martedì 7 aprile 2009

le ricette di krugman

Depressione, la ricetta del professor Krugman
Redazione, 04 aprile 2009, 11:16

Politica ed economia La Norton dà alle stampe 'The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008', un saggio scritto dieci anni fa in cui Paul Krugman ripercorre le tappe di una quindicina di anni vissuti pericolosamente dall'economia globalizzata. Anni in cui alla mano invisibile del mercato sono state attribuite qualità quasi messianiche, ben al di là persino dei dettami del liberismo classico. Il tutto corredato da un capitolo finale il cui contenuto è così riassumibile: "Ve lo avevo detto"



Il Professor Krugman ha tutte le fortune. Non solo ha vinto il Nobel lo scorso anno, ma lo ha vinto nel momento in cui la cronaca sembra dargli ragione realizzando tutte le sue profezie più calamitose. Tanto che oggi può permettersi la ripubblicazione di un suo saggio di dieci anni fa corredandolo di un capitolo finale il cui contenuto è riassumibile in una frase (che lui comunque si guarda bene dal pronunciare): "io ve lo avevo detto".
Ecco quindi che la Norton dà alle stampe 'The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008', in cui Paul Krugman ripercorre le tappe di una quindicina di anni vissuti pericolosamente dall'economia globalizzata. Anni in cui alla mano invisibile del mercato sono state attribuite qualità quasi messianiche, ben al di là persino dei dettami del liberismo classico. Tre lustri in cui è venuta a maturazione quella rivoluzione conservatrice (che tutto ha pervaso, persino la politica delle sinistre) avviata tanti anni fa negli Stati Uniti.

Da Ronald Reagan? Magari anche prima, da quando Jimmy Carter, che pure era un liberal a tutto tondo, nominò Paul Volcker alla Federal Reserve e così facendo attribuì alle teorie monetariste della Scuola di Chicago un primo, ma già definitivo, riconoscimento. Due anni dopo la nomina di Volcker vinse le elezioni Reagan, e la parola d'ordine divenne "supply-side economy", la cosiddetta economia dell'offerta che vede nell'impresa il motore portante della struttura economica.
Meno lacci ha l'impresa per produrre, più è la ricchezza prodotta e quindi quella che si diffonde nella società. Più sono gli utili dell'impresa, più alla fine sono ricchi tutti: con la deregulation la crescita è assicurata.
Da allora i discepoli di Milton Friedman, con la loro teoria del controllo della massa monetaria come cardine della gestione dell'economia (perché tanto l'importante era e sarebbe bloccare l'inflazione a due cifre degli anni '70), hanno dettato l'agenda dei lavori e l'ordine del giorno delle discussioni. Il risultato è il crollo dei subprime e, somma ironia della Storia, il ritorno dell'intervento dello Stato in economia.

Krugman parte dalla fine, cioè dalla crisi scoppiata nel 2008, per rivedere andando a ritroso i segnali che avrebbero dovuto metterci in guardia: la crisi del Messico, lo scoppio della bolla speculativa, l'afflosciarsi della "new economy" clintoniana, le Tigri asiatiche che si sono rivelate essere tigri di carta.
Alla fine della carrellata, un filo di speranza.
"L'economia mondiale non è in depressione, e probabilmente non precipiterà in depressione nonostante l'ampiezza delle attuali difficoltà", scrive l'economista di Princeton. Affermazione che lascia interdetti, visto il titolo della pubblicazione. Eppure è così.
L'importante infatti è evitare che si insista pervicacemente sull'Economia della Depressione, quella che la depressione non la cura, ma la fa venire. In altre parole: continuare a credere che la supply-side economy. Al contrario, bisogna accettare il dato di fatto che "per la prima volta dopo due generazioni la parte dell'offerta dell'economia è divenuta la chiara ed attuale limitazione alla prosperità di una larga parte del mondo". Prosegue il ragionamento: "Il mondo si va trascinando di crisi in crisi, ed ognuna di esse è incentrata sul problema della creazione di una domanda sufficiente".( Adesso "c'è bisogno di una grande operazione di soccorso", spiega Krugman. Primo, ed "ovvio", passo: "mettere in circolo più capitale", perché la crisi attuale è anche e non secondariamente una crisi di credito.

Già nel '33 Roosevelt lo fece con la Reconstruction Finance Corporation per procedere con la ricapitalizzazione delle banche. Non bastano pochi e sporadici interventi. Si arriverà ad una "temporanea nazionalizzazione di una parte significativa del sistema finanziario", ed anche questa non è di per sè sufficiente, perché con un'azione "coordinata degli Stati Uniti con altri paesi avanzati" le varie banche centrali dovranno "per un certo tempo entrare nel mondo del prestito diretto al settore non finanziario".

In questi giorni di G20 anche la parte delle tesi di Krugman sulla cogestione della crisi insieme alle economie emergenti ha un sapore particolare. Il Fondo Monetario Internazionale ha già iniziato a prestare a questi paesi "con un tasso minore di moralismo o di pretese di austerità rispetto alla metà degli anni '90", e sarà il caso di continuare. Ma anche questo non basterà.

Manca infatti un vero e proprio stimolo alla ripresa: questi sono tutti palliativi. Giunto al cuore del problema, il Professore tira fuori la quintessenza della sua proposta.
"Anche se questi aiuti al sistema finanziario dovessero riportare un po' di vita nel credito, ci sarà sempre da affrontare poi la stagnazione globale", premettere per concludere subito dopo: "La risposta sarà, con quasi certezza, il buon vecchio stimolo fiscale di scuola keynesiana". Proprio lui, John Maynard Keynes, l'economista il cui nome, se pronunciato al tavolo dei vertici europei o del G8 degli ultimi vent'anni, suonava politicamente molto scorretto. No, rincara Krugman, è proprio come diceva lui che dobbiamo fare, anche a costo di tornare a costruire piramidi. O almeno "ponti che non crollano".
Ecco quindi che il cerchio si chiude, e la teoria economica fa proprio il concetto caro ai filosofi della storia degli eterni corsi e ricorsi. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.
E a chi potrebbe far notare che Keynes è morto da tempo, e che le sue idee appartengono al secolo scorso, si immagina la risposta di Krugman. Questa: sempre più giovane ed aggiornato di chi ebbe per primo l'idea della mano invisibile del mercato, duecent'anni fa

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