopre il proprio fondo protezionista, mentre le varie e piccole entità neo-massimaliste presidiano ormai la retorica anticapitalista. Alla socialdemocrazia non rimane dunque che prepararsi ad un tragitto lungo e difficile: quello che dovrà condurla a reinventarsi ancora una volta, all’insegna di quello spirito di libertà e innovazione che ne ha segnato la sua più recente e migliore stagione.

7 commenti:

sergio ferrari ha detto...

Non so se riguarda il nostro dibattito perché noi parliamo o vorremmo parlare di socialislo mentre lui non ho capito di cosa parla, forse del primo walfare. Non sarebbe inutile, forse, chiarire questa premessa.
Ferrari Sergio

Davide Vanicelli ha detto...

Non possiamo parlare di "riequilibrio" fra le quote di salari-profitti-rendita, al posto di "spesa publica"? I due concetti non sono affatto coincidenti fra loro e se non partiamo dal fatto che questa crisi non nasce un anno fa, ma dal fatto che negli ultimi trent'anni anzichè avere un po' più di uguaglianza si è preferito sostenere i consumi facendo indebitare i ceti medi e quelli più disagiati, non andiamo da nessuna parte. Anche perchè la socialdemocrazia degli anni novanta non l'ha capito, o, nella migliore delle ipotesi, ha fatto finta di non capirlo. A ciò si è aggiunta l'operazione culturale neoliberista (Friedman fu ampiamente finanziato dalle classi dirigenti americane) che ha "cambiato la testa delle persone" rendendo assai poco trendy parlare di uguaglianza, redistribuzione del reddito, welfare, ecc., lanciando di converso slogan all'insegna dell'indivudualismo, della ricerca della ricchezza personale, ecc. Sono slogan assai efficaci per la stessa natura antropologica dell'uomo, ma, alla fine, sono devastanti per l'economia innanzitutto, ma anche per l'ambiente, la qualità della democrazia e del vivere civile.

Mi rendo conto di essere stato molto, troppo, sintetico, ma lo strumento della mailing list lo richiede e si rimanda a successivi interventi le specificazioni delle parti meno chiare.

Davide Vanicelli

Luigi Fasce ha detto...

Cari compagni,
l'argomento è di mio interesse come ben sapete.
Sembra anche a me che sto' Andrea Romano poco ci acchiappi e vada
superficialmente sull'onda della vulgata della terza via. Ma si sa i
giornalisti possono dire tutte le belinate che vogliono, lo spazio
giornalistico è loro, a noi anche se avessimo profonde verità da
rivelare nulla, nessun spazio giornalistico né tantomeno televisivo.
Questi sono appannaggio alla nomenclatura e quella più insulsa.
Ho ancora negli occhi otto e mezzo la testa pelata del PD che diceva
nulla ma considerato interpellato come esponente della sinistra.
Pazienza compagni ... ai nostri sotto il fascismo è andata peggio.
Resistere, resistere, resistere.
Penso invece che Giuseppe Berta, che leggerò quanto prima, invece
avrà centrato la questione.
Ma il Romano pare non abbia capito niente .. sempre se ha letto il
libro.
Un fraterno saluto.
Luigi Fasce - www.circolocalogerocapitini.it

Dario Allamano ha detto...

Sono assolutamente d'accordo, il compito di un qualsiasi partito che si voglia
definire socialista (l'aggettivo lo mettiamo poi) È LA REDISTRIBUZIONE
secondo la trilogia esposta da Davide, privilegiando il lavoro (e dicendolo
chiaramente) tentando di isolare i percettori della rendita finanziaria e
cercando alleanze tattiche con il "capitalismo produttivo"
Blair e soci negli anni scorsi hanno fatto esattamente l'inverso, hanno
privilegiato la massima libertà dei capitali speculativi, questo è il motivo
per cui i socialisti europei hanno poco appeal: sono poco credibili.
Nella redistribuzione della ricchezza prodotta parte importante hanno le
politiche fiscali: andiamo ad analizzare in Italia le curve delle imposte sui
redditi e si vede che il più penalizzato è il ceto medio produttivo, la
rendità (quando gli va male) paga il 12%
Dario Allamano

Claudio Bellavita ha detto...

ancora più sintetico, 2 frasi:

-chi fa i suoi calcoli su un consumo infinito in un mondo finito, o è un pazzo, o è un economista. E' di Latouche, di cui non condivido alcune cose. Di mio aggiungo che tra i pazzi ci sono anche i teologi del Papa.

-Il paradosso dell'economia classica (da Von Hayek in avanti) è che secondo loro il massimo del bene collettivo si raggiunge con il massimo dell'egoismo individuale. E si suppone pure che gli operatori che strutturalmente perseguono il loro egoismo, lo facciano nel pieno rispetto delle regole....mah (questa invece è di enrico Luzzati, un economista specialista nel terzo mondo da poco scomparso)

fabio ha detto...

Sarò estremamente sinteco il senso pieno di un nuovo socialismo coniugato all'ambientalismo , è e sarà quello di contrastare"lo sviluppismo",cioè mettere al centro di ogni considerazione politico sociale ed economica lo sviluppo , totalmente svincolato da qualsiasi altra cosa.

claudio bellavita ha detto...

aggiugiamo anche un esempio: non vogliamo finire come la California, l'area più ricca del mondo che per l'egoismo degli elettori ha lo stato che sta per fallire