mercoledì 29 aprile 2009

Stefano Rizzo: I primi cento giorni di Obama

da aprile

I primi cento giorni di Obama
Stefano Rizzo, 28 aprile 2009, 16:28

Approfondimento Il presidente statunitense è lontano non solo dal pensiero socialista e socialdemocratico europeo, lo è anche dal radicalismo libertario americano. Nei suoi interventi la parola più ripetuta è "responsabilità". Responsabilità dei governanti, ma anche degli imprenditori; e responsabilità dei singoli cittadini nella costruzione del proprio futuro. In questo la sua matrice principale è quella della "self-reliance" (il fare affidamento su di sé), della "fairness" (trattare gli altri con equità), e della "giustizia" intesa non come uguaglianza ma come pari opportunità e rispetto della legge -- tutte cose che piacciono molto più ai conservatori che ai liberal.



Cento giorni sono un numero tondo e naturalmente, come tutte le date e tutte le ricorrenze, di per sé non significano nulla, non più di 99 o di 101. La tradizione di fare un primo consuntivo di un governo dopo cento giorni risale al 1933, quando Franklin Delano Roosevelt emanò in quel lasso di tempo una serie impressionante di provvedimenti per rilanciare l'economia ancora sotto lo shock della Grande depressione (come oggi, del resto). Da allora la formuletta magica è stata esportata in tutto il mondo e a tutti i governi di nuovo insediamento.
Già da una settimana i media americani si stanno preparando ai primi cento giorni di Obama, che scadono il 29 aprile. Pagine e pagine di analisi sono pronte e inonderanno nei prossimi giorni i giornali e i notiziari televisivi. La materia certo non manca.

Come il suo lontano predecessore democratico Obama ha iniziato la sua presidenza di corsa. L'aveva annunciato già nelle fase di transizione, dopo le elezioni di novembre, accelerando le nomine dei principali ministri e facendo lavorare il suo staff in modo da avere un pacchetto di provvedimenti pronti "fin dal primo giorno". La gravità della crisi richiedeva una prova di tempestività ed efficienza per rassicurare la popolazione sempre più colpita e preoccupata. Negli ultimi mesi la sfiducia nei confronti di George W. Bush aveva raggiunto livelli altissimi e ancora più grande era quella nei confronti del Congresso. Ma questo non voleva dire che la strada fosse spianata per il nuovo presidente; anzi, proprio perché le aspettative erano altissime, sarebbe stato più difficile soddisfarle.
E invece, al termine di questi primi cento giorni, sembra che Barack Obama ce l'abbia fatta. L'economia va sempre male, ma ci sono modesti segni di ripresa (o almeno di rallentamento della caduta) e l'opinione pubblica è meno pessimista. La fiducia generale nei confronti di Obama si mantiene intorno al 68 per cento ed è condivisa anche da quasi metà dell'elettorato repubblicano. E' il risultato migliore dal secondo dopoguerra: per fare un raffronto George Bush dopo i suoi primi cento giorni era arrivato a malapena al 56 per cento.

Non sorprende il massiccio consenso tra i democratici e tra le minoranze nera e latina, cresciuto in entrambi i casi a livelli da plebiscito. Ma è sorprendente che su una questione spinosa come quella della razza la presenza di un presidente afroamericano all'atto pratico non abbia causato polarizzazioni. Al contrario, ha cambiato l'umore della comunità nera che ancora pochi mesi fa giudicava negativi i rapporti tra bianchi e neri, mentre oggi li giudica largamente positivi (dal 30 al 60 per cento di approvazione).

La prima ragione di questo successo popolare sta nella composizione della nuova amministrazione. Da subito Obama è riuscito a proiettare di sé e del suo governo un'immagine di competenza e di sicurezza. Pur essendo stato eletto con un netto mandato di cambiamento e pur potendo fare affidamento su un Congresso a solida maggioranza democratica, Obama non si è limitato a nominare esponenti del suo partito, ma si è circondato di personalità indipendenti e perfino di repubblicani (come il ministro della difesa). In ogni caso si è trattato di persone competenti e autorevoli. Per questo motivo le nomine sono andate quasi tutte bene, a parte alcuni iniziali infortuni che hanno portato alle dimissioni dei ministri del commercio e della sanità e le polemiche sui legami del ministro del tesoro con il mondo degli affari, e sono state confermate a pieni voti dal Senato.

La seconda ragione del successo di Obama sta nel messaggio politico accuratamente calibrato per coinvolgere ampi strati della popolazione al di là dei confini di partito. Con l'arrivo di un presidente "di sinistra" alla Casa bianca i repubblicani (e non solo loro) prevedevano una svolta radicale nella politica governativa: vedrete, dicevano, sarà il trionfo dell'assistenzialismo, dell'egualitarismo, del permissivismo, quando non anche della "rabbia nera" contro l'establishment bianco. E' vero che la crisi economica aveva fatto ripiegare una delle bandiere più care dei conservatori, la polemica contro l'intervento dello stato in economia, dal momento che tutti, a destra come a sinistra, reclamavano il salvataggio di banche, società assicurative e interi settori industriali. Ma tutte le riserve, i sospetti, l'ostilità culturale nei confronti del nuovo presidente e di tutto ciò che rappresentava rimanevano.
Per sciogliere questo grumo compatto di pregiudizio Obama si è mosso su due piani: uno tattico e uno strategico. Sul piano tattico ha esteso da subito il ramoscello d'olivo nei confronti dei repubblicani; ha cercato di mediare, di ammorbidirli anche con gli inviti a cena, si è perfino recato al Congresso per mostrare il suo rispetto per l'opposizione. Sebbene la manovra non sia riuscita a scalfire - almeno fin qui -- la pregiudiziale opposizione dei repubblicani (che infatti hanno votato compatti contro i suoi provvedimenti), ha però lanciato un messaggio di apertura e di disponibilità al dialogo che è piaciuto all'opinione pubblica e che darà i suoi frutti nel medio periodo.

Ma è sul piano strategico che Obama ha lasciato il segno più incisivo e anche probabilmente più caratterizzante della sua presidenza. Il punto è che -- contrariamente alla percezione di molti sostenitori, come pure di molti oppositori, nel suo paese e nel resto del mondo -- Barack Obama è un uomo politico che sfugge alle semplificazioni. Non è certo un conservatore tradizionale, ma non è neppure un liberal tradizionale, tanto meno è un libertario pacifista. E' essenzialmente un moderato, o un riformista che dir si voglia. La sua vicenda umana e la sua esperienza politica come "community organizer" puntano nella direzione del riformismo e non della rivoluzione. Volta dopo volta ha dimostrato le sue preferenze: è per il dialogo tra cittadini e istituzioni, per il cambiamento graduale, per la soluzione dei problemi concreti e non per le svolte radicali, il rovesciamento del sistema. L'ha anche detto: "Questa è l'America, in questo paese non abbiamo nulla contro la ricchezza - solo vogliamo che sia meritata".

Obama è lontano non solo dal pensiero socialista e socialdemocratico europeo, lo è anche dal radicalismo libertario americano. Nei suoi interventi la parola più ripetuta è "responsabilità". Responsabilità dei governanti, ma anche degli imprenditori; e responsabilità dei singoli cittadini nella costruzione del proprio futuro. In questo la sua matrice principale è quella della "self-reliance" (il fare affidamento su di sé), della "fairness" (trattare gli altri con equità), e della "giustizia" intesa non come uguaglianza ma come pari opportunità e rispetto della legge -- tutte cose che piacciono molto più ai conservatori che ai liberal.

Obama cambierà molte cose -- già ha iniziato a farlo -- in politica interna e in politica estera, ma la sua non sarà una rivoluzione, una fuoriuscita dal sistema. Sarà piuttosto un ritorno al passato, alla tradizione dell'America della frontiera nella sua attuale versione di superpotenza mondiale, con in più il superamento delle discriminazioni di razza e l'allargamento a tutti - bianchi, latinos, neri - dei diritti di cittadinanza. Non è un programma rivoluzionario, anzi probabilmente scontenterà molti elettori, a destra come a sinistra (e già se ne vedono le avvisaglie). Ma proprio per questo ne contenterà molti di più.

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