mercoledì 10 settembre 2008

bidussa: an

David Bidussa
In Alleanza nazionale prove di difesa di identità,
in “il Secolo XIX”, 10 settembre 2008, p. 17

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A proposito di come la leadership politica di Alleanza Nazionale ha commemorato l’8 settembre, sono intervenuti in molti. Complessivamente sono d’accordo con il Prof. Dino Cofrancesco, ovvero se fossi un editore non offrirei un contatto per scrivere un manuale di storia né al Ministro Ignazio La Russa né all’’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno. Ma il problema mi sembra riguardare il futuro di An più che il giudizio sul passato..
Che cosa è oggi Alleanza nazionale? Un gruppo dirigente di successo, ovvero una generazione di cinquantenni che all’indomani della Morte del segretario storico del Movimento sociali italiano, Giorgio Almirante, venti anni fa, aveva il problema di individuare e costruire il proprio futuro. Il varco allora era stato appena aperto dall’apertura di Bettino Craxi. Poi c’è stata “tangentopoli”, poi l’atout di Silvio Berlusconi su Gianfranco Fini sindaco di Roma (novembre 1993), poi l’occasione “Fiuggi” all’inizio del 1994.
Alleanza nazionale nasce sulla scorta di un’opportunità politica, su un vuoto di classe di governo determinata dalla falcidia giudiziaria della prima metà degli anni ’90, dalla possibilità improvvisa di passare dalla condizione di “reietti” a quella “onorabili”. E’ un percorso che è segnato dalla cooptazoione e che si consuma sostanzialmente senza grossi drammi interiori. In quel percorso, è vero qualcuno ha deciso di scendere (Francesco Storace, Teodoro Buontempo), insomma l’anima “popolana” della destra postfascista, ma nel complesso la compagine dei trentenni ha resistito sorretta da una generazione di “fratelli maggiori” (Pinuccio Tatarella, Altero Matteoli, p.e.) che hanno tentato e favorito il traghettamento verso il centro-destra.
Ma una volta arrivati il problema non è più come si fa a rimanere, il problema riguarda la propria identità. Il problema della compagine di An oggi in processo di transizione verso il Partito della libertà è questo. Ed’ è un problema né marginale, né privo di drammi. All’inizio della costruzione del partito dea destra, così come accennato da Silvio Berlusconi il 30 novembre scorso (nel famoso discorso del “predellino”) poteva sembrare un’impresa allegra all’insegna dello sfondamento al centro.
Ma passati alcuni mesi e, soprattutto, valutati attentamente i risultati elettorali e ilpeso specifico della Lega, il tema dell’identità e del futuro di An è tornato a popolare i sogni e forse più propriamente gli incubi – degli “ex trentenni”. Perché l’attuale situazione politica dice una cosa molto semplice. Che non è vero che sia finito il partito di massa del Novecento, quel partito ha forza ancora di attrazione se riesce a coniugare identità con radicamento territoriale. Nel panorama italiano l’unico attore politico in rado d esprimere questa condizione è la Lega. Ma proprio per questo aspetto An avverte due pericoli nella propria navigazione politica verso il costituendo Pdl: che il rischio è di finire in una compagine che non ha radicamento, che vive per la capacità carismatica di una leadership che non si sa quanto durerà, e che soprattutto se nasce sull’onda dell’entusiasmo rischia poi di non reggere nell medio periodo e di infrangersi sulle secche delle rivalità interne (alla fine questa è la fisionomia attuale del Pd). Il secondo pericolo che An avverte è che l’unica tavola di valori e di parole che oggi si afferma è quella della Lega a cui si deve rispondere in termini di ritrovato nazionalismo italiano.
E’ per questo (più che non per recuperare alla sua destra) che oggi An non avendo costruito una cultura politica nuova, torna a mettere sul piatto la sua identità di partenza dicendo, esplicitamente, che fare i conti con quella non equivale a buttarla via e, implicitamente, che se si vuol costruire una destra in Italia anche con quella identità bisogna fare i conti, non per liquidarla, ma per assumerla, depurata, rivista, rivisitata, ma non espellendola. Altrimenti il risultato finale è ritrovarsi a fare le figure di scena in una scenografia stabilita da altri e soprattutto con il rischio di “essere nessuno”.

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