dal sito www.milania.it
MILANO E IL SUO FUTURO di Carlo Tognoli
mercoledì 01 aprile 2009
MILANO E IL SUO FUTURO (Carlo Tognoli per Milania, 21 marzo 2009) Il sociologo Aldo Bonomi sostiene che “Milano è una città anseatica, non una capitale, ma fondata sui commerci e aperta al mondo come lo erano Lubecca, Amburgo, Brema: qualsiasi rapporto vuoi avere con l’estero, devi passare di qua”. E’ nella lega delle città globali. Non solo perché è un crocevia, ma perché c’è una generazione di persone che ha fatto esperienze di lavoro o di studio all’estero ed è tornata con elementi culturali, prassi, tecniche, modelli di business e di comunicazione tipici della globalizzazione. I ‘decision makers’ stanno qua. Nel mondo degli affari quando si parla di Italia la gente pensa a Milano.Moda, finanza consulenza strategica, media, pubblicità, relazioni pubbliche, Fiera. ‘no profit’, sono la faccia globale della città (e della sua area ovviamente). Sono le funzioni che le permettono di essere il luogo del servizio avanzato e della rappresentanza internazionale per aziende di abbigliamento o di macchine utensili o di design e arredo della provincia e della penisola.Tuttavia Milano amalgama , ma non eccelle.“…Manca di visione, forse di amore (Geminello Alvi) come dimostra la tiepida élite che il venerdì scompare…”. Al contrario di quel che facevano i padri e i nonni.Non difettano le élite, ma la loro idea di comunità.Un tentativo di rilancio del ruolo di leadership milanese-lombarda ci fu negli anni ’80, dopo la criti degli anni ’70.‘Mani pulite’ fece d’ogni erba un fascio e il processo avviato di offrire spazio e rappresentanza politica ai nuovi professionisti della moda, della finanza e della comunicazione, che si sentivano modello di fronte al declino della grande industria – venne frustrato.Tuttavia è da quel punto che bisogna ricominciare, con qualche aggiornamento, s’intende. Serve uno sforzo comune tra chi amministra la città (e la regione) e chi le aziende, servono inneschi di culture. E per questo occorre superare la riluttanza storica di Milano a darsi una classe dirigente.Assumere un ruolo nazionale, come nel secondo dopoguerra, grazie all’accorta amministrazione dei socialdemocratici e dei democristiani, capaci di dialogare con la borghesia industriale anche nei momenti di conflitto, che furono molti. Da quello sulla municipalizzazione del gas, alla rottura del monopolio del latte, alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, alla publicizzazione della metropolitana (nata come SpA privata). IERIIl ruolo che i partiti svolgevano, non senza difetti, di formazione, di scuola, di esperienza, di selezione anche attraverso la cooptazione, permetteva a esponenti della società civile di trovarsi, se lo volevano, una corsia da percorrere nella pista della politica, venendo a conoscenza delle regole scritte e non scritte.Oggi sembra che non ci siano più regole in quanto infrante dalla classe politica. La verità è che da quando c’è stata una immissione di massa, senza filtri, di coloro che dalla società civile hanno voluto entrare in politica, si è registrata la massima sregolatezza.E’ come se molti dei nuovi attori pensassero che la politica fosse solo ‘il seggio’, dal quale agire, senza dover rispondere a nessuno.Il controllo che in passato gli elettori esercitavano sugli eletti era costante. Certo erano in posizione più favorita gli iscritti ai partiti, gli opinion maker, i leader di associazioni assistenziali e di organizzazioni del tempo libero, che influenzavano l’elettorato. Certo esisteva un margine per il clientelismo. Tuttavia l’eletto si sentiva guardato e misurato, e questo aveva un effetto nei comportamenti e negli atteggiamenti politici. Oggi non è più così e un cittadino elettore che voglia far sentire il proprio parere ai propri rappresentanti non sa come fare.So bene che non si può tornare a quel tipo di organizzazione della politica. E non perché sono cadute le ideologie. Queste erano cadute da tempo, ma sullo sfondo di chi voleva impegnarsi nella politica, rimanevano princìpi e ideali sulla base dei quali difendere degli interessi legittimi e rappresentare categorie, culture, professioni.Oggi come dice Aleotti, non c’è che la TV come organizzazione politica, come canale per diffondere messaggi inevitabilmente telegrafici.Non sono contrario all’uso dell’immagine e della comunicazione visiva, o alla espressione sintetica dei programmi. Sono contrario al confronto permanente in un luogo che non è quello delle decisioni, per cui tutto o diventa propaganda delle parti che si contrappongono o si traduce in una azione partigiana, quando non c’è contradditorio, come quella che era tipica dei giornali di partito.Occorre quindi individuare dei luoghi di coagulo degli interessi limitrofi, che possano consentire il formarsi di una rappresentanza politica, legata alle istituzioni.Nel passato, in conseguenza del prevalere di una visione marxista leninista che influenzò anche i partiti non marxisti, il partito era tutto: era più importante il segretario del partito rispetto al capo del governo o al sindaco. Questo era sbagliato. Ma altrettanto erroneo è impostare la politica sul solo momento elettorale e sulla organizzazione del consenso per quell’attimo fuggente. Naturalmente il voto è il sale della democrazia, ma la presenza quotidiana della politica come dialogo interattivo con i cittadini deve essere riaffermata. In Parlamento, nelle assemblee regionali, nei consigli comunali. Questi devono essere uno dei luoghi di ascolto e di replica nel rapporto con la cittadinanza, le sue categorie, i suoi gruppi economici, sociali, culturali, etnici, al di fuori delle organizzazioni tradizionali che spesso sono burocratizzate e autoreferenziali.A Milano s’è persa traccia dei consigli di zona. I gruppi consigliari delle varie forze politiche non sono luoghi di ascolto. Anche per questo alle istituzioni non arriva il sentire popolare.Ci si riferisce spesso agli USA quando si pensa a un sistema democratico non basato sui partiti.Ma si fa un errore, perché è ben vero che non ci sono organizzazioni partititiche di massa com’era da noi o in alcuni Paesi europei, ma l’uso del voto per moltissimi incarichi pubblici, dal giudice, a quelli meno importanti, determina un rapporto continuo che dà ad eletti ed elettori la possibilità di ‘sentirsi’ continuamente e reciprocamente il polso. Nella Milano di ieri i socialisti (PSDI e PSI) rappresentavano una parte della classe lavoratrice, operai, impiegati, artigiani, dirigenti pubblici e privati. La DC un ceto simile e una parte della borghesia cattolica. Il PCI rappresentava in prevalenza la classe operaia, ma anche impiegati e dirigenti. Il PLI ceti medi e imprenditori. Il PRI idem.Dopo la guerra e durante la risostruzione il ‘sogno’ per Milano era quello di diventare la capitale della Comunità europea. E ci andò vicino.
OGGI E DOMANI
La metropoli ambrosiana, con la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni, con una intensa attività economica, con grandi ambizioni, non può vivere se non ha degli obbiettivi. Anzi per rimanere al passo con i tempi deve ‘sognare’. Per una città sognare significa pensare in grande, cioè progettare. Progettare nel campo dell’urbanistica con parametri adeguati ai tempi, e cioè in modo meno dirigistico e coinvolgendo le forze economiche e culturali della società. Progettare in campo architettonico privilegiando il ‘bello’. Progettare infrastrutture materiali e immateriali affinché Milano possa rimanere inserita nel circuito internazionale.
Altrimenti è destinata alla semplice sopravvivenza. Peggio, in un’era caratterizzata dalla ‘globalizzazione’, una città senza progetti per il futuro, senza attrattiva, corre il rischio di perdere la propria identità e di essere dimenticata.
Un tempo Milano era industria e commercio, borghesia e proletariato, con una fiducia (positivista) nella scienza e nel progresso. Su questo terreno tentava di misurarsi con Londra e con Parigi. Un po’ presuntuosa, ma tenacemente ambiziosa. I capitani d’industria portavano i loro capitali nel capoluogo lombardo, creavano lavoro per operai, impiegati e dirigenti. I conflitti sociali, culturali e politici non deprimevano la città, la facevano crescere, non senza problemi naturalmente, ma con una vocazione ai primati.La borghesia industriale e commerciale aspirava ad emulare il forte capitalismo nordeuropeo e inglese, il movimento socialista puntava a riprodurre i modelli riformisti delle grandi socialdemocrazie europee in tema di servizi sociali e di cultura popolare.Nei decenni recenti l’evoluzione economica e produttiva ha trasformato i grandi centri industriali, e quindi anche Milano, in luoghi dove permangono intensissimi gli scambi, rispetto a beni che vengono prodotti altrove e con processi radicalmente mutati, da quando si è registrata l’introduzione dell’automazione e dell’informatica.Beninteso, non sono scomparse né la produzione né i beni, ma è profondamente mutato il rapporto uomo-lavoro. Sono diminuite le grandi fabbriche, il lavoro è sempre meno collettivo, anzi è sempre più individuale. Sono cresciute le attività del terziario cosiddetto ‘avanzato’, dei servizi alle imprese, dell’informazione, del tempo libero, della ricerca e del sapere. Milano ha seguito questa evoluzione, che ha modificato la stessa composizione sociale della popolazione. Non più solo imprenditori, commercianti, dirigenti, impiegati, operai e studenti, ma una moltitudine di soggetti produttori in tutti i settori merceologici. Ovviamente non sono scomparsi gli operai, i commercianti o gli impiegati, ma il loro numero è fortemente diminuito, mentre è aumentato l’esercito dei nuovi soggetti, che operano dall’informatica all’elettronica, dall’informazione alla moda, dal turismo al tempo libero, dallo spettacolo alla ristorazione.
LA GLOBALIZZAZIONE
La sfida della globalizzazione che impone rapporti mondiali (oltrechè nazionali e continentali ) non solo a livello della macroeconomia, ma anche a livello della microeconomia, crea crisi di identità, poiché fa saltare i parametri territoriali, sociali, istituzionali che hanno regolato la vita delle città industriali nell’ultimo secolo.Milano non ha ancora vinto la sfida della globalizzazione a causa delle crisi che ha attraversato, che hanno determinato gravi ritardi sul terreno delle infrastrutture. Prima gli anni di piombo e la ristrutturazione produttiva hanno fiaccato le energie del capoluogo lombardo e creato un senso di sfiducia nei cittadini, poi - mentre la città si riprendeva e stava guidando il Paese verso l’Europa – lo scoppio di ‘tangentopoli’ ne ha frenato per qualche anno lo slancio. Oggi esistono le condizioni per fare di Milano una ‘città globale’, se sono chiari gli obbiettivi e se c’è una strategia, e se la classe dirigente, della politica e della società economica, è consapevole del problema, che non è meramente ‘amministrativo’, ma politico, economico, tecnologico e, aggiungiamo, sociale.
LA “CITTA’-REGIONE”
Per raccogliere la ‘sfida’, della globalizzazione a Milano si deve adottare una politica in grado di fare la storia di una popolazione che coincide quasi con la regione lombardia. Un’area urbana ‘policentrica’, che va da Milano a Varese, Como, Lecco, Bergamo, Cremona, Lodi, Pavia, città che hanno la loro identità economica, sociale, culturale – sedimentata – ma convivono e si integrano. Questa è la ‘grande Milano’ che c’è, ma pochi la percepiscono.Questo è uno dei temi sui quali da tempo insistiamo, affinché il capoluogo lombardo mantenga il suo ruolo di ‘altra capitale’ in Italia e sia in grado di competere nuovamente (come accadeva durante l’era industriale) a livello continentale e mondiale.Negli anni ‘cinquanta’ Gio Ponti, ed altri autorevoli urbanisti, architetti, economisti, invocando un governo 'metropolitano’, ponevano a confronto la ristrettezza del territorio del Comune di Milano con quello di Roma, ‘5 volte più grande’ – e contribuivano a far nascere il Piano Intercomunale Milanese (PIM), primo tentativo di coordinare i ‘piani regolatori’ di un area caratterizzata da molti comuni.L’area urbana ‘milanese-lombarda’ pretende infrastrutture e servizi programmati e progettati alla ‘scala regionale’, com’è accaduto per il ‘passante ferroviario’ o, nel passato, per le Ferrovie Nord.C’è tuttavia la necessità di una visione strategica, per uscire dalla fase delle scelte episodiche che hanno caratterizzato gli interventi, pubblici e privati, degli ultimi anni.Milano deve porsi come guida di questa area urbana policentrica, garantendo ‘pari dignità’ a tutti gli altri centri.Bisogna rendere evidente, anche a livello di simboli, questa area policentrica che è un insieme di città complementari, di attività economiche, di culture, che funziona dai secoli scorsi in virtù di uno sviluppo quasi sempre spontaneistico, dovuto alla pressione di interessi settoriali accompagnati da una forte capacità imprenditoriale. La pubblica amministrazione, senza impostazioni dirigistiche - oggi incompatibili anche per la moltiplicazione dei soggetti, dei processi e dei poteri nella società - deve operare per armonizzare questa ‘area urbana’ (tra le più forti d’Europa) e accompagnarla nella competizione internazionale.
MILANO ‘SOFTWARE’
Milano deve contribuire in modo determinante alla rapida crescita di un ‘hardware’ infrastrutturale regionale che permetta a tutti i lombardi, e anche ad altre città del nord, di fruire nella forma più completa del ‘software’ che può avere sede prevalentemente nel capoluogo ambrosiano.Il servizio ferroviario, il sistema stradale, i collegamenti via cavo, i canali telematici (’hardware’) vanno concepiti (e in parte ciò accade) alla scala regionale. Le cosiddette attività di eccellenza (legate alla ricerca, al sapere, alla conoscenza, all’informazione, all’alta finanza – le comunità mercantili di livello mondiale) e cioè il ‘software’, devono essere sviluppate a Milano e rese disponibili per una ‘massa critica’ di sette-otto milioni di abitanti, che hanno un forte tasso di produttività.Il Comune di Milano deve essere alla testa di questo processo, coinvolgendo gli altri Comuni, la Regione, le rappresentanze del mondo economico e di quello culturale.Non c’è bisogno di altri livelli di governo , bensì di cooperazione basata sul metodo degli accordi di programma, dei contratti di programma e della realizzazione di progetti integrati. ‘Meno governi e più governo’.Programmare negoziando, si potrebbe sintetizzare, senza peccare di dirigismo, in quanto il metodo va riferito alla politica infrastrutturale che deve essere attuata nell’interesse generale.Il metodo può essere quello degli accordi ‘interistituzionali’, tra Governo, Comuni, Regione e Provincie, e con i privati interessati a partecipare alla realizzazione delle infrastrutture. Esempi di accordi di programma sono: il ‘passante ferroviario’, che vede attori cooperanti Comune di Milano, Ferrovie dello Stato e Regione Lombardia (i ritardi attuativi non vanno attribuiti alla metodologia, ma alle inadempienze delle FFSS) ed ancora l’accordo per l’esercizio del Servizio Ferroviario Regionale promosso da Comune di Milano e Regione e stipulato tra FFSS, Ferrovie Nord, ATM, MM. La nuova Fiera.
LE INFRASTRUTTURE DELLA COMUNICAZIONE BASE DELLO SVILUPPO
Sistema dei trasporti e sviluppo urbanistico devono procedere secondo una logica economica che non vanifichi gli investimenti fatti con l’obbiettivo, si ricordi, di rompere il monocentrismo milanese mettendo Milano in ‘rete’ con gli altri Comuni lombardi per creare un forte sistema urbano regionale in grado di competere in termini di funzionalità e di qualità insediativa. Nella prima metà degli anni ’80, sia pure in forma episodica, era stato avviato un processo con quelle finalità, con i progetti d’area del Centro Direzionale (Garibaldi Repubblica – destinato alla Borsa e alle attività finanziarie) – del Portello (espansione Fiera e Centro Congressi) e indicando Porta Vittoria e Bovisa come nuovi poli universitari (rispettivamente per la Statale e per il Politecnico).Oggi alcune di quelle indicazioni vanno riviste (la nuova ‘Statale’ è alla Bicocca – la Borsa è rimasta dov’era) ma vanno individuate altre funzioni pregiate:- le ‘cittadelle’: - della ricerca bio - tecnologica – della ‘moda’ e del ‘design’ – delle attività finanziarie e dei servizi sofisticati alle imprese; - una grande biblioteca multimediale come simbolo dei nuovi saperi. FIERA E UNIVERSITA’Le funzioni che, malgrado le difficoltà di sviluppo che Milano ha avuto in questi decenni, mantengono il capoluogo lombardo ai primi posti delle classifiche europee sono la Fiera e le Università.Per le Università, oltre a favorire i nuovi insediamenti nei siti di massima accessibilità, occorre stimolare, in accordo con la associazioni imprenditoriali, commerciali e con le forze sociali la ricerca scientifica e tecnologica, mettendo a disposizione risorse pubbliche e private attraverso un coordinamento permanente tra Comune, Comuni lombardi, Regione, privati, Governo, Università. In particolare il Politecnico e la Bocconi possono e devono trasformarsi in ‘World University’ . Le aree dismesse dalle attività industriali, compresi gli scali ferroviari, sono un’occasione per ridisegnare alcune parti della grande area urbana milanese-lombarda e per riconnettere zone che sono state separate da vere e proprie barriere (es. Bovisa, Farini, ‘L’Isola’, lo scalo di P.ta Romana ecc.) Le periferie devono essere oggetto di un’azione di riequilibrio rispetto alla zona centrale. Occorre riqualificare il tessuto urbano e le abitazioni, anche attraverso la ricostruzione degli edifici, molti dei quali (popolari e non) sono in avanzato stato di degrado. Bisogna realizzare nuovi insediamenti integrati nelle zone di periferia, con la presenza congiunta di funzioni urbane importanti, trasferite dalla zona centrale o di nuovo impianto, con residenza, attività produttive, servizi alla persona, spazi verdi – accompagnati da un adeguato sistema di collegamenti. Il Comune di MilanoAffermare che il Comune di Milano deve essere il traino di una strategia ‘glocalistica’ che tenga conto della vasta area policentrica indicata, non significa porre le altre città e gli altri comuni in una posizione subordinata, ma attribuire al capoluogo maggiori responsabilità. E chiedere capacità di innovazione anche a livello istituzionale.Le nuove regole di spazio, in cui lo spazio immateriale si affianca a quello fisico, in cui la miniaturizzazione della produzione rende obsoleti i grandi spazi industriali, portano ad una nuova idea di metropoli, ossia una struttura a maglie flessibili e aperta ad una molteplicità di idee di accoglienza che si sviluppa su una molteplicità di spazi.Ciò che è avvenuto negli ultimi vent’anni ha rotto lo storico equilibrio tra cittadini che stabilmente vivono e lavorano nello stesso luogo e nomadi, cioè coloro che, per varie ragioni, risiedono temporaneamente in un luogo. I nodi del nomadismo per esempio sono tra i nuovi luoghi di centralità. Aeroporto, stazioni, Fiera, vanno ripensati in funzione di una nuova idea di accoglienza, che superi l’attuale grigiore funzionale. Il Comune deve lavorare in questa direzione, così come deve favorire l’accesso alle nuove forme del sapere, poiché oggi l’industria di base e la produzione di saperi.La città e la sua area devono accogliere le forme più vitali del sapere e darne accesso ai cittadini.Ci vuole un progetto che favorisca la localizzazione delle Università internazionali e dei principali centri di ricerca nel contesto della grande are urbana. Bisogna pensare a un sistema di ‘incubator’ urbani dove la generalità della popolazione possa accedere ai nuovi alfabeti tecnologici, per rinnovare il proprio ‘background’ produttivo e civico, per entrare in possesso di nuovi strumenti di lavoro.Anche la politica e la struttura comunale devono cambiare.E’ superata la macchina comunale che gestisce i programmi in logica industrialista fino ad arrivare alla realizzazione delle opere.I programmi devono essere creativi e sollecitativi e i soggetti della politica dovranno essere i coordinatori della creatività sociale e non gestori di progetti chiusi e non condivisi. Vanno rivisti i ruoli della ‘giunta municipale’. Il sindaco deve attivare il processo creativo, governare le sinergie con l’ambiente esterno e concordare con un ‘panel’ internazionale di sindaci le strategie di collaborazione.Va previsto un assessore alle ‘reti’ per gestire l’integrazione di Milano nel sistemza cooperativo internazionale.Un assessore al ‘software urbano’ segue i programmi di socialità.Un assessore al benessere sviluppa i programmi condivisi per la salute, la sicurezza e l’uso quotidiano della città, compresa la logistica per l’interscambio delle merci, l’accesso e lo stazionamento per le persone.Bisogna infine coniugare efficienza e democrazia. Attribuire più poteri all’esecutivo (processo già in atto da quando c’è l’elezione diretta del sindaco) non vuol dire contraddire la partecipazione democratica. L’assemblea degli eletti - che rappresenta cittadini diversi fra loro per professioni, censo, istruzione e che sono uomini, donne, anziani, giovani, ricchi e poveri – deve controllare gli indirizzi, non i dettagli, ma ha il diritto di conoscere tutto, anche ciò su cui non deve esprimere voti. La trasparenza garantisce il processo democratico e favorisce l’efficienza. Il Consiglio comunale non è un’impresa controllata dagli azionisti, ma una comunità di persone con diritti e doveri cui il popolo ha delegato funzioni di amministrazione e controllo per avere efficienza di servizi e attenzione sociale e umana.CARLO TOGNOLI
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