C R A X I
Avevo già conosciuto Craxi durante manifestazioni o comizi, ma la prima volta che lo incontrai a quattr’occhi fu nel novembre del 1976.
Da luglio era segretario, dopo la sconfitta elettorale e le dimissioni di De Martino, espresso da un gruppo di quarantenni che aveva preso la guida del partito, e che lo aveva proposto come segretario per le insistenze di Nenni e Mancini, ma che lo considerava solo un “primus inter pares”.
Sempre a luglio ero diventato segretario provinciale di Torino. Avevo 28 anni ed ero uno dei pochi esponenti della corrente di Giolitti, quella degli “intellettuali”, scelto probabilmente proprio perché non avevo un grande seguito e costituivo un punto di equilibrio fra le maggiori correnti.
Craxi cercava nuovi quadri dirigenti da valorizzare e che gli consentissero di avere più forza nel partito. La corrente autonomista del PSI, fondata da Nenni e guidata da Craxi, era infatti piccola e poco radicata in molte regioni.
Mi invitò ad andarlo a trovare nel suo ufficio di piazza Duomo, a Milano. Fu un incontro lungo e ricco. Mi colpì innanzitutto l’ambiente;
quadri dappertutto, montagne di libri e di carte, oggetti e cimeli da ogni parte del mondo, una tangibile prova di grandi relazioni internazionali.
Fisicamente era grande e grosso come me e scoprimmo che eravamo entrambi siciliani d’origine, di due paesi vicini sui Nebrodi, terra di rifugio nei secoli di perseguitati d’ogni genere. Da lì i nostri genitori erano venuti a Milano e a Torino, sposando ragazze del posto. Eravamo dei “terroni” del Nord.
Nacque una simpatia istintiva, anche se lui metteva soggezione. Era brusco, andava al sodo nei giudizi, aveva una visione ampia dei problemi, ma anche attento ai particolari. Era curioso di uomini e cose. Fu chiaro: dovevamo lavorare per restituire ai socialisti e a riformisti la guida della sinistra italiana. Per farlo dovevamo rinnovarci, aprendo il PSI alle influenze del socialismo europeo.
Cominciò così una collaborazione durata vent’anni.
In questi giorni di molte ipocrite riabilitazioni voglio ricordarlo per come lo conobbi e lo apprezzai io.
La prima cosa che mi viene di sottolineare è che Craxi era un uomo della sinistra italiana, anticomunista in nome di una sinistra liberale e riformista. In tutte le mille conversazioni private con lui ebbi sempre chiaro quel che pensava, e che mi faceva essere d’accordo con lui.
La sinistra italiana doveva profondamente cambiare per uscire dalla condizione di doppia subalternità alla DC e al PCI, e la collaborazione con la DC, indispensabile per ragioni interne e internazionali, doveva essere in qualche modo sempre competitiva, perché, “in nuce”, era la collaborazione fra due poli alternativi. Così era in Europa e così avrebbe dovuto essere in Italia.
Gli era chiaro che ad ostacolare questo disegno era la natura consociativa della Repubblica nata con il CLN e la propensione al dialogo diretto che DC e PCI mostravano ogni volta che i socialisti lo consentivano.
Aveva chiara l’origine pre-marxista della sinistra italiana e Garibaldi era non soltanto un mito romantico ma una figura simbolica.
Aveva tratto da Nenni un impianto istintivamente popolare, che gli faceva amare poco o nulla la tradizionale grassa borghesia del Nord, rappresentata da famiglie autoperpetuantesi e protese alla ricerca di risorse pubbliche per sostenere i propri affari. Ciò spiega la costante attenzione agli “uomini nuovi” che potessero emergere nell’economia, sostituendosi ad elites poco dinamiche e che percepiva come naturalmente ostili.
Come è normale, nella prassi discuteva con tutti, ma la diffidenza che provava era probabilmente percepita dai suoi interlocutori.
In generale i conservatori, i moderati e la destra in genere lo apprezzavano per il suo anticomunismo ma ne temevano le radici di sinistra.
Nella primavera del ’78 si tiene a Torino il Congresso, durante i giorni drammatici del sequestro Moro. La posizione socialista a favore del tentativo di salvare la vita del leader DC viene spiegata come una spregiudicata mossa per rompere l’asse DC-PCI. Non nego che ci fosse un calcolo politico (Berlinguer definì più volte Craxi un “giocatore di poker”), ma posso testimoniare che alla base di quella scelta vi era anche l’angoscia sincera che Craxi mostrava ad ogni passaggio della vicenda. Alla base c’era l’idea della tutela della vita umana di fronte alla spietata “ragion di stato”, un umanesimo socialista che cercava interlocutori, distinguendosi dalla zelante “fermezza” di cui i comunisti volevano dar prova, anche per esorcizzare le radici militar-comuniste delle BR.
Un anno dopo divento deputato. Nel giorno di inaugurazione della legislatura Craxi scrive per l’Avanti! un fondo in cui pone la questione delle riforme istituzionali. E’ la prima volta (a parte Pacciardi, trattato quasi come un fascista) che un leader democratico affronta il tema della modernizzazione delle istituzioni e della revisione della Costituzione.
Fu un argomento costante della battaglia di Craxi. Oggi lo si riconosce ma insieme ne si deforma il senso. Nulla aveva a che spartire lo spirito dei socialisti di allora con molte proposte di oggi, che delineano una democrazia plebiscitaria e senza partiti, senza equilibri e contrappesi, in sostanziale discontinuità con la democrazia repubblicana della Costituente.
L’idea di Craxi era di riprendere tesi e proposte accantonate alla Costituente (si pensi per esempio a Calamandrei), nonché le migliori esperienze francesi e tedesche, per rafforzare le istituzioni, che, senza cambiamenti, si sarebbero sempre più deteriorate.
Trentadue anni dopo, i fatti testimoniano quanto quell’intuizione fosse lungimirante.
Le elezioni del ’79 rinnovano radicalmente il gruppo parlamentare socialista. Craxi, quarantenne, alleva una generazione di trentenni, che segue con attenzione. Ho vivo il ricordo delle tante serate trascorse in fumose trattorie, oggi scomparse, a tirar tardi discutendo con passione.
Craxi raccontava: storie apprese da suo padre, Prefetto di Como alla Liberazione, racconti di Nenni sulla guerra di Spagna, le intricate vicende dei rapporti Nenni-Mussolini. Si formò così il gruppo dirigente che guidò il PSI per quindici anni.
Il Congresso di Palermo del ’81 segna la definitiva conquista della maggioranza nel partito da parte della corrente autonomista, che cambia nome. Diventa “riformista”, come ai tempi di Turati. L’autonomia dei socialisti è conquistata, ora le riforme.
Palermo è il Congresso del “Viva l’Italia”, la canzone che diventa quasi una parola d’ordine, il rilancio di un patriottismo democratico, garibaldino, sottratto alle grinfie della Destra. L’Inno di Mameli risuona per la prima volta in un Congresso, affiancato all’Inno dei Lavoratori, che ora, non so perché, non si sente più. Craxi conclude il Congresso in maniche di camicia, con le lacrime agli occhi, in un clima di grande entusiasmo.
L’anno dopo, Rimini. I meriti e i bisogni. Un messaggio di modernità e giustizia.
Le elezioni dell’83 aprono la strada della guida del governo. La fase più alta dell’esperienza di Craxi. Molti ne hanno sottolineato i passaggi più significativi: scala mobile e relativo referendum, Sigonella, revisione del Concordato. Di quella fase a me preme ricordare un episodio, che ben spiega l’idea che Craxi aveva del primato della politica.
All’epoca, fra le altre cose, seguivo per conto del partito i sondaggi e in quella veste gli avevo segnalato le difficoltà del referendum sulla scala mobile, dove in sostanza si chiedeva agli italiani di rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Cosa che è sempre difficile da far capire e accettare. Lui non si scompose e mi replicò che i sondaggi si fanno non per adeguarvisi passivamente, ma, se necessario, per riuscire a far cambiare idea alla gente. Il leader deve assumersi il rischio di ciò che ritiene l’interesse generale e la politica deve guidare la società e non subirne gli umori. Quanta distanza da Berlusconi e Veltroni!
Dopo l’87 si apre la fase più difficile: una sorta di traversata nel deserto in attesa di un ritorno alla guida del paese, che, nelle sue intenzioni, avrebbe consentito finalmente lo sfondamento a sinistra e conseguentemente l’alternativa alla DC.
Ma nel frattempo si addensavano le nubi. Lo stato del partito non era buono. La traduzione in periferia della politica di Craxi era quanto mai discutibile e provocava reazioni crescenti. Io ero da tempo responsabile degli enti locali e ogni giorno cercavo di correggere le intemperanze periferiche. La centralità della posizione socialista non doveva tanto essere usata per massimizzare il potere in sè, quanto per innescare processi politici. Ma spesso non avveniva così, e cresceva il rancore verso un ceto politico vissuto come arrogante e inamovibile.
Mentre al centro la politica era padrona, in periferia spesso era ancella, al servizio di altro. Questo valeva anche per il finanziamento del partito, che anche il PSI, come gli altri, reperiva in forme non trasparenti. Ma se per molti questo era un mezzo, al servizio di un progetto, per alcuni diventava un fine. Faceva il resto la fragile struttura del partito, che, a differenza del PCI, non disponeva di eroici ex partigiani o dei Greganti di turno, che gestivano un sistema ancora oggi in gran parte sconosciuto e di cui gli eredi continuano a non parlare.
La degenerazione del sistema politico, che era generale, sembrava, per effetto di queste circostanze, riguardare soprattutto i socialisti. Che pagavano anche un minor radicamento nelle strutture dello stato (Magistratura, Servizi segreti, alta burocrazia). A questo bisogna aggiungere l’inevitabile sovraesposizione di chi doveva continuamente combattere su due fronti all’interno, di chi cercava di emanciparsi da una servile acquiescenza alla politica americana, di chi sosteneva la causa dei palestinesi, di chi sosteneva e alimentava il dissenso all’Est e i democratici schiacciati da regimi dittatoriali in tutto il mondo.
C’erano le premesse per gli eventi successivi.
L’anno decisivo fu sicuramente il 1989.
Il crollo del comunismo nell’Est mette in moto la situazione. Craxi da un lato esalta la natura di sinistra del PSI (“Una bandiera rossa di cui non ci dobbiamo vergognare”, disse facendola esporre dal balcone di via del Corso a Roma, il giorno della caduta del muro di Berlino), moltiplica i contatti con i “miglioristi” del PCI, divenuto, in fretta e senza particolari autocritiche, PDS, modifica la scritta sul simbolo del Garofano, aggiungendo le parole “Unità Socialista”; dall’altro tiene in piedi il rapporto con la DC aspettando l’ineluttabile collasso a sinistra.
Questa tattica attendista, pur giustificata dall’enorme diffidenza verso lo spregiudicato antisocialismo del giovane gruppo dirigente del PDS (i “nipotini di Berlinguer”), diventa un rischio, se protratta troppo a lungo.
E qui le vicende politiche si intrecciano con quelle personali e private.
Alla fine del ’89 Craxi ha un grave malore. Nessuno drammatizza, ma resta lontano da Roma per un mese. Quando torna, sono fra i primi ad incontrarlo. Mi fa una strana impressione: sembra invecchiato e poco combattivo. Ad un certo punto mi guarda fisso: “Non sai cosa vuol dire guardare la morte negli occhi”. Lì per lì non diedi particolare importanza alla cosa. Si ritornò tutti al lavoro.
A distanza di anni, ripensando mille volte a quei momenti decisivi mi sono formato un’opinione. La crescente circospezione , l’immobilismo con cui affrontammo la fase terminale del pentapartito ha anche una spiegazione soggettiva, una certa stanchezza che intorpidiva le analisi e le decisioni. Craxi era un leader forte ed era difficile contraddirlo. Ognuno di noi avrebbe forse potuto e dovuto fare di più, ma era comunque molto difficile.
D’altra parte vi erano molte apparenti buone ragioni per una tattica non aggressiva. Il PDS rifiutava anche nel nome l’approdo socialista, molti dei suoi dirigenti, che ci parlavano di nascosto, preconizzavano l’imminente collasso del partito, i risultati elettorali parziali continuavano ad essere buoni.
Craxi e tutti noi sottovalutammo le capacità di sopravvivenza del PDS, che era l’erede di un partito comunista anomalo, diverso da quello francese, socialdemocratico nella prassi amministrativa e profondamente radicato in alcune parti del paese. La stessa scelta di cambiare nome mantenendo una continuità storica, pur molto discutibile, agevolava la transizione.
Inoltre, aspettando l’Unità Socialista, non ci accorgemmo che il paese stava sbandando. La fine della guerra fredda stava scongelando il sistema politico, liberando energie positive, ma anche spinte demagogiche, populiste e qualunquiste.
Un grande rilancio delle riforme, la rottura degli equilibri politici e una svolta modernizzatrice era nelle possibilità di Craxi. Non fu così. Certo c’era sempre qualche buona ragione che induceva a temporeggiare. Ricordo che nel ’91, quando ci fu una crisi nella quale La Malfa uscì dal governo, si pensò ad elezioni anticipate, che probabilmente avrebbero indirizzato il malessere del paese in direzioni diverse da quelle che poi prese. Craxi ci pensò. A me disse, a crisi ricomposta, che dal PDS gli avevano chiesto aiuto per rinviare alla scadenza naturale del ’92 elezioni che li vedevano totalmente impreparati. Probabilmente è vero, ma il Craxi di 10 anni prima non si sarebbe certo fermato per questo.
Alla fine del ’91 Chiaromonte, uno dei dirigenti comunisti che più stimava e frequentava, avvertì Craxi che le speranze di una riconciliazione a sinistra stavano sfumando. Gli disse che i “nipotini di Berlinguer” avevano scelto di combattere con ogni mezzo, anche “per via giudiziaria”.
Craxi me lo raccontò, scettico su quel che potesse significare. Gli risposi che, per la mia esperienza torinese, non era cosa che si potesse sottovalutare. Ma ormai il tempo stava scadendo.
Ciononostante le elezioni del ’92 danno un risultato discreto. Il governo mantiene una risicata maggioranza aritmetica. Ma la bufera ormai incalza e travolge qualunque equilibrio. Craxi stenta ad accettare l’idea di poter essere un bersaglio diretto. Spera di poter formare un governo, poi ripiega su Amato. Ma ormai la politica cede il passo alla canea mediatica, alle inchieste, ai cappi sventolati in Parlamento, alle monetine lanciate per strada, ai suicidi, alle morti sospette.
Il lavacro purificatore purtroppo non purificherà granchè, ma questo lo si scoprirà più tardi.
L’ultima mossa politica fu il suo famoso discorso alla Camera, in cui invitava tutti ad un bagno di verità. Nessuno aprì bocca. Fece forse l’errore di non dar seguito a quel discorso con un pubblico atto di autoaccusa, che potesse rimettere in movimento un’iniziativa politica. Sbagliò forse l’intero gruppo dirigente a non autoaccusarsi, dando a questo un significato politico che facilitasse il superamento della crisi. Ognuno se la cavò come potè.
Craxi, ferito e deluso, nel ’94 lascia l’Italia. Lo vidi ancora prima che partisse. Molti oggi dicono che non avrebbe dovuto andarsene. Ma allora non lo pensavo, e non glielo dissi. Troppo forte era il desiderio di linciaggio, troppo grandi i rischi, anche per la sua vita.
Lo andai a trovare in Tunisia. Era un leone in gabbia, carte dappertutto, fax in ebollizione, segnato dal diabete, con un piede martoriato.
Girai con lui per Hammamet. Era salutato da tutti con simpatia. In alcuni caffè esponevano la sua foto. Zoppicava. Eppure manteneva integri i tratti della sua personalità. Attento anche alle vicende private degli amici, affettuoso con me, come sempre. Cenai più volte a casa sua, sempre piena di gente. Scherzando ci dicemmo che sembrava di essere a Cascais.
Ci sentivamo ogni tanto al telefono. Ma non quanto avrei voluto. Ognuno di noi era immerso nei propri problemi e nel proprio dolore.
Chi non lo ha conosciuto stenta a credere che, dietro il suo modo di fare brusco, si nascondesse un uomo capace di affettuosità e grande dolcezza.
Che aveva della politica un’idea alta e nobile, che combatteva duramente ma rispettava gli avversari.
In uno dei momenti di maggiore scontro con il PCI, l’Avanti! aveva attaccato con rudezza Giancarlo Pajetta. Craxi si arrabbiò molto. Davanti a me chiamò Intini e lo rimproverò. “Ricordati che Giancarlo è un eroe, che ha dedicato la sua vita alla lotta per la libertà. E poi ha quarant’anni più di te e merita il tuo e nostro rispetto”.
Anche Craxi merita, oltre all’affetto di chi ha vissuto e lavorato con lui, il rispetto che si deve a chi ha combattuto generosamente la propria battaglia in nome di ideali e passioni che solo una sinistra cieca e settaria può regalare ad altri.
Giusi La Ganga
Torino, 19 gennaio 2010
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