venerdì 17 aprile 2009

Michele Salvati: Quadrare il cerchio

Quadrare il cerchio
Una conferenza su argomenti complessi, che però voglia colpire gli ascoltatori con un messaggio semplice, deve basarsi su un artificio retorico efficace e quello della “quadratura del cerchio” indubbiamente lo è. Esso trasmette subito un’immagine di impossibilità, o di gravi difficoltà, ed è questa che Dahrendorf voleva dare. Impossibilità o difficoltà a tenere insieme tre beni sociali ai quali nel nostro angolo di mondo -nei paesi liberali, democratici ed economicamente sviluppati- ci siamo assuefatti e a nessuno dei quali vorremmo rinunciare: estese libertà politiche, una società civile coesa, una crescita sostenuta del reddito. A fatica, dopo molte traversie storiche, con successo variabile da paese a paese, si era arrivati a riunire questi tre beni nella fase del grande sviluppo economico successivo alla seconda guerra mondiale; a partire dagli anni ottanta –Dahrendorf scrive nel 1995- la fatica di tenerli assieme è molto aumentata e le vecchie incompatibilità riaffiorano anche in America, in Europa e negli altri (pochi) paesi sviluppati. Non parliamo poi dei restanti “angoli di mondo”, quei paesi sottosviluppati o in via di rapido sviluppo che contengono gran parte della popolazione mondiale, e nei quali la presenza simultanea dei nostri tre beni non si è mai data: è in questi che è più forte l’incompatibilità tra sviluppo economico e coesione sociale, da un lato, e libertà politiche, dall’altro.
Alle metafore si deve chiedere efficacia, non precisione. Col problema matematico della quadratura del cerchio il contrasto dei nostri tre beni sociali ha ben poco a che fare: quel problema viene evocato solo per dare l’idea di una questione insolubile, poiché il p greco -3,14…- non è un numero razionale. Di artifici retorici non abbiamo ora bisogno; conviene allora sbarazzarci della metafora e confrontare direttamente il conflitto tra libertà, sviluppo, coesione sociale. Ponendo il problema nel modo in cui lo pone Dahrendorf -in via generale, quasi come conflitto tra categorie- si arriva alla conclusione che dei nostri tre beni sociali è possibile avere simultaneamente due, e il terzo risulta escluso. Dovrebbero allora essere egualmente possibili tre casi: avere libertà e coesione sociale, ma non sviluppo economico; avere libertà e sviluppo, ma non coesione sociale; avere sviluppo e coesione sociale, ma non libertà.
Si nota però subito che la prima di queste tre situazioni (libertà e coesione senza sviluppo) è difficilmente sostenibile: si fa fatica a pensare ad una società civile coesa e ad un sistema politico democratico, che garantisca estese libertà individuali, se non c’è sviluppo economico. Una prospettiva di crescita sembra essere essenziale al modo di produzione in cui viviamo, al capitalismo: è richiesta dalle imprese, alla ricerca di maggiori profitti; ed è richiesta dai cittadini, alla ricerca di maggiore benessere. Lo si vede benissimo nell’Italia di oggi, in un paese afflitto da molti anni da una crescita insoddisfacente, da un quasi-ristagno economico se non da un vero e proprio declino: il mantra condiviso è che bisogna tornare a crescere, altrimenti tutto diventa più complicato. Più complicato tenere assieme le domande delle imprese e dei cittadini, che invece possono essere soddisfatte entrambe se il reddito cresce. E di conseguenza più intensi i conflitti distributivi e più aspre le tensioni sociali.
Se è così, si fa più forte la tentazione di scorciatoie iper-liberiste, che sacrifichino in nome della libertà d’impresa e della crescita le condizioni di equità, benessere e coesione sociale raggiunte in passato. O di scorciatoie che sacrifichino le libertà in nome di qualche disegno collettivo, che garantisca i diritti acquisiti e soddisfi le domande di sicurezza che provengono della società, riuscendo nello stesso tempo ad indirizzare risorse sufficienti ad alimentare la crescita economica attraverso controlli pubblici o strumenti autoritari. C’è dunque il rischio che una società la quale parte da condizioni di libertà politiche e di coesione sociale (la prima delle tre alternative che abbiamo descritto più sopra), ma in cui viene meno lo sviluppo economico, precipiti in una delle altre due: una società nella quale le libertà e lo sviluppo sono garantiti, ma non lo è la coesione; e una società nella quale è garantita la coesione e lo sviluppo, ma non la libertà.
Si fa però fatica a pensare anche a questi due ultimi modelli di società come situazioni stabili o egualmente probabili, quantomeno nel nostro angolo di mondo. Una società liberale, che cresce creando disuguaglianze e tensioni sociali (Dahrendorf aveva allora in mente gli Stati Uniti di Ronald Reagan e il Regno Unito di Margaret Thatcher), corre il rischio di sacrificare, in nome delle libertà di mercato, anche il pieno sviluppo di condizioni di democrazia politica, dunque uno dei due caratteri che dovrebbero risultare tra loro compatibili (sviluppo e libertà politica, non solo libertà di mercato). Una società nella quale la coesione sociale è debole può dar luogo a tensioni sociali intense e i governi possono essere indotti a usare stili autoritari per tenerle sotto controllo: imbonimento mediatico, populismo, concentrazione di poteri economici e politici, scoraggiamento della partecipazione politica. Questa è l’accusa che Colin Crouch ha rivolto allo stile di governo di Tony Blair in un libro pubblicato pochi anni or sono . Metodi ancora soft, d’accordo, ma che in circostanze estreme potrebbero indurirsi.
Quanto al terzo modello di società (sviluppo accompagnato da coesione sociale, ma senza libertà politiche), nelle sue forme più evidenti esso non appartiene al nostro angolo di mondo, per ora almeno. Certo, come abbiamo appena notato, di fronte alle attuali difficoltà la nostra democrazia può subire torsioni autoritarie, i nostri governanti e le nostre imprese possono talora invidiare la Malesia e Singapore, o persino la Cina, per la facilità con la quale i governi di quei paesi possono reprimere la libertà degli individui, possono imporre una coesione sociale che da noi non si forma spontaneamente, che non è frutto di inclusione democratica. Ma si tratta di metodi applicabili in situazioni che non hanno mai conosciuto gli sviluppi liberali e poi democratici della nostra esperienza storica, in culture in cui l’individualismo non si è radicato con la profondità con la quale si è radicato da noi. Da noi, autoritarismo e coesione sociale dovrebbero essere introdotti (o reintrodotti) a forza, e si sono viste le conseguenze drammatiche di questi tentativi quando essi sono stati attuati, con i regimi autoritari o totalitari della prima metà del secolo scorso.
Per concludere su questo punto. Tutte e tre le coppie estraibili dal nostro mazzo di tre beni sociali, e che logicamente dovrebbero dar luogo a modelli di società realistici e sostenibili, presentano invece seri problemi di realismo e sostenibilità. Al di là della metafora del “quadrare il cerchio”, è questo che mi induce a dubitare dell’utilità dello stesso schema concettuale adottato da Dahrendorf: i legami tra sviluppo, coesione sociale e libertà politiche sono molto complessi e storicamente determinati, e di conseguenza operazioni di separazione logica e di categorizzazione teorica rischiano di essere distorsive nelle loro pretese di generalità. L’autore ha in mente, in realtà, un problema storico concreto e forse meglio avrebbe fatto a descriverlo in modo più semplice e diretto. Conviene allora riscrivere il ragionamento di Dahrendorf nel modo che segue.

Dopo la fine dell’età dell’oro postbellica, durante la quale i nostri tre beni sociali erano stati insieme senza eccessive tensioni in molti paesi avanzati, è sopravvenuta l’ultima fase della globalizzazione, quella nella quale tuttora stiamo vivendo, e le cose si sono fatte più difficili, almeno per questi paesi, ai quali Dahrendorf dedica la maggiore attenzione. E’ fortemente rallentato il ritmo della crescita economica e questo rallentamento si sono accompagnate condizioni più difficili per i lavoratori (disoccupazione, precarietà, insicurezza). Un po’ per la natura del progresso tecnico, un po’ per il grande sviluppo della finanza, un po’ per l’intensificazione della concorrenza con i paesi emergenti, un po’ per le strategie delle multinazionali, un po’ per il regime di politica economica perseguito dalla potenza egemone, la stratificazione sociale di tutti i paesi avanzati ha subito pesanti contraccolpi: la distribuzione del reddito e della ricchezza è diventata molto più diseguale, all’interno dello stesso lavoro dipendente è diventata più forte la differenza tra i lavoratori altamente qualificati e gli altri, il solido e stabile ceto medio dell’età dell’oro si è andato frantumando. E tutto questo mentre le risorse che il Welfare State può investire per contrastare le conseguenze negative delle tendenze economiche appena ricordate si vanno assottigliando, esse stesse vittime dei ritmi meno sostenuti e più turbolenti della crescita oltre che dall’ideologia neoliberista quasi ovunque prevalente. Queste sono le tendenze che preoccupavano Dahrendorf, a metà degli anni ’90, e da allora non hanno fatto che accentuarsi: analisi competenti e aggiornate sono facilmente ottenibili e mi limito a rinviare a quattro eccellenti libri appena pubblicati in italiano, i primi due soprattutto, che contengono accurate descrizioni delle tendenze in atto .
In sintesi estrema: la sequenza di causalità va dalla globalizzazione alle conseguenze che essa produce nelle società che investe e alle reazioni che essa induce nei sistemi politici delle democrazie industriali avanzate: quelle democrazie che sono emerse dalla tradizione liberale e poi liberal-democratica scaturita dall’Illuminismo e dalle grandi rivoluzioni, nell’angolo di mondo in cui ha senso parlare di libertà politiche solidamente acquisite. (Sono numerosi gli accenni ad altre tradizioni, ad altre società, a sistemi di governo che non si sono mai basati sulle libertà politiche dell’Occidente. Ma è chiaro che la testa e il cuore di Dahrendorf stanno in Occidente, in Europa e in America). E dunque -se è questo il problema storico e politico che Dahrendorf si pone nel suo brillante saggio, al di là di metafore e di schemi teorici che faticano ad applicarsi alla realtà- andare oltre il Dahrendorf del 1995 significa affrontare quattro grandi aree di indagine. Aree che qui ho soltanto la possibilità di evocare in modo impressionistico, senza poter entrare in modo analitico nella molteplicità di temi teorici ed empirici in cui si frammentano.
La prima, e politicamente la più importante, riguarda l’ultima fase di globalizzazione, quella che inizia dagli anni ’80 del secolo scorso. E’ la nostra variabile indipendente, quella da cui tutto il resto (e in particolare le minacce alla coesione sociale e alle libertà politiche) consegue. E’ lo stesso Dahrendorf a considerarla come tale, come variabile che spiega ma non è a sua volta spiegata. Chiaramente non è tale: in un flusso storico, in cui tutto è legato a tutto, di variabili indipendenti non ce ne sono. E se poi si tratta di una variabile così importante, chiaramente è del massimo rilievo politico capire come mai si è passati dalla benigna fase dell’età dell’oro, quella nella quale i nostri tre beni sociali stavano abbastanza bene insieme, almeno nel nostro angolo di mondo, alla fase attuale, quella che ci pone le difficoltà e i problemi cui Dahrendorf fa riferimento. E, capendo perché ci si è entrati, capire anche se e come ne possiamo uscire, o quantomeno controllare i suoi effetti più dannosi, senza dimenticare i vantaggi che essa produce e che sono evidenti se si guarda al mondo nel suo insieme, e non soltanto dal punto di vista del nostro piccolo angolo. Inutile ricordare che grandi energie di ricerca si stanno dedicando a questo insieme di problemi e un’idea la possiamo ottenere dall’ottimo libro di Targetti e Fracasso che ho menzionato più sopra. Insomma: se riusciamo a “controllare” la globalizzazione, anche le contraddizioni tra i nostri tre beni sociali diventano meno forti.
La seconda area d’indagine scaturisce dal modo troppo rigido con il quale Dahrendorf afferma l’incompatibilità tra i nostri tre beni sociali, e cito: “Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita [i paesi avanzati] devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle loro società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a restrizioni delle libertà civili e della partecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo” (p. YY). Per quanto tendenze autoritarie si siano manifestate in alcuni paesi e in alcuni momenti, e la società civile abbia risentito delle tensioni indotte dalla globalizzazione, l’esperienza dei tredici anni successivi alla stesura del saggio non giustifica un giudizio così drastico. Va anche detto che in altre parti del testo Dahrendorf è più sfumato, e soprattutto più analitico, illustrando diverse strategie che i paesi avanzati hanno seguito per reagire all’inasprimento delle tensioni competitive e proteggere la società dalle loro peggiori conseguenze, Anche in questo campo la ricerca è andata molto avanti e le diverse strategie di risposta cui Dahrendorf dedica solo brevi cenni sono state studiate in dettaglio: basti qui menzionare il seminale lavoro di David Soskice e Peter Hall sulle “varietà dei capitalismi” per avere una prima idea degli sviluppi di questo campo di studio . A questo punto un giudizio d’insieme non può essere che piuttosto cauto: i paesi avanzati hanno sinora retto alle difficoltà adottando diversi modelli di risposta, i più consoni alla loro dotazione originaria di risorse economiche, istituzionali, sociali: in una parola, alla loro storia, Alcuni di questi modi si sono rivelati più efficaci di altri, o più efficaci in certe circostanze. E anche i paesi con dotazioni più modeste, i paesi più fragili e peggio governati –il pensiero corre subito all’Italia- sinora non hanno subito contraccolpi che possano essere definiti come “danni irreparabili” alla coesione sociale o come “restrizione delle libertà civili” o addirittura come “nuovo autoritarismo”. Le restrizioni più gravi (il Patriot’s Act americano, per esempio) sono conseguenza di tensioni internazionali che esulano dal modello interpretativo di Dahrendorf e sinora i diritti politici dei cittadini non sembrano essere sotto minaccia. Sinora.
E in futuro? Probabilmente le influenze negative che la globalizzazione ha esercitato fino ad ora sulla coesione sociale e sui sistemi politici liberal-democratici dei paesi occidentali sono poca cosa rispetto a quelle che si intravedono all’orizzonte. Erano già visibili tredici anni fa, quando Dahrendorf scriveva; oggi è impossibile non concentrare su di esse le nostre preoccupazioni e le nostre strategie di risposta. Le “influenze negative” –si tratta di un eufemismo- sono sostanzialmente due. Una relativa alle conseguenze sull’ambiente e sulle risorse disponibili di uno sviluppo economico che oggi coinvolge miliardi di persone, un numero quattro volte maggiore a quello della fase dell’età dell’oro. Già in quella fase la crescita economica aveva prodotto danni gravi all’ambiente e reso scarse risorse (energetiche, idriche, agricole, minerarie) una volta abbondanti. Ciò che avverrà se lo sviluppo, ormai mondiale, procederà a questi ritmi, se India, Cina, Brasile, Sud-Est asiatico e tanti altri “angoli di mondo” vorranno avvicinarsi ai livelli di reddito (e di consumo energetico) pro capite che il nostro angolo ha raggiunto, è difficilmente immaginabile, ma probabilmente disastroso per lo stesso equilibrio ecologico del pianeta. E se non lo fosse per questo, sopravviene la seconda “influenza negativa”, per continuare con gli eufemismi. Un mondo nel quale emergono nuove grandi potenze –la Cina soprattutto- e la precedente grande potenza vede minacciata la sua indiscussa egemonia, è un mondo pericoloso, un mondo di conflitti e di guerre inter-imperialistiche: la prima fase della globalizzazione, quella della belle époque, quella dominata dalla Gran Bretagna vittoriana, si concluse con i disastri delle due guerre mondiali e disastri ancor peggiori potrebbero essere all’orizzonte. Se Dahrendorf dovesse riscrivere oggi il suo saggio, credo che Ronald Reagan e Margaret Thatcher gli sembrerebbero degli innocui moderati, che la stessa quadratura del cerchio in presenza di un semplice rallentamento dello sviluppo gli sembrerebbe un problema minore, e concentrerebbe la sua analisi e le sue preoccupazioni su minacce ben più gravi, che allora appena si intravedevano ma ora sono in piena vista .
Se così fosse – e siamo alla quarta area d’indagine- il problema teorico-politico cui indirizzare l’analisi sarebbe una versione assai più aspra dei problemi trattati nella “quadratura del cerchio”, e porrebbe un interrogativo drammatico: può una democrazia liberale sopravvivere come forma di governo in condizioni in cui le risorse diventano veramente scarse (quando una doccia calda diventa un lusso) e da tensioni e disagi si passa a conflitti distributivi aperti? E quando ai conflitti all’interno di ogni paese si sommano guerre guerreggiate tra “angoli di mondo”, forse guerre ancora più “mondiali” di quelle del secolo scorso? In queste condizioni non sono forse più adatti, e dunque probabili, altri e meno benigni regimi politici? Dio ci scampi da questi scenari: ma non si tratta di fantapolitica, si tratta di possibilità effettive. Per quanto possiamo desumere dall’esperienza del passato, e in particolare da quella tra le due guerre mondiali, una democrazia liberale soffre molto in condizioni di reale scarsità di risorse, di intensi conflitti distributivi interni, di guerre che esigono forti mobilitazioni collettive, che si mischiano a nazionalismi esasperati, integralismi, “scontri di civiltà”. I casi in cui il consenso popolare è stato così profondo, la distribuzione dei sacrifici così equa, l’autorità politica così legittima e democraticamente riconosciuta da tollerare una situazione di “sudore, lacrime e sangue” senza compromettere i principi di una democrazia liberale sono stati eccezioni: lo fu la Gran Bretagna di Churchill, e poi quella di Attlee, del razionamento e del welfare state, in un’Europa composta da regimi autoritari o totalitari.
Finora siamo riusciti a “quadrare il cerchio”, persino in Italia. Finora la globalizzazione ha prodotto difficoltà e tensioni ma, nel nostro privilegiato angolo di mondo, è risultata compatibile con condizioni di democrazia politica, con libertà individuali ampiamente garantite, con uno stato di diritto. Fino a quando?

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