martedì 21 aprile 2009

Attilio Mangano: ma cos'è questa crisi?

0/04/2009

A.Mangano, Ma cos'è questa crisi?


" Ecco, io non vorrei fare il menagramo, ma non mi va di essere – per usare un'espressione letteraria - preso per i fondelli. Tutto qui. Dunque scrivo queste cose un po' per sfogarmi, un po' per fare del bene al prossimo, essendo io altruista a oltranza.
Il fatto e' che devo leggere i giornali. E, leggendoli, vedo che pronosticano la fine prossima ventura della crisi piu' grande del secolo. Fine quando? L'anno prossimo, massimo il 2010. L'elenco di questi ottimisti è lunghissimo. Comincia con Obama e continua ( ne scelgo due a caso) con Allen Sinai, il quale ha insegnato, pensa un po', niente meno che al mitico Massachusetts Institute of Technology, e in diverse altre universita' americane, oltre che essere, dio ci salvi, consulente della Federal Reserve." ( GIULIETTO CHIESA)

Questa esemplare posizione di un pur brillante giornalista credo possa riassumere un atteggiamento diffuso. In pratica sarebbero tutte balle. Posso capire che se un Giulio Tremonti qui in Italia o una Emma Marcegaglia dicono che il peggio è passato mentre negli Usa Barack Obama, meno ottimista, dichiara di intravedere solo i primi " barlumi di speranza" sia legittimo manifestare dubbi e perplessità, che la banalità di una distinzione fra ottimisti del bicchiere mezzo pieno e pessimisti del bicchiere mezzo vuoto possa servire al bla bla sulla crisi ( in rete circolano testi dal titolo " benvenuti a fuffaland" per citare i più eleganti e anche il testo di Giulietto Chiesa è intitolato " a futura memoria"), ma credo sia arrivato il momento di discutere da altri punti di vista e che il problema di sapere se il peggio è passato o deve ancora arrivare sia il classico falso problema. Almeno per chi volesse studiare seriamente le cose e cercare di trovare le parole diverse per definire, spiegare, individuare tendenze. Certo non si può pretendere dalla stampa quotidiana più di questo ma si deve pretendere da tutti coloro che si pongono come osservatori di lavorare con altri criteri. Per quanto la parola " Crisi" porti con sè inevitabilmente un sovraccarico e la letteratura sulle crisi mondiali del capitalismo comprenda anche una memoria e una retorica sulla catastrofe, la crisi " finale" e via discorrendo, sarebbe proprio ora di inventare nuove parole per definire nuovi processi perchè altrimenti si profonda in un immaginario che non è più solo politico e che recupera le tradizioni religiose, le apocalissi, i discorsi filosofici stessi sulla crisi della civiltà occidentale e via discorrendo. E ricordare che in realtà l'altra faccia della parola crisi, a partire dallo stesso Marx, riguarda la METAMORFOSI, il passaggio di forme, la trasformazione da un assetto e da vecchie strutture a nuove forme. Invece appena si mettono insieme due parole come " crisi" e " capitalismo" si ha un sovraccarico dell'immaginario politico nonostante ci siano state crisi diverse e trasformazioni addirittura di portata epocale. Basterebbe ricordare (e sono cose di quasi settanta- ottanta anni fa) gli studi sulla crisi come " grande trasformazione", Polany, Schumpeter, Keynes, tanto per non fare nomi, o gli studi sul New Deal per capire come ci siano state diverse " uscite dalla crisi" che possono ancora oggi servire di riferimento e che quando si parla di capitalismo vien fuori subito la domanda :quale? quello ottocentesco, quello appunto della grande trasformazione, quello del dopoguerra col suo miracolo economico, la società dei consumi etc? E in mezzo a tutto questo un fiorire di studi e analisi che hanno chiamato in causa antropologia e sociologia, ad esempio gli scritti gramsciani su " Americanismo e fordismo", gli scritti di Raniero Panzieri sulla nuova fabbrica degli anni sessanta e ancora altre teorie e interpretative che arrivano ai giorni nostri, da " Impero" di Negri alle teorie della società liquida di Baumann o alla società del rischio etc.In altre parole sembrerebbe che discutere di capitalismo serva a qualcuno solo per sottolineare i problemi della globalizzazione e le politiche neo-liberiste , in una campagna che vuole concludere con una specie di resa dei conti in cui contano solo le " bolle" e la politica finanziaria e non le società in carne e ossa, con le loro dinamiche, con le mutazioni antropologiche in atto, con il fatto che la parola stessa capitalismo vale oggi per Cina, India, Venezuela, Brasile. Russia,Libia etc in modi così diversi e pure tra loro intrecciati da obbligare a usare lenti speciali per leggere le cose del mondo. Questo non vuol dire sminuire in alcun modo il riconoscimento della gravità dei problemi occupazionali e di lavoro, di perdita di posti di lavoro e di fallimenti di industrie, che si sono manifestati con un loro crescendo particolarissimo ma comporta comunque l'intelligenza del fare a meno di letture catastrofiche poggianti sull'impoverimento relativo e assoluto, la disoccupazione galoppante etc perchè le cose sono davvero più complicate e non si vede perchè debba prevalere una interpretazione che non metta insieme la diversità dei fattori e dei settori , le connessioni, le innovazioni che ad esse si accompagnano immaginando un tipo di crisi sociale in cui compaiono i fantasmi di violenze, assalti, crimini e conflitti a catena, in un crescendo che non c'è e che non è tale proprio perchè i processi non sono lineari e gli strumenti stessi di intervento, correzione, sostegno, sono differenziati. Se insomma accanto ai fattori di dissoluzione sociale si pongono quelli di nuove possibili sintesi, ai percorsi di perdita si aggiungono quelli di adattamento e innovazione, se si guarda insieme alla produzione e al consumo, alla riproduzione dei rapporti sociali, ai nuovi percorsi di solidarietà e di autonomia, si può cominciare a riconoscere una nuova GRANDE TRASFORMAZIONE in corso di cui cogliere la molteplicità dei segnali e su cui interrogarsi, sapendo appunto che da questa crisi-trasformazione si uscirà tutti diversi, con processi e regole che prima non esistevano o che non era facile immaginare. E dunque vincerà la partita chi meglio capirà i percorsi e sarà capace di orientarli, chi accetterà le sfide e ne coglierà le opportunità. A puro titolo di esempio voglio citare un articolo letto oggi, una riflessione sociologica sui consumi e su cosa sta accadendo, un tentativo intelligente di sottolineare dei percorsi nuovi osservando che mancano le parole per dire le cose. Mi riferisco all'articolo di Giampaolo Fabris " Il mercato dopo la crisi, un new deal che non ha ancora un nome " comparso su "repubblica affari e finanza p. 14 20 aprile 2009"

"La crisi ha modificato incisivamente comportamenti di consumo e stili di vita. Un dato ormai ampiamente acquisito. Minore la consapevolezza che si tratti di un fenomeno strutturale,destinato cioè a non venire riassorbito , a crisi superata, dall'inerzia di antiche consuetudini. La lettura più diffusa infatti è di una temporanea perturbazione all'insegna del risparmio, di una attenzione spasmodica al prezzo, del contenimento di alcuni acquisti. Non è così. Come non è corretto adottare vecchie etichette- per lo più fortemente permeate dall'ideologia- per definire i fenomeni nuovi. E' una miopia questa di cui hanno sempre sofferto gli studi sui consumi: incapaci di coniare termini atti a definire il nuovo che emerge. Parlare di austerità/frugalità per definire ciò che sta accadendo nel mondo del consumo significa travisarne completamente il senso. Dimensioni che non riflettono affatto i nuovi comportamenti di chi si confronta con la crisi, è più attento al prezzo ma non ha niente da spartire con il puritanesimo connesso a questi termini.
Anche sobrietà non è una parola corretta.O meglio potrebbe esserlo ma solo nei limiti in cui fa riferimento al superamento degli eccessi. Sobrio quindi in quanto contrapposto al tasso alcolico elevato di un recente passato. Pure semplicità, a cui si fa sovente ricorso. ( ...) Tutti termini comunque - austerità,frugalità,sobrietà,.semplicità- uniti da un comun denominatore pauperista che non è riscontrabile nelle nuove tendenze del consumo. Che non disconoscono i significati ludici ,edonisti, identitari, del consumo: se ne definisce una nuova misura.
Più corretta forse l'aggettivazione del nuovo consumatore come responsabile( soprattutto nei confronti delle patologie ambientali indotte dal consumo), consapevole ( in grado cioè di scorgere il vasto cono d'ombra che generano molte delle scelte di consumo e di comportarsi di conseguenza). Tuttavia ancora una volta questi aggettivi descrivono alcune delle nuove dimensioni dell'agire di consumo ma non la struttura latente che le unifica. SI AVVERTE DAVVERO L'ESIGENZA DI CONIARE NUOVE ETICHETTE PER DESCRIVERE GLI STILI DI VITA INDOTTI DA QUESTA
CRISI. FORSE, PRIMA ANCORA , OCCORRE STUDIARLI A FONDO E NON LIMITARSI A COGLIERNE ALCUNI ASPETTI SUPERFICIALI. Indagando su un diverso ordine gerarchico nei bisogni che trovano la soddisfazione nell'acquisto. IL FINANCIAL TIMES nei giorni scorsi _ la discontinuità col passato ha una estensione planetaria- suggeriva "consumismo riflessivo" per descrivere il new deal dei consumi. A rifletterci una contraddizione in termini. Ma l'ossimoro è uno dei tratti più caratterizzanti la cultura della nuova società in cui stiamo entrando."

Ecco, come prima conclusione, un suggerimento: e se provassimo anche noi a usare gli OSSIMORI per capire le grandi trasformazioni in corso?

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