L’ESITO DELLE PRIMARIE GENOVESI E LA RIPROPOSIZIONE DI UN RAGIONAMENTO SUL PD
L’esito delle elezioni primarie interne al centrosinistra (non completo, mancava l’IDV) per la prossima elezione del Sindaco di Genova, con la assolutamente clamorosa sconfitta delle due candidate del PD (sindaca uscente e senatrice, rispettivamente) rappresenta, dopo i “casi” di Milano e Napoli della primavera del 2011 e in condizioni politiche molto diverse, un vero e proprio spartiacque per quel partito che, nato sull’onda della “vocazione maggioritaria” si trova, a mio modestissimo avviso, a dover ripensare totalmente la propria presenza sul territorio ed anche all’interno del sistema politico italiano che si trova, come vedremo, in via di complessivo riallineamento.
La vicenda genovese dimostra, ben al di là dell’esigenza di ridefinizione dello strumento delle “primarie” (con la definizione preventiva, come minimo, del perimetro dell’elettorato attivo: strumento che comunque sta dimostrando un certo qual “logoramento” dal punto di vista della capacità di attrazione) almeno due questioni: la prima riguarda il vero e proprio corrompimento che il personalismo ha portato all’interno dello stesso PD, un corrompimento di fondo – nel corso stesso del partito – verificatosi tanto più in una situazione come quella genovese tradizionalmente molto compatta (esiste anche il tema del giudizio, molto controverso in Città, sull’amministrazione uscente, in questo caso sottoposto davvero incautamente a una valutazione assolutamente anomala, sul piano politico); la seconda, nella speranza di ricevere su questo punto un minimo di ascolto dai vertici nazionali di questo partito, riguarda la vera novità che ha contraddistinto le primarie genovesi, rispetto a quelle milanesi e napoletano: essersi svolte, cioè, dopo la formazione del governo Monti.
Riproponiamo, allora, un ragionamento che già c’era capitato di sviluppare qualche mese fa, sperando di non annoiare troppo le nostre/i cortesi interlocutrici/ori: un ragionamento che ci pare, in più, avvalorato dagli ultimi fatti che si stanno verificando in Europa, dalla Grecia alla Spagna.
La mia tesi di fondo rimane, comunque, quella che l’esito delle primarie genovesi mette in discussione l’intero impianto complessivo su cui si era pensato di costruire il PD, e non possa essere derubricato a episodio locale e tantomeno a incidente di percorso.
La formazione del Governo Monti ha rappresentato un indubbio elemento di novità all’interno del sistema politico italiano, al di là del suo pervicace procedere su di una linea liberista nell’affrontare la crisi il cui prezzo sarà pagato interamente da masse popolari ulteriormente impoverite e al riguardo delle quali si pone ineludibile la necessità di affrontare la lotta politica recuperando per intero i termini, considerati ormai desueti invece sempre attuali, dell’antica “lotta di classe”.
Questa sintetica affermazione dovrebbe rappresentare il punto di partenza sul quale il PD dovrebbe, a mio modesto giudizio, avviare urgentemente.
Partiamo da un assunto: il Partito Democratico non potrà rappresentare il soggetto di riferimento per un’alternativa che, invece, in collegamento con il quadro europeo, è necessaria e urgente per il Paese: ed è questo il segnale politico “forte” che è stato lanciato dagli elettori presentatisi alle urne alle primarie genovesi.
Andando per ordine è necessario valutare con attenzione un dato: il governo Monti rappresenta un dato di novità vera sotto due aspetti.
Il primo riguarda la sua natura “presidenziale”, di vera e propria ratifica dell’affermazione della Costituzione materiale sulla Costituzione formale: si è aperto, in questo modo, un interrogativo di fondo per le forze politiche. Andare avanti su questa strada e quindi affrontare il tratto che separa la Repubblica parlamentare da una Repubblica presidenziale? Oppure tornare immediatamente all’indietro e ripristinare sul serio i meccanismi istituzionali della Repubblica Parlamentare?
Il secondo elemento riguarda il futuro: quale segno politico questo Governo vorrà lasciare a livello di sistema? E’ indubbio che, al di là delle candidature dei singoli, in questo senso qualcosa andrà muovendosi.
Allora appare evidente che la formazione del Governo Monti e l’esito della prima fase della sua attività chiama i partiti a un rapido riallineamento sistemico: di questo fatto si sono già accorti tempestivamente Lega e IdV, collocandosi immediatamente all’opposizione e candidandosi alla rendita che fisiologicamente questo tipo di posizione assegna a chi la occupa e il “Terzo Polo” che, al contrario si candida, a essere il soggetto politico costitutivo del “farsi carico” dello imprinting espresso dal Governo Monti ai fini di una trasformazione in fattore elettorale.
Il PDL sta trasformando la propria linea in una concezione molto “duttile” al riguardo dell’appoggio al Governo: una linea molto “duttile” da non assegnare semplicemente a una divisione interne, da valutare attentamente e potenzialmente molto pericolosa.
In netto ritardo il PD, appunto, mentre a sinistra proprio l’esito delle primarie genovesi pone l’accento sulla necessità di ritrovare, prima di tutto, autonomia e unità non dando per scontato nessun quadro di alleanza, almeno nella situazione attuale, ma anticipando i tempi dell’evidente complessivo riallineamento del sistema aprendo un grande dibattito sull’esigenza di costruire, unitariamente, il soggetto dell’alternativa a partire dal rifiuto del perverso meccanismo liberista attraverso il quale il Governo sta cercando di ristabilire il complesso dei rapporti sociali.
Proprio il PD è chiamato, però, per le sue dimensioni e le ambizioni dei suoi dirigenti, ad aprire la riflessione più accurata.
Molto modestamente, in quest’occasione, propongo sei punti di dibattito:
1) Al di là del tema della “fusione fredda” (o della d’alemiana “amalgama non riuscita”), nel PD si nota l’assenza completa di una proiezione di tipo internazionale (la perlomeno ambigua collocazione al Parlamento Europeo appare fortemente indicativa, sotto quest’aspetto).I DS avevano comunque tentato se si pensa all’“Ulivo Mondiale” (formula un po’ pretenziosa per la verità). Adesso si nota un respiro appena provinciale, una sostanziale incapacità di muoversi su di un terreno più ampio. La gestione della crisi è stata portata avanti, sempre per esempio, senza che si sia notato un passo perlomeno significativo a livello europeo. Perché quando Merkel e Sarkozy hanno preso in mano la gestione europea in forma dualistica, non si è proposto un passo comune, ad esempio a SPD e PSF.? Questo per limitarci all’Europa. Quali rapporti, tanto per andare avanti ad esempi, ha il PD con le forze democratiche del BRIC e quale politica di vicinato propone all’Europa nell’area mediterranea?
2) Il secondo limite sul quale il PD dovrebbe interrogarsi a fondo risiede nell’essere nato, sul piano della “mission” esclusivamente sul terreno della “governabilità” a pieno scapito del concetto di rappresentanza esordendo , alle elezioni del 2008, con un tentativo di bipartitizzazione del sistema, forzando lo schema bipolare per coalizione al quale gli elettori si erano abituati votando con il sistema misto del 2003 (ricordate “bipolarismo per caso”, ecc., ecc.). L’idea della “vocazione maggioritaria” si è rivelata a questo modo assolutamente sciagurata e la sconfitta del 2008 di proporzioni esiziali, quasi delle dimensioni di quella subita dal Fronte Popolare nel 1948. Nella sostanza con la “vocazione maggioritaria” si è favorito l’avversario, non vedendo l’articolazione esistente nel rapporto tra il sistema politico e la società. Un errore grave, non rimediabile a tavolino con la continuità sostanziale del gruppo dirigente, al vertice come in periferia;
3) L’idea della governabilità quale unico riferimento per la vita del Partito, oltre a dar vita a fenomeni personalistici sinceramente imbarazzanti (al di là del sindaco di Firenze Renzi, ad esempio, proprio l’esito delle primarie genovesi richiama con grande forza l’attenzione su questo tema) ha impedito al PD, oltre alla già citata verifica della mutazione delle fratture sociali, anche la possibilità di afflusso nel Partito di nuovi soggetti non interessati a collocazioni istituzionali e di governo ma interessati a far valere collettivamente le ragioni di determinate istanze sociali;
4) In collegamento al punto tre va chiarito come il rapporto tra concetto di governabilità e realtà della base sociale, abbia fatto intendere il PD quasi come una sorta di soggetto formatore delle “liste d’attesa” per ruoli istituzionali e di sottogoverno, in particolare e in una dimensione molto forte, alla periferia, anziché come luogo di militanza politica. Un fattore questo sulla base del quale si sono originati anche episodi legati all’intreccio tra questione politica e questione morale a partire dal caso clamoroso dell’ex-tesoriere della Margherita e dagli ancora non risolti, casi “Sesto San Giovanni” e “giunta pugliese”;
5) Il PD non è riuscito a realizzare un’ipotesi di “partito nazionale” (nella concezione che molto opportunamente porta avanti Ilvo Diamanti). Esiste , infatti, una discrasia molto forte fra la composizione, indubbiamente interclassista, del partito e la base elettorale ancora concentrata prevalentemente nelle antiche roccaforti “rosse” del Centro Italia. Come può un Partito che pretende di essere “a vocazione maggioritaria” ottenere all’incirca il 10% dei voti in zone nevralgiche del Paese, in particolare al Sud?
6) Infine: la riflessione che c’è capitata di proporre in quest’occasione appare urgente e indispensabile alla vigilia di un probabile riallineamento del sistema. In questo senso come sta la discussione collettiva nel PD? Come funzionano i suoi organismi dirigenti, al di là delle dichiarazioni e delle interviste di questo/a o di quello/a, considerato che nel corso di questi ultimi mesi abbiamo annotato pochissime o quasi nessuna presa di posizione degli stessi organismi dirigenti? Come sono valutate le primarie che, come abbiamo visto proprio nel caso genovese, appaiono davvero lo sfogatoio per improbabili ambizioni personali e faide di corrente?
Savona, li 13 febbraio 2012 Franco Astengo
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