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La riforma della struttura contrattuale: una scelta politica
di Massimo Roccella
Mar, 21/04/2009 - 07:10
Le date talvolta racchiudono un significato simbolico-evocativo che, nella sua immediatezza, dice più del ragionamento. Ad un anno esatto di distanza dal risultato elettorale dell’aprile 2008, il cerchio si è chiuso: la sconfitta politica – che allora alcuni, superficialmente, ritennero fosse solo o principalmente della sinistra, quando invece l’intero arco delle forze di centro-sinistra ne era stato pesantemente colpito – ha trovato il suo suggello, riflettendosi, com’era sin troppo facile prevedere, sul terreno sociale.
Non è qui il caso di ritornare su analisi, già ampiamente fatte, dei contenuti dell’accordo separato del 22 gennaio e della sua proiezione applicativa del 15 aprile. Certo è che, comunque si voglia prenderlo in considerazione, l’accordo separato non si spiega in base ad una logica esclusivamente sindacale. Fatta salva, com’è giusto, la buona fede dei sottoscrittori di parte sindacale, i tradizionali argomenti, fondati sull’esistenza di diverse culture sindacali nel nostro paese, in questo caso non reggono. Sugli orientamenti di una parte del movimento sindacale, naturalmente, può aver pesato la considerazione degli sfavorevoli rapporti di forza in essere. Per quanti sforzi si facciano, tuttavia, non si riesce a scorgere, fra le pieghe dell’accordo, un obiettivo, e tanto meno un risultato, sindacalmente apprezzabili. Non si doveva riformare il modello contrattuale per contribuire ad affrontare l’ ‹‹ emergenza salariale ›› che, ormai da anni, segna la condizione dei lavoratori nel nostro paese? E come si fa a credere che un obiettivo del genere possa essere perseguito, solo per limitarsi alle criticità più appariscenti dell’accordo separato, dilatando la cadenza temporale (da due a tre anni) dei rinnovi della parte economica dei contratti collettivi nazionali ed ancorando i futuri incrementi retributivi ad un indice inflattivo previsionale che, a priori, esclude il mantenimento almeno del potere integrale d’acquisto dei salari? A tutto concedere, l’applicazione dell’accordo produrrà situazioni fortemente differenziate da un settore all’altro, da un’azienda all’altra: un festival delle disuguaglianze, che è l’esatto contrario della tradizionale logica solidaristica propria del sindacalismo confederale.
L’accordo, infatti, non si spiega secondo una logica del genere. Si spiega in termini politici: tenendo conto della regia che l’ha ispirato, preparato e infine condotto in porto. La responsabilità primaria è del governo della destra che, sin dal suo insediamento, ha lavorato, secondo abitudine, per dividere le organizzazioni sindacali ed isolare la CGIL. Lo ha fatto direttamente nel pubblico impiego, mentre nel settore privato si è avvalso della pronta disponibilità della Confindustria. Quest’ultima si è prestata di buon grado a fare da spalla dell’Esecutivo. Non capita tutti i giorni, in effetti, di vedersi offerta su un piatto d’argento la possibilità di portare a casa una riforma della struttura contrattuale che, con tutta probabilità, innescherà una dinamica dei redditi da lavoro dipendente (ulteriormente) decrescente, emarginando al tempo stesso la maggiore organizzazione di rappresentanza dei lavoratori: davvero due piccioni con una fava.
Proprio quest’aspetto della vicenda in corso, peraltro, la dice lunga sulla ‘visione’ che ispira le scelte compiute. Evidentemente non si è riflettuto abbastanza sul fatto che c’è una bella differenza fra un contratto collettivo separato di settore (ce ne sono stati parecchi negli ultimi anni) e un accordo separato sulle regole del gioco dell’intero sistema di relazioni industriali. Nel secondo caso è forte il rischio che prendano corpo dinamiche sindacali ingovernabili: una situazione di estrema confusione ed incertezza, che davvero dovrebbe apparire la meno adatta - anche dal punto di vista delle imprese - per affrontare la crisi produttiva in atto.
D’altra parte, è proprio nelle circostanze complesse che si misura la lungimiranza o, all’opposto, la miopia delle classi dirigenti. La pretesa di affrontare le emergenze acuite dalla crisi economica senza darsi la preoccupazione di mantenere un accettabile grado di coesione sociale davvero è altamente espressiva del modo di guardare al futuro delle classi dirigenti del nostro paese. Ad esso fa da contrappunto la ragionevole fermezza della CGIL: che, certo, oggi impone di pagare il prezzo dell’isolamento, mantenendo però aperta una prospettiva diversa che, forse, aiuterà domani a riaprire in termini più credibili il discorso dell’unità sindacale.
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