Craxi – di Francesco Somaini
Scritto il 10 febbraio 2005 (a commento del discorso di Piero Fassino al 3° Congresso Nazionale dei Democratici di Sinistra – Roma, 3-5 febbraio 2005).
Quando Piero Fassino, nel suo discorso dell’altro giorno, ha richiamato il nome di Craxi (assieme a quelli di Turati, di Nenni e di Saragat) come parte di quella grande famiglia del Socialismo riformista alla quale i DS dichiarano oggi di richiamarsi (ma intanto realizzano una federazione che di socialista sembra avere francamente assai poco), io non sono tra quelli che si sono particolarmente impressionati.
Ho visto, certo, che alcuni hanno reagito con entusiasmo, come se di Craxi vi fosse stato un meditato e solenne riconoscimento storico e politico. Ho notato, egualmente, che altri hanno invece tirato fuori il solito argomento del “va bene, ma non basta”, mentre altri ancora, per contro, si sono detti letteralmente disgustati.
A me invece quel richiamo al nome di Craxi è parso più che altro un riferimento sbrigativo, un po’ banale, e arriverei a dire perfino sciatto: quasi un liquidare il discorso su Craxi con qualche superficiale frase di circostanza, senza tenere conto delle implicazioni profonde che l’argomento, invece, dovrebbe a mio avviso sollevare.
Il fatto è che io penso che la questione Craxi non sia uno di quei temi di cui ci si possa sbarazzare con poche battute (nemmeno tenendo conto di doverne parlare in una relazione politica ad ampio spettro).
Al contrario, per me che sono socialista (e che sono stato a lungo anche craxiano), il tema Craxi è un argomento difficile, controverso, e particolarmente impegnativo, che richiede lo sforzo di formulare un giudizio storicamente complesso e meditato.
In realtà, ho notato che molti sono soliti impostare i loro ragionamenti su Craxi, dividendo Craxi in due parti, come fosse una mela.
Da una parte ci sarebbe un primo Craxi, buono; dall'altro un secondo Craxi, cattivo.
Generalmente coloro che compiono questa operazione “storiografica” sono peraltro portati a dissentire sul punto in cui dividere queste due metà, o meglio sul momento in cui si dovrebbe collocare il passaggio dall'una all'altra fase (alcuni, come ad esempio Flores d’Arcais, ancora in una sua recentissima dichiarazione, risolvono solipsisticamente il problema facendo coincidere questa presunta cesura con il momento della loro rottura personale con Craxi stesso: il che non mi pare un metodo molto serio).
Io - che, sia detto per inciso, non ho sinceramente alcuna stima di Flores, perchè mi pare persona intollerante e aggressiva – penso in realtà che questo distinguere tra due differenti Craxi sia un'operazione intellettualmente non troppo corretta.
Certo, nella vicenda umana di Craxi, c'è evidentemente una grossa cesura, ma questa è la cesura che separa il Craxi politico dal Craxi della latitanza.
Il Craxi latitante (che la si smetta, una buona volta, di parlare di esilio!) è oggettivamente un Craxi che si trova a vivere un'esperienza del tutto diversa rispetto a quello che era stato tutto il suo precedente vissuto. Ad Hammamet Craxi si trova in effetti catapultato in una dimensione talmente altra rispetto al prima da rendere inevitabile il riconoscere la realtà di una svolta radicale nella sua esistenza (a prescindere da quel che si pensi sulla sua discutibile scelta di sottrarsi alla giustizia).
Ma il Craxi precedente al 1994, il Craxi politico, non può essere, a mio avviso, spaccato in due.
Non trovo francamente molto convincente, perciò, pensare ad una fase in cui prevalesse la luce (e da salvare), rispetto ad un'altra in cui sarebbero prevalse le ombre (e come tale da respingere). Luci e ombre, nella vicenda di Craxi, si compenetrano di continuo, ed egli va considerato nella sua interezza, come una figura chiaroscurale, con tratti negativi (che sono molti) ma anche dei tratti positivi (ce ne fu dopo tutto più di qualcuno, come deve riconoscere perfino l’inacidito Flores d’Arcais).
Craxi in effetti ebbe delle intuizioni politiche importanti e commise degli errori clamorosi. Fece a volte delle scelte giuste e coraggiose, e altre volte ne compì di sbagliate o anche di totalmente deprecabili.
Facciamo qualche esempio.
Nel 1979, mentre il PCI, in nome di un pacifismo francamente un po’ peloso, sfilava sotto la base di Comiso, avallando di fatto la mossa dell'URSS che aveva puntato gli SS 20 contro l'Europa, Craxi pronunciava un sì determinante all'installazione degli euromissili. La fermezza di Craxi in quella vicenda, così come quella del socialdemocratico Helmut Schmidt in Germania, contribuì in modo decisivo a mandare in fumo il disegno sovietico di alterare gli equilibri geostrategici dell'Europa. La fermezza di Italia e Germania in quella circostanza si rivelò un passaggio cruciale nel portare al fallimento dei disegni di grandeur imperiale del gruppo dirigente brezneviano, e come tale contribuì anche al successivo crollo, di lì ad un decennio, del blocco comunista. Se nel 1979 Craxi e Schimdt avessero agito diversamente, oggi ci troveremmo probabilmente in un mondo diverso, e non credo, nonostante tutto, che sarebbe un mondo migliore.
D'altro canto, per restare alla politica estera, lo stesso Craxi, nel 1982, non condannò i generali argentini che avevano attaccato le Falkland inglesi. Un regime fascista di militari massacratori cercava di rafforzarsi attraverso una politica estera arrogante e aggressiva, e Craxi, per pigri calcoli elettoralistici, non prese una posizione ferma.
Craxi, da presidente del consiglio, firmò la revisione del concordato con la Chiesa cattolica, cedendo su punti decisivi come l'insegnamento della religione nelle scuole. E' una cosa che da convinto laicista non gli so francamente perdonare, come non so perdonargli le aperture di quegli anni a Comunione e Liberazione. Sempre Craxi - e di nuovo per un malriposto opportunismo - sposò la politica proibizionistica e repressiva in fatto di lotta alla droga, mandando a farsi benedire la tradizione libertaria del Socialismo italiano. Su queste cose non ci si sarebbe dovuti permettere di sbandare.
Ancora: Craxi abolì la scala mobile, permettendo di mettere un freno alla spirale dell'inflazione. Fu una scelta difficile, ma non si può negare che fosse stata una scelta coraggiosa. Io penso che sia stato dopo tutto un bene sul piano politico. Era importante rompere in qualche modo il potere di veto del PCI, che allora controllava la CGIL (che in realtà non voleva il referendum, ma lo dovette subire). Bisognava riaffermare il primato della politica e anche salvaguardare il principio dell’autonomia sindacale.
Nel merito, peraltro, è anche vero che il prezzo di quella politica deflazionistica fu principalmente fatto pagare ai lavoratori (che in realtà, a dispetto di quel che diceva la propaganda di allora, hanno poi visto, nel corso degli anni, diminuire sensibilmente il loro potere d'acquisto). Forse in quel momento non c’erano molte alternative, ma sulla questione il giudizio rimane quanto meno controverso. Non c’è dubbio però che mentre agli operai Craxi toglieva gli scatti della contingenza, agli Agnelli “regalava” l'Alfa Romeo affinché la smantellassero in poco tempo (e tra l’altro nessuno ci è venuto mai a raccontare se per caso gli Agnelli avessero regalato qualcosa a Craxi per ringraziarlo: forse che di casa Agnelli è proibito parlare?).
Sempre Craxi è stato poi tra i responsabili (ma in questo non è stato il solo) della gigantesca voragine del debito pubblico. I problemi economici che oggi gravano sulle nostre spalle e che graveranno domani su quelle dei nostri figli sono in massima parte imputabili ad una politica di sperpero che Craxi condivise in pieno e di cui porta la responsabilità.
Craxi per giunta protesse Berlusconi, avallando – anche con brutte leggi “su misura” – la sua non limpida scalata alla concentrazione di un enorme potere mediatico ed editoriale. Io francamente non credo che oggi Craxi sarebbe un berlusconiano, ma certo dobbiamo anche a Craxi (sebbene non soltanto a lui) se oggi ci troviamo questo pagliaccio sul groppone.
D'altro canto - sul conto delle voci con segno positivo - io ricorderei che dobbiamo in buona misura a Craxi il fatto che all'Italia sia stata risparmiata quella che sarebbe stata l'esiziale esperienza del compromesso storico. Craxi fu in effetti uno strenuo avversario del compromesso storico (che identificava come un abbraccio mortale tra comunisti e democristiani, a spese di tutti gli altri).
In questo egli mostrò a mio parere di avere una visione più lungimirante ed aperta della democrazia (anche se era forse l'istinto autoconservativo la principale molla della sua azione). Per lui infatti la democrazia doveva fondarsi sull'alternanza di forze contrapposte, e non sullo "storico" saldarsi di grandi tradizioni politiche (a mio modo di vedere non c'è del resto niente di più micidiale e becero, sul piano culturale, del cosiddetto cattocomunismo).
Certo, anche Craxi, naturalmente, strinse delle alleanze con la DC. Ma nella sua visione politica questa alleanza, e perfino il famigerato ed orrendo CAF (il patto spartitorio con Andreotti e Forlani), fu sempre pensata come una necessità tattica, come una soluzione transitoria imposta dalla realtà di un sistema bloccato. Non a caso Craxi concepiva quell'alleanza in termini fortemente conflittuali. Il compromesso con i democristiani, in altre parole, era per lui una soluzione puramente contingente, non un disegno di prospettiva strategica. Sul lungo periodo Craxi si poneva certamente l'obiettivo di mandare la DC all'opposizione, mentre Berlinguer, al contrario, giudicando impercorribile la strada di una sfida della Sinistra alle forze moderate, aveva immaginato il compromesso "storico" tra cattolici e comunisti, come una sorta di incontro epocale. Dal mio punto di vista continuo a ritenere di gran lunga più limpida ed apprezzabile la visione di Craxi rispetto a quella di Berlinguer, la quale era per certi versi una prospettiva non democratica, proprio perchè il compromesso storico avrebbe imprigionato la democrazia italiana nella morsa asfissiante della grande alleanza tra le due "Chiese", mentre Craxi si poneva il problema di arrivare ad una democrazia compiuta.
Insomma, come vedete, luci e ombre, chiari e scuri.
Personalmente, peraltro, io ho sempre ritenuto che tutta la vicenda di Craxi - Tangentopoli compresa - si possa spiegare alla luce di un dato centrale: una preoccupazione dominante, e direi quasi ossessiva, che segnò interamente il suo percorso politico (dagli esordi negli anni Cinquanta come giovane autonomista nenniano, fino alla caduta clamorosa del 1993). Questa preoccupazione dominante era quella di spezzare l'egemonia comunista sulla Sinistra Italiana; di ribaltare i rapporti di forza a Sinistra.
Il fatto che in Italia la Sinistra fosse egemonizzata da un Partito Comunista, e non da un Partito Socialdemocratico come nel resto dell'Europa Occidentale, era per Craxi un'anomalia dolorosa (e, in questo, io credo che egli avesse pienamente ragione, come del resto viene oggi riconosciuto in ampia misura anche da molti degli stessi ex-comunisti!).
Dunque l'obiettivo di Craxi, che accompagnò tutta la sua vicenda, fu fondamentalmente sempre quello di dover fare di tutto per poter porre termine a quello stato di cose.
Craxi sperava di poter fare come fece Mitterrand in Francia: Mitterrand nel 1971 aveva raccolto un partito socialista (la vecchia SFIO) ridotto al 5 %, e in pochi anni seppe trasformare il nuovo PSF nel primo partito di Francia, mettendo all'angolo i comunisti (e costringendoli ad allearsi con lui). Ebbene: Craxi inseguiva lo stesso disegno, perseguiva la stessa prospettiva, e tutta la sua azione politica si può in un certo senso comprendere alla luce di questo disegno.
Sì, anche Tangentopoli, lo ripeto, si può in una qualche misura spiegare in questa chiave.
Craxi infatti, cresciuto nella pratica del realismo politico di Nenni, immaginò che la sfida a Sinistra si dovesse vincere in primo luogo affermando la centralità socialista sul terreno dell'occupazione del potere.
Il punto però è che il perseguimento di questo obiettivo in breve finì per oscurare tutto il resto.
L'occupazione del potere, la ricerca di un consenso puramente clientelare, e la necessità di denaro per perseguire tale disegno, finirono per diventare nel corso degli anni Ottanta uno dei tratti dominanti del PSI craxiano, fino ad assumere delle valenze pervasive, che fecero perdere completamente di vista identità, idealità, e valori.
Il PSI di Craxi si lasciò completamente travolgere da questa logica compulsiva. E a un certo punto la ricerca della centralità socialista arrivò a perdere ogni connotato di strumentalità e divenne il fine principale della politica socialista. Si voleva il potere per il potere, il denaro per il denaro.
Si fece strada una mentalità predatoria. Il PSI craxiano, a cominciare proprio dallo stretto enoturage del leader, si trasformò in un certo senso in una banda di predoni.
Di questa trasformazione Bettino Craxi porta oggettivamente delle enormi responsabilità. Il PSI non fu ucciso da un "complotto politico-giudiziario", come molti socialisti continuano ancor oggi a pensare. Il PSI crollò perchè era un partito ormai marcio. E la più completa cecità di fronte alla "questione morale" condannò il PSI alla rovina.
A fronte di questa degenerazione prodottasi nel campo socialista, è in fondo del tutto comprensibile che Berlinguer - legato, per parte sua, ad un'idea ascetica della politica - avesse sentito sempre più forte il bisogno di rimarcare la sua distanza abissale rispetto a ciò che il PSI stava diventando.
Sarebbe però a mio avviso un errore sottolineare questa componente morale di Berlinguer ,senza cogliere anche l'altro lato della medaglia, che era quello - diciamolo pure - dell'ipocrisia comunista.
Berlinguer infatti esaltava la diversità e la dignità comunista (a fronte della volgarità e della crassa arroganza craxiane), ma intanto il suo partito partecipava anch’esso al sistema delle tangenti (seppure in forme peculiari, come ad esempio attraverso l’espediente di riservare quote di lavori pubblici, a costi maggiorati, alle imprese cooperative, facendo poi ricadere parte di quel “plusvalore” verso le casse del partito).
Ma quel che è peggio è che il PCI di Berlinguer, nonostante tutti gli "strappi", continuava regolarmente ad intascare sotto banco migliaia di dollari (anzi di rubli) dal Partito Comunista Sovietico. A parole il PCI aveva più volte preso le distanze dall'URSS (quell'URSS che aveva mandato i carri armati a Praga nel '68, che aveva invaso l'Afghanistan nel '79, che aveva di fatto soffocato la stagione polacca di Solidarnosc nell '81). Ma in concreto il grande apparato del PCI berlingueriano continuava a mantenersi in piedi anche grazie a quello che Gianni Cervetti (colui che materialmente procedeva alla riscossione degli assegni) ha chiamato in un suo libro "L'oro di Mosca".
Troppo comodo proclamarsi "diversi" mentre si viene cospicuamente foraggiati da una grande potenza straniera (oltre tutto da una potenza imperiale che si regge sulla negazione della libertà e sull'oppressione dei popoli ad essa soggetti)!
E non dimentichiamo, dopo tutto, che mentre il PCI di Berlinguer si faceva finanziare dall'URSS, Craxi finanziava (magari anche con i proventi delle mazzette) i movimenti del dissenso nei paesi dell'Est. Anzi, tra le cose di cui io sono particolarmente orgoglioso nei miei ricordi di militante socialista nell'era di Craxi, vi è proprio il fatto di avere potuto collaborare, da giovane attivista, alla campagna elettorale che nel 1984 portò Jiri Pelikan ad essere eletto al Parlamento Europeo. A Strasburgo andò a sedere un esponente del dissenso cecoslovacco, portando così in quella sede la voce di chi si batteva per la libertà.
Allora, nel 1984, io avevo vent'anni anni, e anche se non tutto nel PSI mi andava a genio, ero ancora decisamente un craxiano convinto.
Il mio entusiasmo per Craxi risaliva a qualche anno prima, al tempo della cosiddetta "polemica ideologica" del 1979, quando Craxi - con il famoso saggio su Proudhon (che fu scritto probabilmente da Luciano Pellicani) - rilanciò tutto il valore della tradizione del Socialismo libertario di contro alla tradizione leninista.
Sulla scorta di quella polemica culturale, io feci delle letture che hanno di fatto segnato tutta la mia vita. A Craxi, e alla sua iniziativa di allora, posso dunque riconoscere di dovere in qualche modo la scoperta, già intorno ai sedici-diciassette anni, della migliore letteratura del Socialismo europeo.
In un'epoca in cui i miei coetanei si lasciavano prendere dal cosiddetto "riflusso" e dalle lusinghe del disimpegno, e mentre altri ancora si attardavano a inseguire stanchi miti rivoluzionari e di violenza, a me, adolescente, capitò di imbattermi felicemente nel Socialismo liberale, e in autori come Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Eduard Bernstein: fu un incontro felice, che mi portò ad approfondire quello che ancora oggi io considero un imprescindibile referente culturale e ideale (anche se devo riconoscere, a tale riguardo, di dovere moltissimo anche a mio padre, che di quei libri e di quegli autori aveva da tempo riempito la biblioteca di casa).
Tornando al 1984, ricordo anche che nell'inverno di quell'anno mi capitò di trovarmi a Verona per assistere a quel celebre congresso socialista in cui Berlinguer (che sarebbe poi morto pochi mesi più tardi) venne sonoramente fischiato. Io c'ero, e fui tra coloro che fischiarono.
A più di vent'anni di distanza, devo dire che non sono pentito di quei fischi.
Certo: oggi, a differenza di allora, sono disposto a riconoscere che nell'insistenza di Berlinguer sulla sua "diversità" antropologica rispetto al craxismo, nel suo bisogno di rimarcare le distanze rispetto alla volgarità, all'ostentazione, e all'arroganza del PSI craxiano c'erano moltissime ragioni valide.
Rispetto a quel modello politico, di spregiudicatezza, di rampantismo, di arroganza, di cinismo, Berlinguer aveva intuito la necessità di ribadire un'assoluta estraneità, di ordine nemmeno politico, ma appunto morale, cioè prepolitico.
Però, lo ripeto, c'era per me qualcosa di ipocrita in quell'atteggiamento, perchè si respingeva il rampantismo craxiano senza fare fino in fondo i conti con la pesante eredità comunista. In questo, non tanto la persona di Berlinguer, ma tutta la storia del PCI - questa storia fatta continuamente di svolte, ma mai di una vera e piena assunzione di responsabilità - meritava a mio avviso di essere fischiata.
In Craxi questa componente di ipocrisia invece non c'era. Craxi, bisognerà pur dirlo, non fu mai un ipocrita.
Il suo celebre discorso alla Camera del 1993, quando disse chiaramente che il sistema di finanziamento dei partiti era quello che era, e che non c'era nessuno in quell'aula che potesse dire di non esserne a conoscenza, fu oggettivamente un discorso onesto: per lo meno sul piano dell'onestà intellettuale.
Il punto però è che quel discorso, oltre ad essere un discorso per molti versi banditesco, che tradiva quasi del sarcasmo per l'idea stessa di legalità, era in fondo anche l'autodenuncia di un autentico fallimento storico.
Perchè, certo, era effettivamente ipocrita e codino chi cercava di nascondere che quello fosse il sistema. Ma lui, Craxi, non si era forse adagiato completamente in quello stato di cose? Non ci aveva sguazzato?
Si era forse mai posto il problema di dover fare qualcosa per modificare la situazione? Macchè! Anzi, aveva sempre irriso con fastidio chiunque lo avesse criticato su questo punto. A sollevare la questione morale nel PSI si veniva presi semplicemente per dei mentecatti e degli sprovveduti.
Ma Craxi era il leader di un partito che si definiva socialista, e che come tale avrebbe dovuto porsi più di ogni altro il problema di farsi portatore di una differente eticità politica, di un senso alto dello Stato e della cosa pubblica, di una difesa chiara della legalità. Che ne è infatti del Socialismo se ci si riduce a diventare esattamente eguali agli altri (e anzi peggio degli altri, proprio per quella smaccata e arrogante ostentazione di amoralità)?
Il discorso di Craxi del 1993 fu certamente un discorso senza ipocrisia, ma fu anche un discorso che mise drammaticamente in luce come Craxi avesse portato il suo partito a perdere drammaticamente la propria ragione d'essere.
Il PSI di Craxi aveva del resto da tempo perduto la propria identità socialista anche perchè Craxi aveva di fatto ucciso la democrazia interna.
Il vecchio PSI pre-craxiano, con le sue correnti, le sue lacerazioni, le sue divisioni era un partito ancora relativamente democratico al proprio interno. Una Babele, certo, ma una Babele in cui il dibattito politico ed il confronto culturale costituivano una ricchezza importante. Il PCI, dove vigeva un'agghiaggiante (e, di nuovo, ipocrita) abitudine ad esibire sempre uno stolido unanimismo di facciata, se la sognava una vitalità politica di quel genere!
Nel suo disordine, nel suo caos spesso inconcludente, il PSI pre-craxiano era dunque un partito vivo. Un caso interessante da studiare, per chi, come me, si interessa delle forme della politica! Sta di fatto però che questa vivacità, questa ricchezza di dibattito politico, con Craxi finì in breve per inaridirsi completamente.
Craxi non sopportava il dissenso. Non amava le critiche. E nel giro di qualche anno riuscì a imporre ordine nel vecchio PSI, ad un prezzo che fu però molto alto.
Una volta - sarà stato (credo) il 1986 - il figlio di Craxi, Bobo, col quale all'epoca mi capitava di incontrarmi abbastanza spesso, mi sorprese con una frase che mi raggelò, e che non ho mai dimenticato.
Mi disse: "vedi, io sono come mio padre: preferisco un leccaculo, che so che mi seguirà per tornaconto personale, piuttosto che qualcuno che si picchi di pensare con la sua testa, e che si permetta di criticare". Per me quella frase fu fulminante, come una frustata.
Che nel PSI ci fosse un certo andazzo a propendere verso l’adulazione l'avevo in realtà ormai compreso (con non poco fastidio). Ma che il principio di un partito fondato sull’adulazione venisse così palesemente conclamato (ed elevato quasi a massima politica) mi colpì molto, e fu anche per quello, tra l’altro, che, più o meno in quel periodo, io smisi di considerarmi craxiano (restando però socialista).
Quella frase d'altronde esprimeva bene quello che era diventato il PSI sotto Craxi. Craxi aveva in effetti fatto proprio questo: aveva trasformato un partito indisciplinato, ma pieno di spiriti liberi, in un partito di leccaculo, appagati di perseguire il loro tornaconto personale all'ombra del leader indiscusso. In questa sua opera, diciamo così, di “disciplinamento” (o di “normalizzazione”), Craxi mostrò di avere una concezione che non direi nemmeno feudale, ma piuttosto barbarica, della politica. La fedeltà alla leadership contava più di ogni altra cosa.C’era un capo cui si doveva assoluta dedizione, e in cambio si veniva ammessi alla spartizione del bottino (in nome di quella logica predatoria di cui parlavo sopra). Davvero è un’immagine che richiama per molti versi quella di quei capi barbarici, circondati dai loro “antrustiones”, di cui parlava Tacito nella “Germania”.
Nel PSI di Craxi non a caso, coloro che portavano idee furono ben presto emarginati, mentre emergevano coloro che si piegavano al capo (o che entravano in qualche modo in affari con lui).
Riccardo Lombardi aveva intuito precocemente questo processo, e sin dal 1979 aveva denunciato il farsi largo di un pericoloso Führerprinzip nel PSI, ed aveva parlato di una preoccupante "mutazione genetica" nel corpo del partito. E in effetti la selezione della classe dirigente nel PSI craxiano fu oggettivamente qualcosa di spaventoso. Ci fu una sorta di liquidazione sistematica dei migliori, a vantaggio di quella banda di personaggi variegati, che Rino Formica una volta definì causticamente con la nota espressione di "nani e ballerine".
In questo contesto, un personaggio come il famigerato Mario Chiesa, che pensava di poter diventare sindaco di Milano estorcendo più denaro degli altri, e conquistandosi per questa via l'attenzione e la benevolenza del "capo", non fu la figura estemporanea di un mitomane o di un pazzo: era la corretta espressione antropologica di quello che il PSI era diventato. Il PSI di Craxi nel corso degli anni Ottanta finì per diventare un partito di ladri e di yes men. E questo deve pure essere ricordato.
Lo ripeto. Per me è difficile fare un discorso sereno su Craxi, perchè è un argomento che mi coinvolge non poco. In Craxi, come ho detto, ci sono dopo tutto anche delle luci, e queste dovrebbero indurci a mio avviso a non liquidarlo in modo troppo sbrigativo, come pura negatività.
Ci sono parimenti molte ombre, e queste dovrebbero sconsigliare di fare di Craxi quell'immaginetta o quel santino che qualcuno oggi vorrebbe proporre.
Craxi resta Craxi: una figura controversa da studiare e da ripensare in modo critico e meditato, con rispetto anche, ma cercando soprattutto di soppesare con attenzione i pro e i contro.
La cosa peggiore, forse, è respingerlo o riabilitarlo così, a cuor leggero, senza lo sforzo di affontare fino in fondo le questioni scomode che la sua vicenda solleva (in positivo come in negativo), e senza trarre un vero ammaestramento da quel che è stato.
Un saluto.
Francesco Somaini.
1 commento:
tutto molto giusto, ma i socialisti in francia presero di petto la situazione e Miterand non si abbassò a fare il Caf con l'RPR e l'UDF. Craxi molte molte predicava, dal punto di vista "socialdemocratico", bene ma razzolava malissimo
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